MARX E LA TRAPPOLA DI ADAM SMITH di Sergio Cesaratto
La cascata di dazi decisa dall’amministrazione americana ha sollevato grida isteriche da ogni parte: governi, stati della più diversa natura e collocazione geopolitica, euro-oligarchi, esponenti della grande finanza predatoria, capitalisti della più diversa stazza, quindi intellettuali e giornalisti di sinistra, centro e destra. Un vero e proprio Esercito Cosmopolitico della Salvezza si è mobilitato in nome del Libero Scambio.
Riteniamo importante portare a conoscenza dei nostri lettori questo breve saggio dell’amico Sergio Cesaratto che pubblicammo su SOLLEVAZIONE l’8 gennaio 2014. Erano i tempi della grande crisi dell’euro e della diatriba sul destino dell’Unione europea. La riflessione di Sergio prende spunto dallo scontro tra Karl Marx e l’economista, anche lui tedesco, Friedrich List. Pomi della discordia erano la questione del libero scambio, del protezionismo, del ruolo degli stati, della questione nazionale.
Scrivevamo presentando allora il breve saggio: “Si tratta di una fine critica teorica alle due sinistre sulla questione dello Stato-nazione. Alla prima, quella che in nome di un malinteso “internazionalismo” ritiene reazionaria ogni forma di nazionalismo; alla seconda, quella sistemica, la quale, in nome dell’europeismo e del “vincolo esterno”, perora come salvifico l’abbandono di ogni sovranità nazionale. Cesaratto rivela come alla radice di entrambi vi sia un grave errore di Marx, quello di essere caduto nella “trappola di Adam Smith”.
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“Proletari di tutti i paesi, unitevi!” (K. Marx, F. Engels)
“…fra l’individuo e l’umanità si colloca la nazione”. (F. List)
Abstract. In questo breve saggio esaminiamo l’importanza attribuita da Friedrich List allo Stato nazionale nell’emancipazione economica di un paese a fronte della visione cosmopolita del capitalismo e degli interessi dei lavoratori che Marx gli contrappone. Rifacendoci a uno spunto di Massimo Pivetti sosteniamo che lo Stato nazionale sia lo spazio più prossimo in cui una classe lavoratrice nazionale può legittimamente sperare di modificare a proprio vantaggio i rapporti di forza. Nell’aver sostenuto lo svuotamento della sovranità nazionale in nome di un europeismo tanto ingenuo quanto superficiale, la sinistra ha contribuito a far mancare a sé stessa e ai propri ceti di riferimento il terreno su cui espletare efficacemente l’azione politica contribuendo in tal modo allo sbandamento democratico del paese.
Introduzione
Se il tema che ci siamo assegnati è da un lato un classico della riflessione politica della sinistra, dall’altro esso continua a essere un argomento imbarazzante. La teoria marxista e gli ideali del socialismo ci portano, infatti, verso un giudizio piuttosto liquidatorio, sia storico che politico, dell’idea di nazione.
La problematica nazionale pur tuttavia testardamente continua a riemergere.
Vengono qui presentate alcune riflessioni del tutto inadeguate rispetto a una letteratura immensa (marxista, sociologica, politica ecc.) e solamente volte a porre alcuni termini di un dibattito che è molto attuale in una fase in cui la sinistra italiana guarda con sospetto alle critiche di “eccesso di europeismo” e di mancata valorizzazione degli interessi nazionali nelle scelte politiche prevalenti. Ça va sans dire che tali interessi nazionali non vanno assolutamente confusi con ideali di sopraffazione di altri paesi: siamo qui interessati al nazionalismo economico come spazio di democrazia sociale, non ad altri significati. Anche un approfondimento delle origini dell’“eccesso di europeismo” e della marginalizzazione dell’idea di interesse nazionale, in particolare nella sinistra italiana, esce dalle nostre capacità analitiche. La sinistra è in questo probabilmente parte di una storia culturale del nostro paese in cui l’identità nazionale è debole e frazionata per cui l’avvento di un papa straniero è visto come salvifico e portatore di una capacità di governo che il paese appare incapace di darsi.
Concluderemo che lo svuotamento della sovranità nazionale in nome di “ideali” sovranazionali e di un papa straniero (l’Europa) disinteressato ai nostri destini sta comportando, novello 8 settembre, lo sfaldamento del già fragile tessuto socio-politico del paese.
Va infine qui ricordato che i termini nazione e Stato, com’è noto, non coincidono. Nazione è inoltre un termine per certi versi sfuggente, ma sufficientemente definito per i nostri scopi per esempio come “complesso delle persone che hanno comunanza di origine, di lingua, di storia e che di tale unità hanno coscienza, anche indipendentemente dalla sua realizzazione in unità politica”.[1] Gli Stati possono essere sovranazionali, ma ciò è spesso fucina di guerre civili dovute proprio al conflitto fra le differenti etnie per il controllo dell’apparato pubblico, o per costituire entità statuali indipendenti, se ciò è possibile. Si parla di Stati nazionali quando essi o sono sufficientemente omogenei etnicamente, o presentano una consolidata convivenza fra le etnie.
