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CHI BACIA IL CULO DI TRUMP? di Enrico Mascelloni

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USAID – L’AMICO AMERICANO ovvero QUANDO SENTO LA PAROLA DEMOCRAZIA CORRO VERSO IL PIU’ VICINO RIFUGIO ANTIAEREO

Trump ha deciso di liquidare quell’enorme e stratificato ganglo che pompa fascinazione per l’America e che da qualche decennio prende il nome di soft power? L’intero processo, teorizzato dall’addetto alla sicurezza nazionale Joseph Nye [ 1 ] alla fine degli anni ’80, funzionava a pieno regime da ben prima di quella sistemazione teorica; infatti USAID [ 2 ], la sua più attiva incarnazione pratica, era stata fondata da Kennedy nel 1961. Per quanto con il passare del tempo abbia manifestato una certa obsolescenza, tantoché la geometrica compilazione dei suoi punti forti intrapresa da Nye già conteneva traccia dei tentativi di ristrutturarla, se ne intravedono, al momento, soltanto incerte apparizioni alternative. Tanto più sorprende, dunque, la sua recente trasformazione (gennaio 2025) da agenzia apicale all’insegna di “amateci, e fatelo smodatamente e con passione” a una specie di circolo rionale senza mezzi né personale (è passata da 20.000 a 600 addetti nel giro di una settimana!). Trump l’ha letteralmente abbattuta.

Pressoché ignota alle nostre latitudini, dove si parla di CIA anche per spiegare la campagna acquisti della Juventus, altrove nel mondo godeva di una certa popolarità, almeno tra chi, soprattutto in Medio Oriente, in Asia centrale e nel Subcontinente Indiano si occupava di politica, di cultura o comunque di progetti che riguardavano la sfera pubblica, l’aiuto umanitario e le relazioni internazionali. Per capirci con qualche numero: mentre la CIA disponeva del consistente finanziamento annuo di 53 miliardi di dollari, USAID ne drenava circa 70, cioè varie Finanziarie italiane di una certa consistenza messe insieme. La questione va dunque presa un pò alla larga, rendendo necessaria qualche pedantesca puntualizzazione e persino una sobria infiltrazione di souvenir personali.

Avendo vissuto e percorso, in varie fasi della mia vita, quelli che Bush e Biden chiamavano “paesi canaglia”, posso confermare, com’è ovvio, che era raro incontrarvi qualche cittadino americano. Tuttavia, solo attraversandone le munite frontiere, si potevano raggiungere luoghi dallo statuto diciamo intermedio: quelli suscettibili di incanaglirsi ma anche di intraprendere fantasiosi percorsi democratici. Lì di americani se ne incontravano parecchi. Per esempio, dall’Irak di Saddam o dalla Siria degli Assad, in cui erano pressoché esclusi, si poteva slittare in Libano, o in Giordania, dove se ne intravedeva più di qualcuno. Cosi come dall’Iran, o dalla Russia, era possibile fuoriuscire (in tutti i sensi) nei cinque “stan” che formano la costellazione nota come Asia Centrale, dove al contrario che nei primi, di presenza americana ve ne era una qualche consistenza. Poiché tutti questi luoghi erano allora pressoché sgombri di turisti, qualunque straniero li percorresse era lì per fare qualcosa. I nostri usaider, si manifestassero o meno come tali, erano infatti dichiaratamente lì per cooperare a qualche processo di modernizzazione che avrebbe “rinforzato la Democrazia”, fermo restando che tanto nei paesi canaglia che nei vicini dall’incerto destino, solo ascoltando la parola “democrazia” l’istinto dei più restava quello di correre verso il più vicino rifugio antiaereo. Ma torniamo ai gringos: coloro che incontravi da quelle parti si presentavano dunque prevalentemente come addetti di ONG impegnate in qualche progetto umanitario. Raramente ne dicevano il nome e quando lo citavano ti guardavano con un’espressione che si faceva al contempo più intensa e involontariamente spigolosa: in quei rari casi dicevano con una certa fretta di lavorare per USAID, che da quelle parti, per i più maliziosi che erano anche quelli meglio informati, era come dire di lavorare per la CIA; quando evitavano di dichiararlo, senza comunque cessare una conversazione da cui sembrava che prendesse forma un’eterna amicizia con chi non avresti mai più incontrato per il resto della vita, era comunque probabile che ne facessero parte. Avendo il sottoscritto a che fare con un’altra — più che agenzia come USAID la chiamerei “rete”— e comunque con una rete americana, in cui il personale fisso era però quasi in toto locale, accadeva che qualche amerekano (in qualche caso persino “nato in Italì”) venisse a supervisionarvi qualcosa fermandosi in genere per mai più di pochi giorni. D’obbligo era almeno una cena conviviale alla quale, tanto come occidentale che in veste esotica (per quelli del “culo del mondo” l’italiano, come individuo proveniente dal “culo dell’occidente”, ha al contempo una modesta credibilità che misurano con la propria, e un irresistibile esotismo), venivo invitato, accreditando in aggiunta il cosmopolitismo della struttura. Non solo: finalmente avremmo mangiato in un ristorante di lusso, visto che pagavano loro. Dimenticavo di chiarire la questione essenziale: in quell’epoca in cui incrociavo gli usaider — grosso modo lo scorcio degli anni ’90 — la struttura con cui avevo a che fare si chiamava SCCA (Soros Center for Contemporary Art). Mi occupavo infatti d’arte dal culo del mondo: tanto di quella contemporanea che dei più strani manufatti tribali. La casa madre stava naturalmente a New York e George Soros ne aveva aperte in vari luoghi dell’ex URSS, quella in Asia Centrale collocata a Almaty (Kazakhstan), ma ve ne erano altre in numerosi Paesi (inclusi quelli dell’ex Patto di Varsavia), mentre le Open Society, sempre di Soros, erano state aperte senza eccezione in tutte le ex repubbliche ormai sovrane, sebbene i ras locali cominciassero a chiuderne qualcuna.

