RACCOMANDATA… CON RICEVUTA DI RITORNO di Sandokan
Nel gennaio 1990 due cittadini italiani, Moreno Pasquinelli ed Enrico Mascelloni, che avevano all’incirca la stessa età di Cecilia Sala oggi (arrestata recentemente dall’autorità iraniana, imprigionata a Teheran e appena rilasciata), furono incarcerati dalle autorità egiziane a Nweiba nel Sinai, rinchiusi in uno spettrale carcere militare, e quindi ripetutamente interrogati nei giorni successivi.
Il quadro internazionale di allora, in specie in Medio Oriente, non era meno conflittuale e problematico di quello attuale: si era appena concluso il decennale conflitto Iran-Iraq, alla vigilia dell’invasione mondiale a guida USA dell’Iraq (Guerra del Golfo del 1991) e nel pieno della prima Intifada. Il Sinai stesso, restituito da Israele all’Egitto nel 1979, restava, di fatto, sotto amministrazione congiunta israelo-egiziana; e mentre Sharm el-Sheikh era ancora un ignoto villaggio di pescatori, permaneva nella penisola un’assidua frequentazione di giovani israeliani che sin dagli anni ’70 consideravano il Sinai come un loro ambito nazionale di svago vagamente frikkettone.
Le vicende di Mascelloni e Pasquinelli e quella della giornalista Cecilia Sala, simili nella meccanica degli eventi — arresto in un Paese medio orientale, assenza di reati riscontrabili, incarceramento severo, durata limitata grazie a intervento esterno, totale silenzio delle autorità dei due Paesi sulla ragione dell’arresto —, permettono di aprire un’interessante analisi comparativa su come vengono tutelati, tanto dalle autorità politiche italiane che dalla stampa nostrana, i cittadini italiani arrestati all’estero per motivazioni chiaramente politiche.
Soprattutto ci si deve soffermare sulle modalità di detta tutela, altamente differenziata in base all’identità politica dei soggetti in questione. Mascelloni e Pasquinelli, militanti antimperialisti, già vittime della caccia alle streghe che segnò i cosiddetti “anni di piombo”, buoni conoscitori del Vicino Oriente, della sua lingua, delle sue culture e delle sue dinamiche politiche, vennero arrestati dalle autorità egiziane mentre dal porto di Nuweiba stavano per imbarcarsi alla volta di Aqaba in Giordania, e da lì proseguire verso Damasco, dove erano previsti incontri con i movimenti di liberazione palestinesi da tempo in aperta rottura con Arafat — di lì a poco saranno siglati gli “Accordi di Oslo” con Israele.
Non solo le autorità italiane non misero in atto alcuna azione di tutela dei due italiani. L’alto ufficiale dei Servizi di Sicurezza egiziani, inviato apposta in elicottero dal Cairo per interrogare i due malcapitati, verificato che non avevano stabilito in Egitto alcun contatto con elementi “sovversivi”, all’atto della scarcerazione e della consegna ai due di un Decreto di Espulsione dall’Egitto, volle “scusarsi” affermando che anche lui “era filo-palestinese”, e che le autorità egiziane avevano agito su “raccomandazione” delle autorità italiane. Quindi precisò che i due dovevano la scarcerazione a non meglio specificate autorità palestinesi e arabe (ovvero il Fronte Popolare-Comando Generale di Ahmed Jibril e dalla Repubblica Araba di Siria) che erano rapidamente state messe al corrente della questione e avevano garantito per loro.