- Marx e ListIl locus classicusdove le concezioni cosmopolite del marxismo e quelle del nazionalismo (economico) si confrontano è nella controversia – purtroppo non “live” – fra List (1789-1846) e Marx (1818-83).[2] L’opera più importante di List è del 1841. Marx ne scrive un commento nel 1845 risultato inedito sino al 1971.
Com’è noto List contrappone l’economia politica o nazionale all’economia cosmopolitica o universale. La prima muove “dal concetto e dalla natura della nazionalità, [e] insegna come una determinata nazione, nelle attuali condizioni mondiali e nelle sue speciali condizioni nazionali, può mantenere e migliorare le sue condizioni economiche”; mentre la seconda (definita la “scuola”) “parte dal presupposto che tutte le nazioni del mondo formino un’unica società, vivente in un regime di pace perpetua” (List 1841 [1972]: 151-2).
Per List la seconda condizione è idealmente desiderabile, ma la scuola confonde “come effettivamente esistente uno stato di cose che ancora deve realizzarsi” (ibid: 154). Infatti «nelle attuali condizioni mondiali, la libertà commerciale universale non porterebbe ad una repubblica universale, ma all’universale soggezione delle nazioni meno progredite alla supremazia della potenza preponderante nell’industria, nel commercio e nella navigazione» (ibid: 155). List considera dunque la teoria di Smith dei vantaggi del libero commercio internazionale un «regresso …per gettare polvere negli occhi alle altre nazioni in vantaggio dell’Inghilterra» (ibid: 28), un «cavallo di Troia …per indurci ad abbattere con le nostre stesse mani le mura che ci proteggono» (ibid: 35).[3]Le prescrizioni dell’economia politica nazionale non si limitano per List al protezionismo (ibid: 159; 169-72 e passim), ma riguardano la visione dello sviluppo economico nazionale come un interesse pubblico al quale l’interesse privato è soggiogato: «soltanto là dove l’interesse privato è stato subordinato all’interesse pubblico e dove molte generazioni hanno avuto di mira un unico e medesimo scopo, le nazioni hanno raggiunto uno sviluppo armonico delle loro forze produttive» (ibid: 184). La concezione di Adam Smith – il campione della scuola a cui List si contrappone – secondo cui la società è la somma degli interessi individuali, regolati dalla mano invisibile della concorrenza, è per List assolutamente limitativa: «E’ forse nella natura dell’individuo – egli si domanda – preoccuparsi dei bisogni delle generazioni future, come fanno invece per natura la nazione e lo stato?» (ibid: 185-86). Caratteristica del mio sistema, scrive List, «è di essere un edificio basato sull’idea di nazione come intermediaria fra individuo e umanità» (ibid: 29).
Va osservato come, tuttavia, il nazionalismo di List sia assolutamente democratico e come egli non rinunci all’obiettivo cosmopolita fra nazioni giunte a un medesimo grado di sviluppo. In questo, come alla priorità attribuita allo sviluppo industriale, egli si differenzia dagli ideali nazionalistici dei romantici tedeschi (Szporluk 1988: 101-9, 117-18).
Le concezioni di List apparirono a Marx come mere mistificazioni ideologiche, falsa coscienza, al pari della religione, o al massimo ideologie volte a mascherare gli interessi della borghesia tedesca. Nel suo commento a List, Marx (1845) rifiuta le sue concezioni in una maniera efficacemente riassunta da Szporluk (1988: 4-5):
«Marx sosteneva che la sua teoria, pur essendo il risultato del suo sforzo intellettuale, era anche il riflesso di forze storiche oggettivamente operanti e sarebbe quindi stata realizzata come risultato predestinato dello sviluppo storico. Marx pensava inoltre che il proletariato fosse quella “forza materiale” il cui compito storico era realizzare la sua filosofia. Quando si tiene a mente tutto questo, è facile capire perché Marx trovasse le teorie di List, in particolare la sua visione della storia e il suo programma per il futuro, non solo discutibili ma aberranti… Era assiomatico per Marx che il progresso industriale intensificasse e acuisse l’antagonismo tra borghesia e proletariato, un antagonismo che nell’immediato futuro sarebbe esploso in una violenta rivoluzione. List, nel frattempo, predicava la cooperazione di classe e la solidarietà nella costruzione del potere di una nazione. Marx pensava che la Rivoluzione industriale e il concomitante dominio della borghesia promuovessero l’unificazione del mondo e cancellassero le differenze nazionali. (Il comunismo, pensava, avrebbe abolito le nazioni stesse.) List sosteneva che lo stesso fenomeno, la rivoluzione industriale, aveva intensificato le differenze nazionali ed esacerbato i conflitti tra le nazioni. Mentre Marx vedeva la necessità che i lavoratori si unissero tra le nazioni contro la borghesia, List chiedeva l’unificazione di tutti i segmenti di una nazione contro le altre nazioni».[4]
Marx vede in List un arretramento rispetto all’economia politica classica (Szporluk 1988: 37) e lo accusa (con la borghesia tedesca) di appellarsi ad argomenti “spiritualisti” (la nazione) a fronte di quelli “profane” dell’economia classica:
«[List] si crea un’economia politica “idealizzante”, che non ha nulla in comune con l’economia politica profana francese e inglese, per giustificare a sé stesso e al mondo che anche lui vuole diventare ricco». (Marx 1845: 3).