Nei Paesi dell’ex URSS e dell’Europa Orientale i SCCA hanno rapidamente raccolto gli artisti più audaci e innovativi, dandogli gli strumenti per operare, ormai ben più complessi e costosi di quelli tradizionali, trattandosi soprattutto di apparati tecno-mediali. I SCCA si occupavano anche di formare gli artisti all’uso di tali strumenti, che per loro natura immediata auspicano un certo interventismo documentaristico nella realtà, con conseguente tensione nei confronti di regimi politici (quelli post-sovietici in specie) abituati a un certo controllo sulla realtà. In effetti la “società aperta” propugnata da Soros aveva iniziato auspicando la conquista di spazi di libertà inediti in ambito sovietico e finirà, organizzando le forze raccolte aprendo quegli spazi, per animare le cosiddette rivoluzioni arancioni, il cui scopo era quello di spostare la collocazione geopolitica dei vari Paesi coinvolti nei processi “colorati”, traspiantandoli dalla sfera d’influenza russa a quella atlantica e abbattendo ogni barriera alla penetrazione di un liberismo di matrice americana che veniva così a sovrapporsi, quasi fosse della stessa materia reale e al contempo onirica, all’idea di Libertà e alla pratica artistica conseguente. Cosicché, per artisti, operatori vari del settore e curiosi, ben più numerosi degli addetti ai lavori, la terapia Soros non ha tardato a porsi come un complessiva visione del mondo e soprattutto come un modo di stare al mondo, che peraltro gli artisti avevano “goduto dal vivo” partecipando a periodici stage e a inviti in occasione di mostre in qualche Paese occidentale, rimanendone spesso folgorati. Uscendo dal confortevole museo in cui uno straccio sporco di Raushenberg conviveva con toilette perfettamente linde, potevano entrare in un supermarket dove vedevano in un colpo solo una congerie di merci che nei negozi a fioca lampadina verticale dei Paesi d’origine, almeno sino ai primi anni ’90, potevano soltanto sognarsela. Uno di essi, entrando in quegli anni in un mall di Berlino, esclamò “io da qui non voglio più uscire”.

