HABEAS MENTEM di Danilo Zolo
Assieme a Norberto Bobbio, Danilo Zolo è stato uno dei maggiori giuristi e filosofi del diritto del nostro Paese. Pubblichiamo qui l’ultima parte di un suo saggio scritto nel 2009 dal titolo NUOVI DIRITTI E GLOBALIZZAZIONE. In questione è l’impatto dei mezzi di comunicazione di massa sulla formazione dell’opinione pubblica, la conseguente manipolazione delle identità personali e collettive, le formidabili pressioni dell’autonomia dei cittadini, le letali conseguenze alle effettive libertà politiche. In ballo, insomma, il destino della democrazia. Zolo denunciava i gravissimi pericoli della società tecnotronica. Eravamo nel 2009. 15 anni dopo, data la straripante avanzata dei “social network”, l’uso di micidiali algoritmi per scavare gli esseri umani come miniere per estrarre dati di ogni tipo, l’avvento della “intelligenza” artificiale e la diffusione di dispositivi che consentono una capillare sorveglianza sociale; la situazione è ancora più spaventosa. E’ in questo contesto che, sull’onda del giurista argentino Roberto Andorno, si parla di “neurodiritti”: alla libertà cognitiva, alla riservatezza e all’integrità mentale, alla continuità psicologica.
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«Un ultimo nuovo diritto che merita di essere discusso è quello che è stato chiamato habeas mentem o, meno evocativamente, autonomia cognitiva.
Con questa espressione si intende la capacità del soggetto di controllare, filtrare e interpretare razionalmente le comunicazioni che riceve, in particolare le comunicazioni elettroniche. Entro società informatizzate, si sostiene, la garanzia giuridica dei diritti di libertà e dei diritti politici rischia di essere un guscio vuoto se non include l’autonomia cognitiva: se questa manca, è impensabile che si formi un’opinione pubblica indipendente rispetto ai processi di autolegittimazione promossi dalle élites politiche ed economiche al potere.
In presenza di una crescente efficacia persuasiva dei mezzi di comunicazione di massa, il destino della democrazia in Occidente sembra dipendere dall’esito della battaglia a favore di questo nuovo, fondamentale diritto umano. Bobbio ha affermato molto esplicitamente che nelle democrazie occidentali è in atto una inversione del rapporto fra «controllori e controllati, poiché attraverso l’uso spregiudicato dei mezzi di comunicazione di massa ormai gli eletti controllano gli elettori» (N. Bobbio, L’età dei diritti, 1990, p. XV). In poche parole, secondo Bobbio lo strapotere dei mezzi di comunicazione di massa e la loro gestione monopolistica stanno uccidendo la democrazia e la stanno trasformando in una tirannia videocratica. È il supremo valore della libertà che viene intaccato nella sua sfera più delicata, quella della autonomia intellettuale dei cittadini.
Come è noto, i più recenti sviluppi della tecnologia informatica vengono esaltati, non solo nel mondo del business multimediale, come l’avvento della comunicazione interattiva. È ormai alle porte, si sostiene, la seconda rivoluzione informatica che porterà nelle case di tutti efficientissime Stazioni multimediali domestiche (SMD) e avvolgerà il pianeta in una rete di interconnessioni globale e capillarmente diffusa. Una delle conseguenze positive, si assicura, sarà l’accrescimento della cultura e della competenza politica e, soprattutto, l’affermarsi di nuove forme di partecipazione. Grazie all’uso di sofisticate apparecchiature elettroniche – teleconferencing, opinion-polling systems, automated feedback programmes, two-way cable television ecc. – i cittadini saranno finalmente in grado di impegnarsi in un quotidiano bricolage politico. L’agorà elettronica uscirà dal mito e si incarnerà nelle forme di una instant referendum democracy.
Molti autori usano ormai correntemente l’espressione cultura globale e ne raccomandano il concetto. Ma naturalmente, anche per quanto riguarda il bilancio degli effetti positivi e di quelli negativi della globalizzazione informatica – televisiva e telematica –, ci sono opinioni molto differenziate fra gli esperti di mass media e fra i sociologi della globalizzazione. Si può dire, schematizzando, che per quanto riguarda il mezzo televisivo l’opinione prevalente è che la sua diffusione planetaria promuove un notevole incremento della competenza linguistica, dell’informazione e della cultura generale. E questo andrebbe a vantaggio soprattutto delle minoranze culturali in varie forme emarginate e dei popoli geograficamente periferici. La cultura globale – una cultura cosmopolita, ricca e complessa – prevarrebbe sui localismi e tribalismi tradizionali e sarebbe perciò la premessa per il formarsi di una global civil society. E questa sarebbe a sua volta la premessa per una unificazione anche politica del pianeta nella direzione della tolleranza, del pluralismo, della democrazia e della pace. Sarebbe, insomma, soprattutto il mezzo televisivo l’artefice della trasformazione che ha fatto del mondo anarchico degli Stati sovrani il ‘villaggio globale’ profetizzato da Marshall McLuhan, nel quale è ormai stabilmente presente una ‘opinione pubblica mondiale’. Secondo Habermas la diffusione globale dei mass media elettronici ha sviluppato rapporti di intimità civile fra tutti gli uomini, realizzando una sfera pubblica planetaria e aprendo la strada alla società mondiale (Weltgesellschaft) e alla cittadinanza universale.