Marx (1845:4) [5] si fa così beffe della de-costruzione che List fa della teoria di Smith dei vantaggi del libero commercio quale sostegno alle convenienze commerciali dell’Inghilterra:
«Poiché il suo stesso lavoro (teoria) nasconde un obiettivo segreto, sospetta obiettivi segreti ovunque. Essendo un vero filisteo tedesco, Herr List, invece di studiare la vera storia, cerca gli obiettivi segreti e cattivi degli individui e, grazie alla sua astuzia, è molto bravo a scoprirli (a risolverli). Fa grandi scoperte, come quella che Adam Smith voleva ingannare il mondo con la sua teoria…»
La posizione di Marx appare tuttavia curiosa proprio dal punto di vista della critica marxista alle ideologie, ma chiaramente Marx ritiene che Smith stia mettendo in luce l’aspetto cosmopolita e liberatorio del capitalismo globale che attraverso il libero commercio si diffonde e impone le sue leggi, ed attraverso questo getta i semi – il conflitto di classe – della sua dissoluzione. Sebbene vantaggioso per l’Inghilterra, questo paese è il tramite attraverso cui la forza devastante ma rinnovatrice del capitalismo si fa strada. Il nazionalismo col suo tentativo di cooptare le classi lavoratrici attorno a obiettivi particolari costituirebbe dunque un rallentamento del processo di liberazione dell’umanità. Marx vede dunque nell’individualismo smithiano una lettura materialista del capitalismo di cui, evidentemente, la ricerca del massimo profitto individuale è l’essenza. Ma invece di contestare questo, List contesterebbe la sua espressione teorica in Smith:
«Non potrà mai venire in mente al signor List che la vera organizzazione della società è un materialismo senz’anima, uno spiritualismo individuale, un individualismo. Non potrà mai venire in mente al signor List che gli economisti politici hanno solo dato a questo stato di cose sociale una corrispondente espressione teorica. Altrimenti, dovrebbe dirigere la sua critica contro l’attuale organizzazione della società invece che contro gli economisti politici». (Marx 1845: 18).
E’ chiaro che da un punto di vista metodologico sia List che Marx sono critici dell’individualismo smithiano come elemento costitutivo dell’analisi politico-sociale, l’idea che si possa capire la società muovendo dalla considerazione dell’individuo isolato. Ma mentre per List l’elemento sociale a cui l’individuo fa naturalmente riferimento è la nazione, per Marx è la classe. Per Marx, tuttavia, che gli economisti classici abbiano enfatizzato l’elemento individualistico (le “robinsonate”) non solo dei capitalisti, in perenne lotta fra loro, ma anche dei singoli lavoratori che si presentano in un certo senso nudi e isolati nel mercato del lavoro, non è un peccato, neppure veniale, in quanto mette in luce la cruda spoliazione che il capitalismo fa dei precedenti legami religiosi o feudali.[6] Marx imputa a List di non aver compreso questa natura del capitalismo – che a loro modo Smith e Ricardo avevano invece inteso sebbene si debba andare oltre la loro analisi nello smascherare il carattere puramente formale dell’uguaglianza degli individui nel mercato – in nome di un’appartenenza nazionale che il capitalismo e la crudeltà del libero commercio si erano appunto incaricati di spazzar via come falsa coscienza.
In questo senso Marx ritiene non-ideologica la difesa di Smith del laissez faire, mentre vede come mistificatoria e ipocrita l’idealizzazione dell’elemento nazionale in List volta a mascherare gli interessi della borghesia tedesca:
«Il borghese [Bürger] vuole diventare ricco, fare soldi; ma allo stesso tempo deve fare i conti con l’attuale idealismo del pubblico tedesco e con la propria coscienza. Perciò cerca di dimostrare che non aspira a beni materiali ingiusti, ma a un’essenza spirituale, a una forza produttiva infinita, invece che a cattivi valori di scambio finiti. (1845: 16, corsivo nell’originale). Noi borghesi tedeschi non vogliamo essere sfruttati dai borghesi inglesi nel modo in cui voi proletari tedeschi siete sfruttati da noi e noi ci sfruttiamo a vicenda. Non vogliamo sottoporci alle stesse leggi del valore di scambio a cui vi sottoponiamo. Non vogliamo più riconoscere fuori dal paese le leggi economiche che riconosciamo dentro il paese (ibid: 22). Per quanto il singolo borghese combatta contro gli altri, come classe i borghesi hanno un interesse comune, e questa comunità di interessi, che è diretta contro il proletariato all’interno del paese, è diretta contro i borghesi di altre nazioni fuori dal paese. Questo il borghese chiama la sua nazionalità». (ibid: 23).
Per Marx, dunque, il luogo in cui si fa la storia è quello del conflitto fra le classi sociali, e tale conflitto è sovranazionale in quanto né gli interessi del capitale né quelli del lavoro hanno una dimensione nazionale:
«La nazionalità del lavoratore non è né francese, né inglese, né tedesca, è lavoro, libera schiavitù, auto-mercanteggiamento. Il suo governo non è né francese, né inglese, né tedesco, è capitale. La sua aria nativa non è né francese, né tedesca, né inglese, è aria di fabbrica». (1845: 22, corsivi nell’originale).