Niente, per chi scrive, di più comprensibile e condivisibile, laddove entrando da bambino in un autogrill Pavesi appena aperto lungo l’autostrada del Sole, venendo dall’Italia ancora sottoconsumista degli spacci rionali, avrei mangiato tutte le brioche i buondì motta che vi erano esposti e mi ci sarei barricato. Dal suo mall berlinese il mio amico Kazako ne sarebbe comunque uscito almeno un momento prima dell’orario di chiusura (cosi come mezzo secolo prima ne uscii il sottoscritto trascinato via a fatica dal padre camionista) ma per evadere dall’incantato mondo Soros ebbe bisogno di tutta l’energia, di tutto il vitalismo, di tutta la circospezione magari ancora di memoria nomade di chi, anche nell’arte, non si accontenta di un recinto ideologico (certamente assai più morbido ma non meno infiltrante) che ne sostituisce un altro. Giacché compito dell’Accademia Soros restava fondamentalmente quello di sostituire l’Accademia delle Scienze, ed a ben altro livello d’ambizione rimpiazzare il pachiderma collettivista rimasto alla deriva dopo il tracollo dell’URSS con il nuovo sciacallo liberista assai più agile ma dalla fame inesauribile. Quello stesso che in Occidente aveva impiegato più di un secolo e due guerre devastanti per produrre un moderatissimo benessere diffuso, e che a est degli Urali prometteva lacrime e sangue subito, “eppoi vedremo”.

L’azione degli SCCA non riguardava soltanto la promozione dell’arte contemporanea, bensì anche del microsistema che la amministrava e del macrosistema in cui galleggiava con crescente successo, finendo per farla diventare il suo più esibito “abito da sera”. Tuttavia sono scomparsi dal paesaggio del mondo post-sovietico, sostituiti da una rete di “fondazioni per lo sviluppo dell’arte contemporanea” di piccola-media gittata e in scarso collegamento reciproco, finanziati da oligarchi locali o da interventi pubblici, come il Centro per l’Arte Contemporanea recentemente inaugurato a Tashkent (Uzbekistan). Con l’esaurimento del progetto Soros è andato scemando anche l’attivismo forsennato di USAID, che utilizzava come partner/cavallo di Troia appunto le Open Society di Soros senza trascurare la CIA, attraverso un’attività multiforme che andava dal supporto all’arte contemporanea a quello alla “stampa libera” ai progetti che più tardi si chiameranno Woke, senza dimenticare attività come il ripristino post traumatico (protesi) in Paesi già teatro di guerre, magari quelle americane come in Afghanistan e in Irak.

In quei casi Usaid rimpiazzava la gamba poco prima troncata da un drone guidato dall’Arizona; cosi come immediatamente dopo i bombardamenti alleati sulla Jugoslavia e le devastazioni di fabbriche e antiche basiliche ortodosse, non mancava mai di trovare una multinazionale USA (in quel tempo la più attiva era Philip Morris, che aveva già accusato i serbi e i montenegrini di produrre Marlboro contraffatte) che si proponesse di curarne il restauro. Usaid è stata particolarmente attiva in Paesi già fatti a pezzi dalle bombe occidentali eppoi sottoposti a regime change, almeno sino a quando l’ingerenza politica non è uscita troppo allo scoperto, soverchiando la ben più reclamizzata attività benefica (che pur ha sempre costituito un’infima frazione, circa il 7% del budget complessivo dei ca. 70 miliardi di dollari l’anno che riceveva da Washington), oppure quando USAID è stata costretta a ritirarsi, in genere in fretta, insieme all’esercito americano (Afghanistan 2021). Il suo stato di salute non era infatti dei migliori, immediatamente prima che l’amministrazione Trump II (gennaio 2025) la riducesse a un circolo ricreativo, abbattendone il finanziamento e tagliando del 90% il personale, compresi i quadri dirigenti.

Come leggere , dunque, per mano o meglio sarebbe dire “per ascia” dell’amministrazione Trump II la vera e propria liquidazione di USAID, la cui attività è stata ben sintetizzata da un seguace del tycoon della prima ora come Mike Benz, già funzionario del Dipartimento di Stato sotto la sua prima amministrazione, descrivendola come “un vero e proprio braccio operativo della politica estera statunitense, spesso in collaborazione con la CIA e il National Endowment for Democracy (NED). Un’agenzia impegnata in operazioni di regime change e ingerenze politiche in Paesi stranieri.” [ 3 ] Un protagonista della seconda amministrazione Trump come Elon Musk rincara la dose: ”Usaid è stata vincolata ripetutamente alle attività d’intelligence (…) ha gestito colpi di Stato a Haiti, Ucrainia, Egitto e altri paesi: Si tratta di un’organizzazione criminale vincolata anche alla produzione di armi biologiche.” [ 4 ]