Ovviamente, sarebbe miope non riconoscere che grazie alla televisione e agli altri strumenti di comunicazione elettronica l’orizzonte culturale e il ventaglio delle possibili esperienze umane si sono grandemente dilatati. Non c’è dubbio che per molti in Occidente, anche grazie alla televisione, l’esperienza culturale è divenuta più ricca e più complessa. E tuttavia l’eccessiva pressione simbolica alla quale le persone sono sottoposte rende difficile selezionare razionalmente i contenuti della comunicazione. Per nessuno, neppure per lo specialista più esperto, è facile controllare i significati e l’attendibilità dei messaggi che riceve, né stabilire una relazione interattiva con la fonte emittente. E si prevede che la comunicazione politica, dominata dal codice televisivo del successo, della spettacolarità e della personalizzazione, tenderà a svuotarsi ancora di più dei suoi contenuti argomentativi e razionali e ad alimentare nuove forme di delega plebiscitaria. Secondo alcuni analisti, questa potrebbe essere una delle ragioni del declino della partecipazione politica e del senso di appartenenza che oggi caratterizza società intensamente informatizzate come quella nordamericana.
D’altra parte sembra che la capacità di attenzione dei soggetti, anziché accrescersi, tenendo il passo con l’aumento della complessità sociale, tenda a ridursi sempre di più. Si riduce proprio perché cresce la quantità, la varietà e l’intensità degli stimoli che riescono a catturare, anche solo per un attimo, l’attenzione degli ascoltatori. Probabilmente per queste ragioni, come aveva già intuito Joseph Schumpeter settant’anni fa, le strategie della comunicazione multimediale puntano sempre più consapevolmente su forme di persuasione subliminale, a cominciare dalla pubblicità commerciale, dai sondaggi di opinione e dalla propaganda politica. Anziché fare appello all’attenzione consapevole del pubblico, queste tecniche comunicative tendono ad aggirarla, puntando su stimolazioni cognitive ed emotive segretamente associate ai contenuti o ai modi della comunicazione. Ne derivano delicati problemi di costituzione delle identità personali, di autonomia dei soggetti, di formazione dell’opinione pubblica e, in definitiva, di funzionamento dei meccanismi decisionali di uno Stato democratico. Cambiano il senso e i contenuti della libertà politica e cambia, in profondità, il rapporto fra l’opinione pubblica, la cultura politica diffusa e i vertici del sistema politico.
La comunicazione pubblicitaria diffonde messaggi simbolici fortemente suggestivi che esaltano il consumo, lo spettacolo, la competizione, il successo, la seduzione femminile e stimolano, in generale, le pulsioni acquisitive. Questi valori, nettamente caratterizzati in senso individualistico, contraddicono l’idea stessa di una sfera pubblica. Si è sostenuto, per es., che la comunicazione televisiva non solo non produce l’intimità civile e la fiducia politica che è alla base dei rapporti organici di un villaggio, ma è all’origine dell’atomizzazione sociale delle metropoli contemporanee, dove le persone vivono l’una accanto all’altra senza conoscersi e senza alcuna sensibilità empatica: è lo spazio di debole o debolissima solidarietà della società tecnotronica.
Se per democrazia si intende, in un’accezione prudente e minimale, un regime nel quale la maggioranza dei cittadini è in grado di conoscere e di controllare i meccanismi della decisione politica e di esercitare direttamente o indirettamente una qualche influenza sui processi decisionali, allora ci sono molti dubbi che le tecnologie telematiche possano contribuire a una diffusione dei valori e delle istituzioni democratiche. La possibilità di prendere decisioni politiche pertinenti dipende assai meno dalla disponibilità di tecniche di comunicazione rapida che non dalla capacità degli attori sociali di controllare e selezionare criticamente le proprie fonti cognitive, in un contesto di generale trasparenza sia dei meccanismi di emissione sia dei processi decisionali. Un decision-making democratico richiede, più che elevate competenze e abilità informatiche da parte dei cittadini, un’efficace tutela del pluralismo delle emittenze, della libertà degli informatori e della autonomia degli informati. Jacques Derrida ha sostenuto che senza una lotta contro la concentrazione e l’accumulazione comunicativa la democrazia è destinata a divenire una pura finzione procedurale all’interno degli stessi ambiti nazionali, prima ancora che essa possa essere esportata – come molti in Occidente pretendono – grazie alla proiezione planetaria delle tecnologie elettroniche.
C’è chi, non del tutto impropriamente, ha usato l’espressione digital apartheid per indicare la barriera elettronica che in ambito nazionale e internazionale separa le minoranze dotate di autonomia cognitiva dalle grandi maggioranze che ne sono prive e che, sia pure in forme ancora molto incerte e fragili, ne rivendicano il diritto».
Ricordo molto bene di aver invitato Danilo Zolo a Salerno nel maggio 1996 nell’ambito del X ciclo di conferenze della Società filosofica italiana a presentare il suo libro ” Da Norimberga a Bagdad: la giustizia dei vincitori” insieme ad un giovane Nello Preterossi. Anche in quella sede Zolo sottolineò da par suo il nesso sempre più forte tra dominio ideologico e potere politico, economico e militare, fra ideologia e struttura economico-sociale.