In questo senso l’idea di nazione è una “aberrazione”, falsa coscienza al pari della religione
Di qui i famosi passi in cui Marx, tre anni più tardi, si esprime a difesa del commercio internazionale. Dopo aver spezzato una lancia a giustificazione del protezionismo – forse più di quanto avesse fatto nel saggio del 1845, Marx (1948) si lancia nei passi finali del discorso a favore del libero commercio individuando nel protezionismo un rallentamento al pieno disvelarsi della crudeltà del capitalismo:
«il sistema protezionistico non è altro che un mezzo per stabilire un’industria su larga scala in un dato paese, vale a dire, per renderlo dipendente dal mercato mondiale, e dal momento in cui si stabilisce questa dipendenza dal mercato mondiale, c’è già più o meno dipendenza dal libero scambio. Oltre a questo, il sistema protezionistico aiuta a sviluppare la concorrenza del libero scambio all’interno di un paese. Quindi vediamo che nei paesi in cui la borghesia sta iniziando a farsi sentire come classe, in Germania per esempio, fa grandi sforzi per ottenere dazi protettivi. Essi servono alla borghesia come armi contro il feudalesimo e il governo assoluto, come mezzo per la concentrazione dei propri poteri e per la realizzazione del libero scambio all’interno dello stesso paese. Ma, in generale, il sistema protezionistico dei nostri giorni è conservatore, mentre il sistema del libero scambio è distruttivo. Spezza le vecchie nazionalità e spinge l’antagonismo tra proletariato e borghesia al punto estremo. In una parola, il sistema del libero scambio accelera la rivoluzione sociale. È solo in questo senso rivoluzionario, signori, che voto a favore del libero scambio».
Marx sembra fondamentalmente ritenere che non sia necessario per ciascun paese raggiungere determinate fasi di sviluppo:
«Sostenere che ogni nazione attraversi questo sviluppo internamente sarebbe assurdo quanto l’idea che ogni nazione sia destinata ad attraversare lo sviluppo politico della Francia o lo sviluppo filosofico della Germania. Ciò che le nazioni hanno fatto come nazioni, lo hanno fatto per la società umana; il loro intero valore consiste solo nel fatto che ogni singola nazione ha realizzato a beneficio di altre nazioni uno degli aspetti storici principali (una delle determinazioni principali) nel quadro del quale l’umanità ha realizzato il suo sviluppo, e quindi dopo che l’industria in Inghilterra, la politica in Francia e la filosofia in Germania sono state sviluppate, sono state sviluppate per il mondo, e il loro significato storico-mondiale, come anche quello di queste nazioni, è così giunto al termine». (1845: 23).
Questo appare un passaggio chiave per spiegare perché Marx vede non necessario lo sviluppo dei capitalismi nazionali (Szporluk (1988:32).
2. Lo stato come playing field [campo da gioco]
Cimentiamoci a questo punto a enumerare i termini della questione fra Marx e List.
▶ Marx si affida all’idea che la forza liberatrice del capitalismo si sarebbe diffusa dall’Inghilterra ai paesi in ritardo economico senza la necessità per questi ultimi di ripercorrere tutte le tappe dello sviluppo capitalistico. Per Marx non è necessario che tutti i paesi raggiungano un medesimo grado di sviluppo perché il conflitto fra lavoro e capitali si dispieghi; evidentemente ritiene che esista una solidarietà potenziale – se non deviata, appunto, da sordità nazionalistiche – della classe operaia dei centri nevralgici del capitalismo verso i lavoratori della “periferia”.
In via ideale Marx non ha torto. La critica che gli si può forse muovere è di sopravvalutare la spinta emancipatrice globale che poteva provenire da una singola classe operaia vittoriosa – tanto più se nel suo cammino tale classe lavoratrice finisce per cedere alle lusinghe del proprio capitalismo nel condividere almeno parte dei frutti della posizione di leadership economica. Una prospettiva più concreta appare invece quella di guardare con favore allo sviluppo capitalistico nazionale, e dunque delle classi operaie nazionali, nel maggior numero possibile di paesi, e su questa base porre in termini più solidi la questione dell’internazionalismo della classe lavoratrice. Per parafrasare List, fra le classi sociali e l’umanità vi sarebbe lo Stato-nazione. List dà l’idea di maggiore concretezza anche dal punto di vista dei movimenti operai nazionali in luogo dell’astrattezza un po’ utopica di Marx (ovvio, in List non vi sono le classi sociali e questo è un limite tradizionale in un economista borghese).
▶ Marx sottovaluta il ruolo dello Stato nello sviluppo economico che è invece il tema decisivo per List. Per quest’ultimo lo Stato è l’unico organismo in grado di mobilitare le risorse necessarie allo sviluppo economico nei paesi in ritardo. Per List l’individualismo e il libero commercio smithiani sono argomenti pretestuosi a vantaggio dell’Inghilterra. Per Marx sono invece indicativi della forza selvaggia, ma liberatrice, del capitalismo. E’ come se Marx fosse caduto nella trappola tesagli da Adam Smith. Alla luce della storia economica, anche della recente affermazione del capitalismo globale in particolare in Asia, si vede infatti come il nazionalismo economico sia stato necessario proprio per l’affermazione di quel capitalismo globale che Marx vede come forza potenzialmente liberatrice.