In tempi migliori Brezinsky aveva elencato lucidamente i punti di forza degli USA “l’esercizio indiretto dell’influenza sulle élite straniere dipendenti, ottenendo al contempo grandi benefici attraverso l’attrattiva dei suoi principi e delle sue istituzioni democratiche. Tutto quanto sopra è rafforzato dall’impatto massiccio ma intangibile del dominio degli Stati Uniti sulle comunicazioni globali, sull’intrattenimento popolare e sulla cultura di massa e dall’influenza potenzialmente molto tangibile della tecnologia d’avanguardia degli Stati Uniti e della sua portata militare globale» [ 5 ]. Non si potrebbe descrivere in modo più chiaro la pratica di USAID. Se vogliamo aggiungere alla lista anche l’arte contemporanea, che muove capitali considerevoli e in occasione di alcune kermesse internazionale diventa “intrattenimento popolare”, ecco anche una definizione adeguata del Progetto Soros, idealmente nella variante delle Open Society e concretamente in quella dei SCCA.

Ebbene, tutta questa enorme costruzione, in cui quanto era stato teoricamente divaricato in soft e hard power si intramava inestricabilmente, insomma tutto ciò stava visibilmente traballando prima che Trump vincesse le sue seconde elezioni. La decapitazione di USAID non ha riguardato propriamente il suo scopo esistenziale: fare in modo che gli USA vengano amati per il fascino che esercitano invece che per i loro sistemi di coercizione. La sua liquidazione è piuttosto determinata dalla crescente incapacità di assolvere quel compito, al punto che prima di ristrutturare in forma tech ciò che si chiamava soft power, si sta assistendo persino al tentativo di vendere la coercizione come fascino. Per tale compito è magari più utile la NSC (United States National Security Council): un’altra agenzia potente, sebbene destinata a un budget ridotto e tuttavia onnipresente quando c’è da inguaiare qualche entità (individui, collettività, paesi) recalcitrante. Al momento non sembra toccata dalle purghe, ma Trump ha annunciato che reintrodurrà un decreto del 2020 che facilita il licenziamento dei funzionari federali

Liquidando il principale asset del loro soft power, gli USA di Trump intendono dunque rinunciare all’inesausta propaganda imperiale che ne ha caratterizzato la storia moderna? Insieme all’acqua sporca gettano via anche il bambino? un bambino infatti attivissimo e assai efficace lungo l’intero corso del ‘900, giacché quella sola “acqua sporca” ha irrorato le rivoluzioni colorate e Hollywood, l’arte contemporanea più disinibita e la formazione di torturatori modello Abu Grahib? O piuttosto intendono dichiararla semplicemente in secca oltreché assai costosa, nell’epoca in cui la pervasiva penetrazione dei social gestiti dalle big tech alleate di Trump possono far lo stesso lavoro meglio, più rapidamente e a costi limitati, cancellando anche quell’idea di “morbidezza” che non si attaglia granché a Trump e al suo staff? Tanto più che il taglio draconiano dei finanziamenti a USAID e il licenziamento di quasi tutti i suoi addetti assume l’aspetto della rappresaglia contro un’Agenzia che aveva finanziato la campagna stampa anti Trump del 2019, volta a denunciare il tentativo del tycoon di convincere Zelensky a spifferare le attività illegali del figlio di Biden (Hunter) in Ucraina. Pare che il lungimirante (di breve termine) Zelensky si fosse rifiutato di accontentarlo, e infatti quelle elezioni le vinse Biden, che aveva dichiarato di sostenere Zelensky “whatever it takes”.
Con questo non s’intende affermare che il motivo della demolizione in diretta mondiale di Zelensky, e solo con poca discrezione in più di USAID, sia il frutto così spropositato di una vendetta personale. Tuttavia non sembrerebbe altrettanto spropositato attribuire a personaggi appena usciti dal sottopotere di Washington come Vance o Hegseth, senza dimenticare la storia di Trump stesso e del suo lanciarazzi Musk, una così lungimirante ristrutturazione della via americana per farsi amare dal resto del mondo!? Quando Trump e il suo staff pregano nello studio ovale o minacciano di annettere la Groenlandia, più che ad abilissimi comunicatori fanno pensare alla Famiglia Adams o più propriamente al tipico prodotto della selezione delle élite nelle odierne democrazie occidentali: numi ciechi e sordi che sbavano e danzano ai confini del nulla (copyright Lovecraft).