Non solo quindi i nostri non vennero tutelati dal governo italiano, vennero al contrario deliberatamente dati in pasto ad un regime, quello egiziano di Hosni Mubarak, famigerato per la sua tirannia ed i metodi crudeli di repressione verso ogni opposizione, laica o islamica che fosse, ed i movimenti che condannavano gli Accordi di Camp David tra Egitto e Israele del settembre 1978. Vale ricordare che il Presidente egiziano Anwar al-Sadat, che quegli accordi siglò, perse la vita nel 1981 in una spettacolare azione militare dalla Jihad egiziana. Ma, a proposito di “tutela” delle autorità italiane, la vicenda non finì lì. Al ritorno in Italia, dopo qualche settimana, vi fu in effetti, come nel caso della Sala, “un’accoglienza ufficiale” ma non trionfale come per la Sala: l’aereo in arrivo da Damasco via Larnaca venne dirottato in una pista laterale dell’aeroporto di Fiumicino e i due vennero trattenuti da effettivi dei Servizi Segreti italiani che li interrogarono a lungo prima di rilasciarli.
Morale della favola: se sei un avversario politico del regime politico italiano e uno Stato estero ti cattura, scordati di avere lo stesso trattamento di Cecilia Sala. Il governo non giungerà in tuo soccorso, sei fortunato se non finisci nell’oblio (come nell’oblio sono seppelliti i più di duemila italiani attualmente detenuti all’estero). Una certa eco mediatica di questa dolorosa vicenda si manifestò soltanto dopo il ritorno in Italia, anche grazie ad un’interrogazione parlamentare di Democrazia Proletaria, che contestò l’assenza totale di tutela istituzionale nei confronti dei due.
Per la cronaca: quel Decreto di Espulsione non è finito nel dimenticatoio, è anzi tutt’ora valido e impedisce ai nostri di mettere piede in Egitto. Ne fece la spese il Pasquinelli molto tempo dopo, per l’esattezza nel febbraio del 2011 quando, invitato come giornalista dai movimenti egiziani di sinistra che manifestavano da un mese in Piazza Tahir (era la famosa “Primavera Araba”), venne subito bloccato all’aeroporto del Cairo e rispedito in Italia col primo volo.
Se Mascelloni e Pasquinelli godevano di una certa popolarità nel reparto dossier di DIGOS e affini, e potevano venire sommariamente registrati come “pericolosi militanti antimperialisti” assidui frequentatori dell’area Mediorientale (dunque particolarmente attenzionati); il caso di Sala è agli antipodi.
La giovane arrestata in Iran (laggiù per denunciare l’oppressione delle donne, il patriarcato e l’islamica presunta misoginia), fa parte dell’ampio gregge di giornalisti-pennivendoli occidentali rigorosamente schierati con il fronte atlantista. La figlia di papà ha collaborato non solo con Il Foglio (fondato da un confidente pagato e (reo)confesso della CIA), ma anche per Huffington Post, L’Espresso, Vanity Fair, Otto e Mezzo, per ultimo con Chora Media. Un gregge il cui servilismo sarebbe esilarante se non fosse tragicamente repellente. Putin? Un dittatore Criminale! Zelensky? Un eroe della libertà! Israele? La più bella democrazia del Medio Oriente? HAMAS? Terroristi colpevoli del pogrom del 7 ottobre! Sinwar? Uno psicopatico sanguinario…
Sala fa però anche parte del novero sempre più ampio degli “inviati più o meno speciali”. Molti tra essi cercano il colpo di fortuna mediale in qualche Paese disastrato di cui raccontano per l’ennesima volta il disastro. In genere non ne parlano la lingua e padroneggiano un bagaglio informativo che va raramente al di là di wikipedia, ma per i bisogni degli apparati mediali di referenza non serve altro. I loro servizi, rigorosamente intercambiabili tra ricorrenti banalità visive e una neolingua che aggira con astuzia da parroco, invero un po’ goffo, ogni spigolosità male interpretabile (“il conflitto a Gaza ha provocato oggi altri 160 morti”) in realtà non servono a niente e a nessuno se non a “fare massa”, cioè a favorire un convincimento per accumulo che deve toccare il quorum deputato al successo mediale, cioè arrivare a quel 80% che gli specialisti in comunicazione ritengono la soglia di sicurezza per imporre, in uno spazio geopolitico sufficientemente perimetrato (e sorvegliato), una visione determinata delle cose del Mondo. Poco importa che sia ormai poco più di un perizoma stracciato e puzzolente: nella placenta mediale la quantità si trasforma hegelianamente in qualità.