▶ Marx sembra vedere poco il ruolo che lo Stato-nazionale svolge come il playing field più prossimo con riguardo al controllo e distribuzione di potere e risorse sia fra le classi sociali, all’interno, che nei confronti di altre etnie o Stati nazionali.[7] Il cammino di emancipazione della classe lavoratrice non può dunque che cominciare nel farsi Stato della loro unità di aggregazione più prossima costituita dalla comunità etnica di appartenenza intesa come un’aggregazione di individui che insiste su un ammontare di risorse.[8] L’appartenenza alla nazione non esclude l’esistenza di un conflitto distributivo al suo interno, anzi in un certo senso lo presuppone, come diremo.
In questa chiave si può dunque concludere che sebbene gli interessi della classe lavoratrice per la giustizia sociale non coincidano necessariamente con gli “interessi della nazione” – tanto meno in contrapposizione a quelli di un’altra nazione -, lo Stato nazionale costituisce il playing field in cui si articola la battaglia per la giustizia ed in questo senso l’autonomia nazionale è un obiettivo per la classe lavoratrice.[9]
Ma può esistere anche un interesse sovranazionale, un playing field globale? Vi possono certamente essere notevoli convergenze fra governi progressisti, basti pensare al Keynesismo internazionale (che è una necessità per la crescita comune), ma la sinistra dovrebbe essere gelosa della garanzia ai singoli popoli che solo può provenire dalla perdurante esistenza di Stati nazionali sovrani. Un principio di sussidiarietà nella cooperazione internazionale, o meglio un principio alla Gugliemo Tell di gelosia della propria autonomia nazionale dovrebbe essere fatto proprio dalla sinistra.
- L’europeismo come errore storico della sinistra
Massimo Pivetti lucidamente individua nello svuotamento delle sovranità nazionali lo strumento con cui si è esplicitato in Europa l’attacco ai diritti sociali:
«mentre in Inghilterra e negli Stati Uniti l’attacco alle conquiste del lavoro dipendente e alle sue condizioni materiali di vita è avvenuto apertamente e frontalmente tra la fine degli anni Settanta e la prima metà degli anni Ottanta, nell’Europa continentale esso si è sviluppato in modo più graduale e indiretto, passando per il progressivo svuotamento delle sovranità nazionali». (Pivetti 2011: 45)
In questo modo alle classi lavoratrici nazionali è stato sottratto il playing field:
«Riformismo e sociademocrazia… sono inconcepibili se alla forza del denaro non può essere contrapposta quella dello Stato – dunque se viene meno la sovranità dello Stato-nazione in campo economico ed essa non è sostituita da nuove forme di potere politico sovranazionale, capaci di regolare i processi produttivi e distributivi. Questo è proprio quello che è avvenuto con la costituzione dell’Unione Europea e dell’Eurosistema al suo interno». (ibid: 46)
Le classi lavoratrici sono state dunque private della possibilità di condizionare le leve produttive e distributive nazionali e in particolare la politica monetaria che è tratto decisivo della sovranità nazionale in quanto da essa dipende il potere ultimo di spesa dello Stato e la possibilità di regolare i rapporti di cambio con le altre monete. In tal modo non solo la democrazia economica interna ne esce mortificata, ma si trova anche ad essere alla mercé di interessi nazionali stranieri. Questo è naturalmente dovuto al fatto che
«[n]essun processo di unificazione politica e di connessa centralizzazione dell’intera politica economica – finalizzata al sostegno della crescita dell’Unione nel suo complesso e al contenimento delle diseguaglianze al suo interno – ha accompagnato, compensandola, la perdita di sovranità subita da ciascuno Stato membro». (ibid: 46).
Non sorprende dunque la crisi della democrazia che alcuni paesi europei vivono, intesa come senso di impotenza che la politica trasmette ai propri cittadini. Questo senso di impotenza nulla ha a che vedere (se non in superficie) con scandali e ruberie, ma con l’impossibilità dei politici democraticamente eletti di poter seriamente affrontare i grandi problemi, anche se lo volessero, una volta privi degli strumenti sovrani per farlo. Ecco l’origine dell’anti-politica. Conclude Pivetti:
«Supponiamo allora che in un contesto così poco promettente vi sia un paese intenzionato, o costretto, a fare i conti con gravi problemi di coesione sociale e/o territoriale. Non mi sembra che tale paese avrebbe oggi un’alternativa credibile rispetto a quella di cercare di recuperare la propria sovranità in campo economico e, con essa, la capacità di contenere le divisioni sociali e territoriali esistenti al suo interno». (ibid: 57).