La fine di Usaid, di Open Society e dei SCCA non decreta dunque la crisi della propaganda americana e tanto meno la disattiva; semmai reclama la sua ristrutturazione e in qualche modo ne moltiplica il rilancio. D’altronde non si è mai parlato così tanto di America nella storia universale come nei primi due mesi del Trump II, grazie a un’occupazione pressoché orizzontale di tutti i social e di ogni media. L’annessione del Canada e della Groenlandia è calembour di fantageopolitica, ma nell’attesa di misurarne l’improbabile attuazione potremmo definirlo un “proseguimento del soft power con altri mezzi”. Ben altra sfida e assai rischiosa quella che pretende di chiudere in fretta la guerra russo-ucraina-NATO. Le premesse sono persino sagge, poiché l’Ucraina, e con essa la Nato che l’ha sostenuta con le unghie e con i denti, ha ben poche chance di rovesciare le sorti di una guerra che vede la Russia aver conquistato gli obiettivi che si era prefissata. Trump l’ha pragmaticamente capito, se ne è valso per consumare le proprie vendette e per abbozzare una forma diversa di resistenza alla relativa decadenza dell’America. Relativa e tuttavia tangibile: benché aumenti la potenza numerica degli USA e dei suoi alleati, quella di Cina, India e compagnia bella (o se si vuole brutta) cresce con maggior percentuale, e giacché la potenza è un valore finito non è improprio parlare di decadenza.

Inoltre la vittoria di Trump alle elezioni americane e il suo avvicinamento a Mosca può mascherare la sconfitta degli USA e dei suoi alleati (NATO) per interposta Ucraina nella prima guerra simmetrica combattuta dall’Occidente dopo il 1945, cosicché i buoi felici europei possano credere (o per meglio dire possano mettere a divedere ai loro sudditi) che senza il “tradimento” di Trump avrebbero guadagnato la partita. Ma la causa di tale avvicinamento è proprio la loro sconfitta. Volendo scendere a un livello medio-basso della propaganda atlantica: in un colpo solo la nuova strategia di Trump trasferisce i già inutili e sperticati omaggi atlantisti di Molinari, Rampini, Cazzullo ecc… nelle bancarelle dei mercatini, dove invenduti a 1 euro sopravviveranno sino al primo temporale.

E’ insomma attivo più un “geometrico casino” che una “geometrica potenza”, come in fondo furono i nostri anni ’70, con buona pace di Piperno a cui va comunque la stima di ogni comunista. Scusandoci per la digressione sentimentale e tornando al tycoon: il rischio che corre è enorme, giacché nell’America profonda e non solo nel deep state la riserva anti-russa ha lo spessore temporale e la carica emotiva dell’odio di un femminicida per la donna che l’ha lasciato per fidanzarsi con la vicina di casa, sebbene il Tycoon sembri convinto che per fermarlo basti un braccialetto cerca persone. Mentre lo scontro con la ben più potente Cina non ha mai assunto una forma compiuta, tant’è innervato da rivalità tecnologiche e commerciali di breve corso, senza che il conflitto abbia mai lambito una concreta belligeranza paragonabile, questione Taiwan compresa, ai 40 anni di guerra fredda, quello con la Russia traccia appunto una dominante lunga e stagliata: riguarda le due potenze imperiali di un Novecento che non è ancora (per fortuna?) interamente terminato. Putin può aver ragione a rassicurare i sodali che “con il suo carattere e la sua perseveranza, Trump metterà rapidamente ordine là dentro (nelle politiche europee).

Vedrete che accadrà piuttosto in fretta. E quanto prima, le élite europee si getteranno ai piedi del loro padrone scodinzolando dolcemente. Vedrete che ogni cosa tornerà rapidamente al suo posto” [ 6 ]. Tuttavia, comunque si attrezzi il circo europeo (con i suoi 27 “numeri” che vanno dal trapezista con un braccio solo al clown a cui l’elefante caga in testa), c’è da credere gli sarà ben più difficile “far tornare le cose al loro posto” a casa propria, dove pur si è impegnato per far in modo che ad avversarlo non vi sia un fronte compatto. Ma non è detto che sia meglio: accanto a un disastrato Partito Democratico e ai frastornati grandi media si può presumere un deep state spappolato e terrorizzato dalle purghe già arrivate e da quelle annunciate (non ci si stanca di ripetere che USAID, prima di Trump II e per quanto ammaccata, non era meno potente, ampiamente finanziata e determinante della CIA, tantoché spesso risultava essa stessa a utilizzare l’altra, e non il contrario — vedi rivoluzioni colorate. A fronteggiare Trump cerca dunque di far muro una crescente accozzaglia di disperati, a breve termine di scarsa incisività politica ma assai ben armati e sperimentati in ogni colpo basso non meno del loro Nemico, e con il dito che trema sul grilletto. Che non sarebbe così difficile, sebbene assai delicato, far tremare sul grilletto di qualche psicopatico, che negli USA costituiscono legioni; giacché potrebbe trattarsi di convincere il più appropriato ad accedere a imperitura gloria accoppando un Presidente invece dei dimenticabili compagni di scuola, colpevolmente convinti che il vendicativo prescelto non abbia il carisma di Mick Jagger.

