I SALARI, L’EURO E IL RIARMO di Leonardo Mazzei
Ormai lo sanno tutti: i salari italiani sono in calo da oltre trent’anni. Cioè, guarda caso, da quando è nata l’Unione Europea con i suoi trattati austeritari e la sua moneta unica. Adesso lo dice anche l’Oil, l’Organizzazione internazionale del lavoro. Dal 2008 ad oggi le retribuzioni degli italiani hanno perso l’8,7%, mentre quelle tedesche sono salite del 15%. Effetti speculari di una moneta nata per dissanguare il sud del continente.
Di fronte a questo esito, naturalmente omesso nella liturgia europeista dell’oscena piazza guerrafondaia del 15 marzo, qualcuno ci dirà che ove non fossimo stati nella “grande” Ue sarebbe andata pure peggio, poiché saremmo stati “troppo piccoli”. Peccato che anche l’Oil ci confermi che così non è. Tra i paesi del G20 l’andamento dei salari italiani è stato infatti il peggiore in assoluto. E nel G20 ci sono anche economie più piccole di quella italiana, dalla Turchia al Sud Africa, dall’Australia al Messico, dall’Argentina alla Corea del Sud, ma ovunque le cose sono andate molto meglio che nell’Italia “protetta” dalla “grande” Ue.
Ora che tutti hanno scoperto l’acqua calda del tracollo degli italici salari, una qualche risposta dovrebbe alfine imporsi. E invece no! Media e politici si lamentano della condizione salariale, ma guai a toccare il totem europeista. Ma allora, se proprio non si vuole aggredire la causa, che almeno si intervenga sugli effetti del fenomeno. Detto altrimenti: se si prende atto che i salari italiani sono straordinariamente bassi, che li si aumentino! Troppo facile, troppo banale? Secondo l’Oil no, visto che negli ultimi anni la produttività italiana è cresciuta assai più delle retribuzioni. Arriviamo così al tema dei profitti, quelli sì cresciuti a dismisura senza che ciò faccia il benché minimo scandalo.
Ma il taglio alle buste paga non è stato il frutto di un ineluttabile destino. Esso è invece la conseguenza della rinuncia alla leva monetaria, consegnata da un trentennio alla Bce. Ed è la conseguenza di politiche austeritarie decise dall’oligarchia eurista. Un effetto voluto e ricercato, che ben spiega il costante consenso di Confindustria a quelle scelte benché palesemente recessive. Per lorsignori sempre meglio una recessione con ricchi profitti, che una crescita con guadagni minori.
Che le cose stiano così è un dato di fatto, ma adesso abbiamo pure la pubblica ammissione di una persona informata dei fatti, il mancato Presidente della Repubblica Mario Draghi. Il 18 marzo, in audizione al Senato sulla “competitività europea”, ha così confessato:
«Noi abbiamo contratto i bilanci pubblici, sacrificato la spesa pubblica, abbiamo compresso i nostri salari anche perché eravamo in competizione con altri paesi europei e quindi tenevamo i salari più bassi come strumento di concorrenza. Austerità e salari bassi hanno creato una compressione della domanda».
Per una volta il “Vile Affarista” (copyright Francesco Cossiga) ha detto la verità. L’austerità ha portato alla riduzione dei salari, effetto voluto da Draghi e da quelli come lui onde aumentare la competitività (e, aggiungiamo noi, i profitti). Ma la competitività rispetto a chi? Rispetto, egli dice, agli altri paesi europei. Ma come? Stiamo insieme in un’assurda gabbia solo per farci la guerra l’un l’altro?
Intendiamoci, per quelli come noi – da sempre contro l’euro e l’Ue – nulla di nuovo, ma gli altri non hanno niente da dire? Con quelli del 15 marzo, i cosiddetti serrapiattisti (da Michele Serra e dalla piattezza del loro pensiero) non può esserci speranza alcuna. Ma costoro hanno la maggioranza nelle redazioni e nei talk show, non certo nella società. Sono quelli che stanno fuori da quel cerchio magico del potere che dovrebbero scendere in campo. Ma mentre abbatteva salari e diritti, il neoliberismo cancellava anche la speranza. Da qui l’attuale morta gora, che certo non troverà soluzione nelle tradizionali quanto consunte forme di lotta di un passato che non sa ancora immaginare il futuro.
Ora, però, c’è un autentico scandalo. Quei soldi che non c’erano per salvare la Grecia (cioè, in concreto, le condizioni di vita dei greci), che mai ci sono per la scuola e la sanità, che sempre mancano per le pensioni e la spesa sociale in genere, improvvisamente non sono più un problema a condizione che li si spendano per il riarmo.
Il debito pubblico, considerato nell’Ue un peccato ed una colpa da redimere, all’improvviso si trasforma in un futuro radioso di guerra alla Russia. Lo so, detto così, può sembrare un’esagerazione, ma sfortunatamente non lo è. Per chi non ne fosse convinto consigliamo la lettura della risoluzione approvata di recente dal parlamento europeo. Vista la sua gravità, dedicheremo a quel documento – un’autentica dichiarazione di guerra nei confronti della Russia e dei suoi alleati (tra cui la Cina) – un prossimo articolo. Qui ci limitiamo a citarne un solo illuminante passaggio, quello dove il parlamento di Strasburgo ribadisce «la sua convinzione che è sui campi di battaglia ucraini che si deciderà il futuro dell’Europa».
La conclusione a questo punto è semplice. Dopo aver distrutto tutte le conquiste sociali del Novecento, dopo aver tagliato di brutto i salari (specie quelli dei paesi mediterranei), la criminale tecnocrazia europea vuole ora salvare il suo progetto, dunque sé stessa, con la guerra. Tra quei tecnocrati Mario Draghi conserva un ruolo di rilievo, e le sue lacrime di coccodrillo, che tanto ci ricordano quelle di Elsa Fornero, servono solo a saltare a piè pari ogni onesto bilancio sul disastro sociale che è stato compiuto.
Ma dalle contorsioni dei dominanti, passiamo ora alle prospettive del popolo lavoratore. Inutile lamentarsi della situazione salariale ogni volta che escono i dati di qualche ente. Inutile, se non si vedono i fili di una lotta di classe combattuta dall’alto in nome degli “altissimi” ideali europei con i quali oggi vorrebbero portarci alla guerra. A quegli “ideali”, propalati dagli intellettuali fasulli e dagli artisti-buffoni della piazza del 15 marzo, fanno eco, non a caso, i soliti lacchè della dirigenza sindacale.
La lotta per il salario, per i diritti, per restituire il maltolto di questi decenni alle classi popolari, è dunque la stessa lotta da condurre da subito per fermare la guerra ed i suoi pazzi pianificatori annidati a Bruxelles, Londra, Parigi e Berlino. Quando un giorno arriverà un nuovo movimento sociale, esso sarà efficace solo se avrà questa consapevolezza.
PS – Adesso perfino Landini afferma che “il riarmo taglia lo stato sociale e pagano i lavoratori”. Buongiorno! Grande scoperta… Peccato sia lo stesso Landini Maurizio che ha portato le sue truppe della Cgil a rimpolpare la piazza degli eurosfegatati del 15 marzo, il cui scopo ultimo era proprio quello di inneggiare al riarmo…
Analisi impeccabile da diffondere capillarmente