Ecco dunque il tragico errore che la sinistra italiana ha compiuto negli ultimi trent’anni: quello della resa all’Europa della sovranità nazionale. Ancora Pivetti:
«Il problema è che da parte della sinistra e dei sindacati dei lavoratori non vi è stata in Italia nel corso degli ultimi trent’anni alcuna riflessione sul processo di ridimensionamento dei poteri dello Stato-nazione nel controllo dell’attività economica come possibile base di un processo di crisi della nostra unità nazionale. Nella sinistra continua a prevalere l’idea che non vi sia alcuna alternativa al continuare ad assumere fino in fondo l’orizzonte politico dell’Europa, coûte que coûte. Si ragiona come se l’influenza esercitata nell’ultimo trentennio da monetarismo e neoliberismo sul progetto d’integrazione europeo potrebbe dopo tutto finire per dissolversi; dall’Europa dei vincoli si potrebbe finire per passare all’Europa della crescita e l’integrazione monetaria potrebbe dopo tutto finire per tradursi effettivamente in vera e propria integrazione politica. Eppure, i continui allargamenti dei ‘confini europei’ dovrebbero aver reso a tutti evidente come quello dell’unificazione politica sia sempre stato solo uno specchietto per le allodole, avente lo scopo di facilitare l’accettazione da parte dei popoli europei degli svantaggi derivanti dalla rinuncia alla sovranità monetaria e a buona parte di quella fiscale da parte dei rispettivi governi. E poi …la reazione dei governi alla crisi economico-finanziaria ha reso evidente che perfino un semplice coordinamento delle politiche fiscali e di bilancio, finalizzato alla difesa dei redditi e dell’occupazione, è di fatto fuori gioco in Europa». (ibid: 58).
Eppure versioni “di sinistra” dell’europeismo sopravvivono in (rari) economisti radicali secondo i quali:
«Più facile, senz’altro, sognare il mondo di ieri: il discorso della svalutazione dentro un ritorno all’economia nazionale … Quello di cui vi sarebbe bisogno sono piuttosto lotte coordinate e proposte politiche uniche della sinistra su scala europea, a partire dai conflitti del lavoro e dei soggetti sociali, una spinta dal basso che c’è ma non è adeguatamente organizzata e neanche pensata, nell’orizzonte o di un drastico cambio del disegno della moneta unica». (Bellofiore e Garibaldo 2013)
“Lotte transazionali” dunque.
A me sembra che tale volonteroso internazionalismo pan-europeo faccia da contraltare all’europeismo volenteroso di alcuni economisti vicini al PD (Cesaratto 2013B): entrambi utopistici e forse pericolosi proprio in quanto disconoscono il ruolo di tutela degli spazi democratici costituito dalla piena sovranità nazionale. Tuttavia la riconquista dello spazio di democrazia economica nazionale – che faccia da base naturalmente a una libera cooperazione internazionale in particolare in Europa – è assai difficile allo stato di cose presenti, e non si è lontani dal vero se si ammette che le prospettive di crescita e giustizia sociale nel nostro paese sono in una trappola esiziale, quella della moneta unica (Cesaratto e Pivetti 2012).
Ma che salto intellettuale e politico se la sinistra lo cominciasse a capire![10]
Appendice – Alcune posizioni nella letteratura “mainstream”
Una veloce incursione nella letteratura “mainstream” sull’origine dell’appartenenza etnica porta a individuare alcune posizioni più influenti (in particolare Caselli & Coleman e Alesina & Spolaore). Caselli e Coleman (2006) mettono in luce come i tratti distintivi delle etnie (lingua, colore) permettono di escludere altri gruppi dall’accesso alle risorse controllate da un gruppo etnico:
«se la popolazione è etnicamente eterogenea, si possono formare delle coalizioni lungo linee etniche e l’identità etnica può quindi essere usata come marcatore per riconoscere potenziali infiltrati. Abbassando il costo dell’applicazione dell’appartenenza alla coalizione vincente, la diversità etnica la rende meno suscettibile all’infiltrazione ex post da parte di membri di quella perdente. Quindi, dal punto di vista di un gruppo etnico “forte”, vale a dire un gruppo che ha probabilità di prevalere in un conflitto, un’offerta per le risorse di un paese è una proposta ex ante più redditizia di quanto non lo sarebbe per un gruppo di agenti ugualmente forte in un paese etnicamente omogeneo. Senza i segni distintivi dell’etnia, questo gruppo sarebbe poroso e più soggetto a infiltrazioni. Ceteris paribus, quindi, dovremmo osservare più conflitti per le risorse nelle società etnicamente eterogenee, che è il fatto che ci siamo prefissati di spiegare. …Un’importante implicazione di questa idea è che non tutte le distinzioni etniche sono modi ugualmente efficaci per applicare l’appartenenza alla coalizione. … un elemento chiave di informazione è la distanza tra i potenziali contendenti. Praticamente tutto il lavoro empirico sui conflitti sottolinea la dimensione relativa dei gruppi presenti nel territorio di un paese. Come discuteremo di seguito, la dimensione gioca un ruolo importante nella nostra teoria. Uno dei nostri contributi, tuttavia, è quello di sottolineare che una seconda dimensione, la distanza, o il costo di distinguere i membri dai non membri del gruppo dominante, è anch’essa critica. … la nostra teoria del conflitto tra gruppi geograficamente separati è isomorfa alla nostra teoria dei gruppi etnicamente distanti, e si può quindi essere in grado di utilizzare il nostro modello, insieme alle variabili di stato rilevanti come spiegato nel paragrafo successivo, per spiegare i cambiamenti nel tempo nell’intensità del conflitto interregionale (e forse anche internazionale)». (2006: 1-2).