Per limitare il tremore sul grilletto, Trump deve star bene attento a non esagerare le concessioni alla Russia, magari convincendola a cedere qualcosa dei territori conquistati (il più plausibile potrebbe essere la parte della regione di Zaporizha che include la più grande centrale nucleare europea). In cambio potrebbe alleggerire le sanzioni, nel mentre i dazi prospettati ai paesi europei ne avrebbero a loro volta l’impatto, pur difettandone la forma.

E tuttavia è bene ricordarsi che anche Trump è un prodotto della sconfitta americana nelle steppe ucraine, e fa bene a esser grato a Putin, che guadagnando la partita militare gli ha permesso di vincere quella politica. Senza la débâcle dell’interventismo americano dei Biden e delle Noland è difficile che il Tycoon l’avrebbe spuntata. Gli eventi americani non fanno altro che confermare quanto la sconfitta militare del comandante in capo si traduca, come da qualche millennio, nella sua liquidazione, che nel caso in esame, considerando le condizioni dello sconfitto, non ha nemmeno avuto bisogno di esser troppo punitiva. Naturalmente a pagarla saranno i suoi più stretti collaboratori, e in specie le potentissime Agenzie che lo hanno supportato: in primis USAID, protagonista del colpo di stato del 2014 in Ucraina, principale strumento del tentato impeachment di Trump nel 2019 e indispensabile asset operativo-ideologico dei democratici, laddove la CIA è stata responsabile di quello tecnico, e come al solito i tecnici si ammansiscono (e si comperano) più facilmente degli ideologi. Tuttavia sarà d’obbligo strigliare anch’essa, quanto meno per collaudare una certa quota di leninismo nel comportamento di Trump: almeno quello che pretende di “colpirne uno per correggerne cento” .

E se la sconfitta ha definitivamente spappolato i democratici riducendo il loro capo a una collezione di aneddoti sulle conseguenze dell’Alzheimer, non ci stancheremo di ribadire che diventa difficile considerare Trump e la sua amministrazione il frutto di una strategia alternativa coerente e compiuta in ogni suo aspetto. Il Tycoon è costretto a simulare una distanza da chi l’ha preceduto che è in realtà meno netta di quanto esso stesso la manifesti e soprattutto la interpretino i suoi nuovi nemici europei. Questi ultimi non son meno di Biden responsabili di una débâcle epocale, e da Biden sembrano esser stati contagiati anche sul piano sanitario, tanto manifestano sindromi da disadattamento (politico) che vanno da fasi depressive (“siamo inermi a fronte dell’aggressività russa”) a deliri di potenza (“costruiremo il più potente esercito mai visto”), trovando qualche lampo di lucidità solo cercando di liquidare i loro nemici elettorali più prossimi, chiunque essi siano. Fotografati insieme a Biden nella trascorsa compattezza di “atlantici” sembravano i notabili locali alla proclamazione del Viceré delle Indie durante il Raj, mentre nella forma di “volenterosi” deambulano come gli ospiti catatonici del “Castello dei rifugiati” di Celine, in attesa della liquidazione definitiva.