Una parte di questi inviati speciali sono propriamente degli “autoinviati”, nel senso che non sempre riescono a farsi coprire le spese di trasferta e puntano tutto sulla vendita del prodotto a qualche emittente (o giornale), operazione sempre più complicata in forza di una concorrenza che si fa crescentemente aggressiva e si mondializza (la semplicità e i bassissimi costi di produzione video e di traduzione simultanea rendono interessante anche il prodotto di un ragazzino afghano dotato di un minimo d’intraprendenza).
A questa plebe giornalistica, mediocre e pronta a tutto, si assomma, o per meglio dire si sottrae, una crème di più collaudata esperienza, in genere inviata dai maggiori quotidiani e dalle reti televisive di più ampia portata. Tuttavia la guerra in corso in territorio ucraino ha decretato il tracollo anche di questa componente, sotto i colpi di una manifesta ignoranza delle reali forze in campo, di una radicale incomprensione delle dinamiche del conflitto, di un forsennato tifo pro-ucraino che ha spesso rasentato il grottesco, riassunto dalla giornalista della BBC che subito dopo lo scoppio del conflitto, rivolta a Zelensky in visita a Londra, gli ha sussurrato con voce rotta: «Vorrei abbracciarla ma non posso». A quel punto Zelensky è sceso dal podio per abbracciarla davvero, mentre il capo del governo Sunak sorrideva commosso come nelle scene conclusive dei telefilm della serie “Torna a casa, Lassie”, laddove al posto del cane si poteva pensare Zelensky, o magari la giornalista. Il conflitto ucraino e il genocidio a Gaza hanno dunque accertato il collasso della vecchia crème giornalistica occidentale, sebbene qualcuno tra i più vecchi inviati, come Domenico Quirico, sembri ancora lasciar tracce di una qualche decenza informativa che risulta invece evaporata in un Lorenzo Cremonesi. In tale panorama Tiziano Terzani, ma anche Luigi Barzini e persino il fascistissimo Appelius appaiono davvero come giganti di un’epoca disparu.
Cecilia Sala, come numerosi colleghi, è allocata in una posizione ibrida e intermedia: a prima vista parrebbe far parte della componente meglio equipaggiata — dovrebbe anche ricevere uno stipendio decente e le spese di trasferta, a scanso del prodotto, peraltro assolutamente mediocre a prescindere dai contenuti; ma viene invitata ad alcune trasmissioni televisive e non va dimenticato che come tipica “figlia di papà” può parzialmente ovviare alle carenze di cui sopra—, ma in generale si comporta in maniera rigorosamente addomesticata come gran parte della plebe giornalistica, mai uscendo dal ben tracciato sentiero atlantista; trasgressione che un “grande inviato” deve pur intentare benché mai tradendo la fedeltà di fondo, quanto meno per dignità, per distinguersi da colleghi in piena gavetta.
Sala ha soprattutto la colpa di essersi trovata nel luogo sbagliato nel momento sbagliato, laddove si potrebbe ben dire che Pasquinelli e Mascelloni se la sarebbero cercata. Se è peraltro vero che questi ultimi sembrino a futura memoria gli ultimi e dispersi giapponesi di un antimperialismo attivo che lo stesso anno del loro arresto collasserà insieme alla Cortina di Ferro, è altrettanto fondato affermare che il loro antipode, la manodopera addetta alla manutenzione mediale dell ‘Occidente, non è mai, come in questi tempi, folta, tutelata, addomesticata a scanso di ormai desuete veline: la gavetta è tale e talmente umiliante che gli sembra l’atto più naturale del mondo scriversele da soli.