Michalopoulos enfatizza invece il ruolo di fattori oggettivi nel determinare le distinzioni etniche, in particolare l’omogeneità geografica del territorio; su questa causa possono successivamente intervenire altri fattori storici quali l’invasione di popolazioni straniere, per esempio il colonialismo:
«l’analisi mostra che la diversità etnica contemporanea mostra una componente naturale e una artificiale. La componente naturale è guidata dalla diversità nella qualità del territorio e nell’altitudine tra le regioni, mentre quella artificiale cattura le storie statali idiosincratiche dei paesi esistenti, riflettendo principalmente la loro esperienza coloniale. Le prove supportano la teoria proposta secondo cui, le eterogenee dotazioni territoriali hanno generato capitale umano specifico della regione, limitando la mobilità della popolazione e portando alla formazione di etnie e lingue localizzate». (2008: 1).
L’analisi di Alesina e Spolaore (1995) è volta a stabilire il numero e dimensione ottimi delle nazioni attraverso un’analisi dei benefici apportati da una più grande dimensione del paese e i costi attribuiti a una maggiore eterogeneità in grandi popolazioni. I benefici sono attribuiti alle economie di scala nella produzione dei beni pubblici – benefici moderati dal manifestarsi di fenomeni di congestione e difficoltà di coordinamento quando la dimensione si faccia troppo ampia. Per contro il costo di aggregati troppo ampi è nella più grande “distanza media culturale o delle preferenze fra gli individui … In piccoli, relativamente più omogenei paesi, le scelte pubbliche sono più vicine alle preferenze dei singoli individui che in paesi più grandi e più eterogenei” (1: 4-5).
In altri lavori Alesina sostiene che l’omogeneità etnica favorisce la condivisione di beni pubblici e forme di redistribuzione del reddito (per cui l’eterogeneità etnica indebolisce il consenso allo stato sociale) (Alesina et al. 2001). La tesi è provocatoria, ma è una sfida al facile multiculturalismo della sinistra.
* Sergio Cesaratto: professore ordinario di Economia della crescita e dello sviluppo e di Politica monetaria e fiscale nell’Unione Monetaria Europea. Dipartimento di Economia Politica e Statistica (DEPS), Università di Siena. e-mail: Sergio.Cesaratto@unisi.it.
NOTE
[1] http://www.treccani.it/enciclopedia/nazione/
[2] Curiosamente nel 1841 a List fu offerta la direzione della Rheinische Zeitung che dovette rifiutare per motivi di salute. Marx ne prese il posto.
[3] V. anche Joan Robinson (1966). Una discussione delle teorie di List nel dibattito sulle teorie del commercio internazionale alla luce della critica Sraffiana e del Realismo Politico è in Cesaratto (2013)
[4] Come rassegne del dibattito marxista sul nazionalismo si vedano l’ottimo volume di Szporluk (1988), la cui prima parte è dedicata al confronto Marx-List e che è utile anche per verificare l’evoluzione del pensiero di Marx di cui non si rende certo giustizia in questo contributo; e il libro di Gallissot (1979) dedicato al dibattito nel movimento socialista. Questo si è costantemente trovato di fronte all’intreccio di questioni nazionali e lotta per il socialismo, dalla questione irlandese all’intreccio di etnie nell’Europa dell’est e in Russia, dalle le scelte drammatiche a fronte del primo conflitto mondiale all’intreccio della lotta anti-colonialista con quella per il socialismo. Il dibattito ha sempre visto da un lato posizioni in un certo senso più vicine a quelle di Marx volte a ritenere fuorviante il nazionalismo, da tollerare al massimo come elemento tattico, e quelle di chi al nazionalismo assegnava un significato liberatorio più pregnante.
[5] Citazioni e riferimenti di pagina dall’edizione on line delle opere di Marx-Engels.
[6] I passi di Marx dell’Introduzione all’economia politica del 1857 sono ben noti: “In this [civil] society of free competition, the individual appears detached from the natural bonds etc. which in earlier historical periods make him the accessory of a definite and limited human conglomerate. Smith and Ricardo still stand with both feet on the shoulders of the eighteenth-century prophets, in whose imaginations this eighteenth-century individual – the product on one side of the dissolution of the feudal forms of society, on the other side of the new forces of production developed since the sixteenth century – appears as an ideal, whose existence they project into the past.” L’individuo isolato e astoricizzato da cui muovono Smith e Ricardo non è mai esistito, naturalmente (“Production by an isolated individual outside society … is as much of an absurdity as is the development of language without individuals living together and talking to each other”), ma è il prototipo dell’individuo della società borghese che si vuole spiegare e nella quale, appunto, i contratti si svolgono (apparentemente) tra individui liberi.
[7] In Cesaratto (2007 A/B) ho analizzato il ruolo dello Stato nella distribuzione del reddito alla luce del dibattito marxista e dei contributi di alcuni studiosi socialdemocratici scandinavi.