Eppure, a discapito della minimizzazione di Putin, le mezze potenze (o mezze impotenze che le si voglia appellare), soprattutto quelle meno mezze come Francia, Germania, Polonia (Gran Bretagna tornata in auge con ruolo dirigente, che quando si sente puzza di clima imperiale accorre con la velocità di uno sciame di mosche sopra una merda), possono costituire un problema, giacché la sconfitta dell’Ucraina, pur non modificando il quadro geopolitico generale, né scatenando verso ovest una Russia che non saprebbe come fare (e soprattutto non saprebbe che farsene), compromette in maniera irreversibile e a un livello senza precedenti lo status, già prossimo alla soglia del ridicolo, dei suoi quadri dirigenti tanto al governo, che in quasi tutti partiti, che nel cosiddetto stato profondo. E come non includerci anche i chiù deficenti, i giornalisti di pressoché tutte le testate e dei network televisivi! Nel suo insieme questo tipico ganglo delle democrazie (politici d’ogni colore+livelli medio-alti della burocrazia+stampa cosiddetta mainstream+ intrattenitori selezionati dello star System), già messo alle strette dalla realtà del campo di battaglia si è sentito dare brutalmente del coglione dal capo del Paese che adora e ai cui precedenti conducator ha sovente tributato omaggi. In effetti non deve esser stato bello e c’è da comprenderli.

Ma al di là dell’umana comprensione e di una qualche forma di pietà per l’umiliazione subita mentre erano già in posizione per “baciargli il culo” (pur magari con meno erotico trasporto che nel caso di Biden), resta il fatto che per salvare quella particella di decoro che ancora gli rimane tentano in tutti i modi di dissuadere Trump dal supportare un reale processo di pace in Ucraina.
La questione non è di poco conto: costoro stanno prevalentemente mettendo al riparo il proprio comportamento dall’evidenza di un catastrofico dilettantismo: le analisi errate, la manifesta ignoranza dei meccanismi politico-militari in gioco, la totale soggiacenza analitica e informativa a un comico il cui numero principale era stato quello di martellare i tasti del pianoforte con un organo del corpo in genere adibito a altre funzioni.
La questione degli interessi nazionali entra in gioco soltanto dopo aver rinunciato con gioia al loro nodo principale, che per tutti i Paesi europei resta l’accesso a un’energia a buon mercato, arrivando a lasciarsene sabotare la fonte principale (North Stream I e II) dal proprio protegé. Dopodiché possono esservi conflitti furiosi per i dettagli.

Putin, per il riflesso condizionato dello scontro che ha solcato pressoché tutto il Novecento, in cui i giocatori erano sostanzialmente due (URSS e USA) tende a sottovalutare l’acredine, l’umiliazione e anche la potenza degli europei. La guerra deve continuare a tutti i costi e il solo modo che prosegua evitando almeno a breve termine il precoce collasso militare dell’Ucraina, è rimettere in partita gli USA. Ne è talmente forte l’esigenza che sono disposti a sopportare sacrifici persino superiori a quelli eventualmente drenati dalle applicazioni dei dazi (che d’altronde non sopportano loro, ma le popolazioni di referenza). L’appello è all’insegna di “facci più male; ci piace!”: Von Der Layen, idealmente in tenuta tacchi a spillo e attillata tuta in pelle aperta sulle chiappe — in tal veste assai più congrua alla missione “Rearm Europe” e al suo significato, rivolgendosi de visu agli europei e de retro agli americani — è pronta ad aumentare l’acquisto del gas di scisto sino a quantità che nemmeno servirebbero; vari paesi giurano di portare l’acquisto di armi a percentuali del PIL che sarebbero state giudicate uno scherzo d’Aprile sino a meno di un anno fa; un’esagitata macchietta estone, assurta a alto rappresentante dell’UE per le politiche estere, cessa per un momento di demonizzare la Russia (che è d’altronde anche la sua personale missione, animata da un afflato incessante) e passa a considerare la Cina un “rivale sistemico”, pur con minor enfasi della demonizzazione precedente, giacché non sono documentati cinesi che le avrebbero deportato qualche parente (come pare abbian fatto i sovietici).

Per prendere tempo e lasciar la guerra incattivirsi, i Volenterosi propongono accordi di pace demenziali, a cui loro stessi sono naturalmente i primi a non credere, lasciandone il commento ai chiù deficienti di cui sopra, il cui disorientamento è tale che potrebbero persino crederci. Parlano di “pace giusta”, cioè di un concetto che non appartiene alla storia presente e neanche a quella passata. Ritengono che la Russia vincitrice del conflitto rinunci all’obiettivo per cui vi si era impegnata, nonostante la gran quantità di perdite subite e le ovvie crepe che un conflitto a quel livello, contro tutto l’Occidente, provoca comunque nel proprio corpo sociale. Se Putin accettasse la loro “pace giusta” durerebbe mezza giornata. In attesa che i Volenterosi, come di prassi, comincino a litigare tra loro, i creatori europei dei palinsesti televisivi, sebbene in preda a un approccio più sottile dei kiss my ass precedentemente elencati e magari senza averlo coscientemente voluto, sembrerebbero aver esponenzialmente aumentata la presenza di film d’azione americani, nell’intento di risintonizzare i teleutenti con i tempi felici in cui Rambo, lungi dal trattarvi la pace, infliggeva perdite devastanti all’Armata Rossa. Ma c’è da credere che Trump ami più L’assedio di Fort Apache che Rambo III.