[8] Questo non esclude che più etnie possano allearsi nel costituire uno Stato nazionale con eguali diritti.
[9] La necessità del consenso della classe lavoratrice alla costruzione dello Stato nazionale ha storicamente portato le borghesie nazionali a prendere l’iniziativa nella creazione delle istituzioni dello stato sociale. Il caso di scuola è quello della Germania di Bismarck.
[10] Si veda al riguardo anche quanto Marcello De Cecco (2013) ha recentemente scritto: “Di fronte al perdurare della crisi più grave degli ultimi centoventi anni, in mancanza di soluzioni innovative suggerite dai teorici agli attori politici, la tendenza più forte sembra purtroppo essere quella a ricorrere a vecchie soluzioni che, a lungo tempo screditate, tornano a un tratto di moda e suggeriscono misure affrettate e pesanti perché prese in ritardo e senza accordo anche tra paesi appartenenti a unioni di Stati, come i paesi europei. Nazionalismo, protezionismo, regolamentazione dei mercati sono i nomi di queste soluzioni. Averle screditate e messe da parte per più di un cinquantennio come se si trattasse di pulsioni peccaminose e indegne di una nuova e superiore organizzazione internazionale è stato colpevole e persino stupido, perché in forma blanda esse dovevano rimanere in voga, persino il nazionalismo, mentre ora ci si trova a prenderle velocemente e in dosi assai maggiori, senza usufruire dei vantaggi che sarebbero derivati da dosi moderate, e correndo in pieno il pericolo di precipitare il mondo intero in un nuovo disordine internazionale con conseguenze economiche e politiche simili a quelle che indussero le due guerre mondiali e il marasma degli anni venti e trenta del Novecento.”
Riferimenti
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Cesaratto, S. (2013A). Harmonic and Conflict Views in International Economic Relations: a Sraffian view. Forthcoming in Levrero E.S., Palumbo A. and Stirati A., Sraffa and the Reconstruction of Economic Theory, vol. II, Aggregate Demand, Policy Analysis and Growth, Palgrave Macmillan, 2013. Versione working paper: http://www.econ-pol.unisi.it/dipartimento/it/node/1693
Cesaratto ,S. (2013B), L’Europa è sfinita – recensione a D’Antoni e Mazzocchi, http://politicaeconomiablog.blogspot.it/2013/09/leuropa-e-sfinita-recensione-dantoni-e_7408.html
Cesaratto, S. e Pivetti, M. (a cura di) (2012), Oltre l’austerità, download gratuito da: http://temi.repubblica.it/micromega-online/oltre-lausterita-un-ebook-gratuito-per-capire-la-crisi/
De Cecco M. (2013), Ma che cos’è questa crisi, Donzelli (introduzione: http://www.sinistrainrete.info/crisi-mondiale/3240-marcello-de-cecco-ma-che-cose-questa-crisi.html).
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Marx, K. (1848), On the Question of Free Trade – Speech to the Democratic Association of Brussels at its public meeting of January 9, 1848, Source, MECW Volume 6, p. 450; Written: 9 January 1848; first published: as a pamphlet in Brussels, February 1848.
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Marx, K. (1957) Outline of the Critique of Political Economy, http://www.marxists.org/archive/marx/works/1857/grundrisse/ch01.htm
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Pivetti, M. (2011), Le strategie dell’integrazione europea e il loro impatto sull’Italia, in Un’altra Italia in un’altra Europa – Mercato e interesse nazionale, a cura di L.Paggi, Carocci, Firenze.
Robinson, J. (1966) The New Mercantilism, Cambridge: Cambridge University Press.
Szporluk, R. (1988) Communism and Nationalism: Karl Marx Versus Friedrich List, Oxford: Oxford University Press.
Qualcuno ha visto bene la tabella delle tariffe presentata dall’anticomunista bancarottiere diffamatore abusatore sessuale?
La colonna che indica la tariffa caricata sugli USA è in pratica data dal rapporto tra deficit commerciale col paese di riferimento e il totale delle importazioni messa in percentuale, un numero che non ha nessun senso rispetto al concetto di tariffa. Per dire, secondo la formula la Cina caricherebbe gli USA di una tariffa del 67% nel 2024, il rapporto tra deficit commerciale con la Cina:295,401 e il totale delle importazioni:438,947 e il risultato moltiplicato per 100, per la Cambogia verrebbe fuori il 90%!
Insomma, una figura di m da parte del governo della prima potenza mondiale, una roba ridicola che solo dei completi idioti possono credere, cioè solo gente come i cultisti del MAGA o i salviniani, credere a una roba a livello di bocciatura a scuola.
Bando alle ciance e al politicamente corretto, gli USA sono governati da una manica di cialtroni o truffatori sulle spalle del popolo lavoratore, vedasi tentativi di licenziamenti di massa di lavoratori pubblici, sicuro appoggio di politiche antisindacali dato l’andazzo tra licenziamenti di figure chiave a livello federale nelle agenzie federali che in teoria servono a proteggere i lavoratori da abusi aziendali, il tutto grazie a un antisocialismo e anticomunismo ideologico al massimo grado al potere.