“A ciascuno il suo” è forma di resistenza del reale che a noi comunisti, almeno per come siamo al momento ridotti, acconsente: a Trump la sua resa dei conti, che ha peraltro buone probabilità di far l’America “small again” (MASA); a Putin un successo militare che non risolve alcuno dei giganteschi problemi interni della Russia (dal collasso demografico alla difficoltà di riconvertire in potenza produttiva la rendita parassitaria, in mano a inetti oligarchi, drenata dalle materie prime), sebbene la guerra sembri averli paradossalmente alleviati. Lo Zar non ha più nemmeno bisogno d’inchiodare i propri nemici a qualche corruzione che gli aveva permesso Eltsin: i suoi boiari sono talmente sputtanati e detestati per il loro pacchiano esibizionismo coniugato a ricchezze smodate, che in qualsiasi modo li limiti (o li liquidi) avrà sempre l’avallo di una popolazione che tira cronicamente la cinghia, ma altrettanto cronicamente supporta ogni sacrificio che garantisca la grandezza dell’Impero.

In ogni modo la vittoria russa nella guerra d’Ukraina decreta il definitivo collasso dell’unipolarismo post-1991; alle economie emergenti (chiamiamole pure BRICS, se sembra più consono) la percezione che arroganza e potenza, nell’America di Trump, stiano diventando inversamente proporzionali; allo stato sionista d’Israele un occidente sempre più spappolato mentre si prepara alle prossime guerre, pur sapendo che ora come mai la prima realmente persa sarebbe anche la sua ultima.

All’uopo i turchi gli ricordano che dal Califfo Umar (638) al Saladino (1183) e fino al Solimano il Magnifico (1545) dopo quella di Damasco arriva ben presto la conquista di Gerusalemme; all’arte contemporanea l’avviso che una semplice atomica tattica sganciata in un luogo qualsiasi, farebbe crollare le borse di tutto il mondo e ne azzererebbe il mercato, riducendo il prezzo di un’opera di Pollock al suo valore d’uso: il costo-funzione della tela come materiale d’imballaggio, necessario per salvare qualcosa fuggendo da un luogo in cui se ne teme un’altra.

NOTE:

[ 1 ] Joseph S. Nye, Soft Power – un nuovo futuro per l’America, Einaudi, Torino 2005. La prima edizione americana è del 1989, in coincidenza con la caduta del muro di Berlino, in effetti abbattuto da incessanti bordate di soft power, sebbene in coordinamento con un’inesausta pressione militare

[ 2 ] La letteratura su USAID è generalmente celebrativa, almeno sino alla scomunica di Trump, e facilmente reperibile anche nel web. Per una recentissima panoramica generale sulla sua attività e soprattutto sul suo abbattimento è appena uscito Smith Kaney, The downfall of USAID, pubblicazione indipendente del 2025. Una pomposa celebrazione di Trump attraverso la liquidazione di USAID, la si trova in un libro comunque piuttosto documentato: Tukinteeb Kpanchar, Trump and USAID scandal, Clara Tukinteeb, 2025. Più equilibrato John Verra, Aid under fire – The battle for USAID, pubblicazione indipendente 2025

[ 3 ] Roberto Vivaldelli, 6 febbraio 2025

https://it.insideover.com/media-e-potere

[ 4 ] Elon Musk, post pubblicato su “X”

[ 5 ] Zbigniew Brezinsky citato da Manolo Monoreo in https://futurasocieta.com/2025/03/16/la-guerra-civile-delloccidente-collettivo/

[ 6 ] Pavel Zarubin, intervista a Putin su Rossjia 1 del 30/01/2025, trad. integrale in francese in https://legrandcontinent.eu/fr/2025/01/30/la-souverainete-de-lukraine-est-pratiquement-inexistante-comment-poutine-veut-negocier-avec-trump/)

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