NIENTE SESSO, SIAMO GIOVANI di Alessia Vignali
Testimoniato dalle statistiche di mezzo mondo, un nuovo ascetismo fa scivolare il corpo al di fuori dell’esperienza di sé di molti giovani. Perché, e con quali conseguenze?
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Un tempo, il corpo dell’adolescenza era meta temutissima e agognata: sanciva il confine tra il bambino e l’adulto. “La prima goccia bianca, che spavento! E che dolore strano… Un innamoramento senza senso, per legge naturale a quell’età”…
La voce corrusca, quasi antica del maestro Battiato narra a perfezione i tormenti dell’epoca.
Era un confine fisico, sofferto e goduto nella profondità della carne, sino alle ossa. Era il corpo del desiderio, racconta lo psicoanalista Vittorio Lingiardi nel saggio “Corpo, umano” di recente pubblicazione (Einaudi, 2024).
Oggi potremmo a ragione definire il corpo un mistero troppo conosciuto, mai però compreso né integrato. Del corpo, di cui sappiamo troppo, in realtà non conosciamo granché. Non si dà infatti vera conoscenza che non sia esperita da dentro, poi tenuta nella mente, con la sua grazia e con la sua problematicità.
Aveva ragione Jaspers, quando criticando l’estensione ad ogni ambito dell’umano delle prassi scientifiche diceva che si può spiegare un fenomeno (erklaeren), senza comprenderlo (verstehen). Si può, cioè, indagare una realtà seguendo una metodica causalistica, senza però ottenere poco più che una descrizione, inutile a consegnarci qualcosa di significativo per la vita.
Il corpo da sempre sconvolge e terrorizza, per via delle emozioni e dei nessi causali che evoca attraverso le porte dei sensi. Ogni suo movimento mette a contatto con le radici stesse della vita e con la scabrosa possibilità della morte. Si può dunque capire quanto spesso preferiamo non sentirlo, non indagarlo, snobbarlo, schernirlo.
Ogni cultura ha elaborato le sue metodiche per inattivare le micce accese del corpo: vuoi con la demonizzazione, vuoi con la svalutazione. Per quanto riguarda noi occidentali, esse invalsero a partire almeno da Platone:
«Fino a quando noi possediamo il
corpo e la nostra anima resta
invischiata in un male siffatto, noi
non raggiungeremo mai in modo
adeguato ciò che ardentemente
desideriamo, vale a dire la verità (…).
Pertanto, nel tempo in cui siamo
in vita, come sembra, noi ci avvicineremo
tanto più al sapere quanto meno
avremo relazioni col corpo e
comunione con esso. (…)
E così, liberati
dalla follia del corpo, come è verosimile,
ci troveremo con esseri puri come noi
e conosceremo, nella purezza della nostra
anima, tutto ciò che è puro:
questo io penso è la verità».
Platone, Fedone
Dal sommo filosofo che scinde il mondo delle idee da quello della realtà, preparando il terreno alla scissione tra corpo e anima della successiva cultura cristiana, a Cartesio, che divide il mondo in “res cogitans” e “res extensa” e che per convincersi di esistere egli stesso deve fare appello al pensiero, sino ad arrivare a una scienza che per guarire la vita deve studiare l’anatomia sul cadavere, è evidente la difficoltà a confrontarsi con un corpo vivo, non oggettivato, un corpo in cui la mente sia ovunque, stranamente mescolata al sentire che si fa pensare, all’amore che si fa sconvolgimento d’ogni parametro vitale.
La medicina, che ancor oggi oggettiva il corpo (e per fortuna, è nel suo stesso statuto) e si estranea da esso dissolvendolo in una pletora di specializzazioni (perdendone di vista l’unità e l’interdipendenza tra le parti), si accorge d’aver smarrito qualche verità per strada e decide di voler essere anche psico-somatica, o psico-neuro-endocrino-immunologica. L’intento è lodevole, i contenuti degli studi sono affascinanti e terapeutici. Tuttavia, l’uso di questi termini dicotomici o addirittura quadricotomici denuncia l’impossibilità anche per le scienze biomediche di oggi a immaginare mente e corpo, psiche, anima e cervello come davvero tutt’uno. Semplicemente, la sua metodologia non lo consente e nemmeno la mentalità. Come indagare l’anima o i sentimenti con un bisturi?
La scissione tra mente e corpo che ancora pervade il modo in cui l’uomo intende sé stesso attraverso la scienza contemporanea tracima nel vissuto di ognuno di noi. Perché quando la scienza ci dipinge da un lato come “solo corpo” attraverso le neuroscienze, che pretendono di spiegare l’uomo a sé stesso attraverso i circuiti neurali del suo cervello, dall’altro come sola cultura, intendendo per esempio i generi come soltanto culturalmente dati, l’incapacità di pensarci come entità spirituale integrata appare evidente. Non abbiamo nemmeno il linguaggio, per rappresentarci in quest’ultimo modo.
Umberto Galimberti, che ha condotto uno studio sulla lingua di Omero e dei presocratici e sulla lingua dell’Antico Testamento, ravvisa in esse le tracce di un diverso modo d’intendere il corpo per l’uomo dell’epoca. Gli arti stessi del corpo e la carne vengono denominati come già implicati nell’intenzione desiderante del soggetto verso il mondo, come già pregni di mondo: il corpo viene rappresentato linguisticamente come messa in relazione tra l’uomo e il mondo, come possibilità per l’uomo di mettere in atto la sua intenzionalità. Non si avverte, nell’espressione, traccia di oggettivazione o reificazione del corpo, il “corpo è l’uomo”: nella sua desiderante appartenenza al mondo. In Omero, afferma l’Autore, «l’Io dell’uomo non è la psyché, ma il corpo, come corporee sono quelle funzioni che un giorno saranno attribuite all’anima: si tratta del thymos (sentimento) e del noos (pensiero) che Omero connette al cuore (kardia) e al diaframma (phrenes) (…). Come già le membra del corpo, così quelle funzioni che un giorno verranno dette dell’anima non sono unificate nella mentalità omerica, ma vivono al plurale, come forze autonome e non di rado in conflitto tra loro». Questa lingua è per noi perduta.
Dalle sante anoressiche medioevali arriviamo alle anoressiche o bulimiche di oggi; dai flagellanti cristiani giungiamo agli adolescenti contemporanei, che si tagliano mediante la pratica del “self cutting”; dopo i lottatori di sumo incontriamo body builders in odore di ortoressia (la “mania per la muscolarità”), o eserciti di obesi che affrontano le loro difficoltà con la chirurgia bariatrica e un nuovo farmaco miracoloso, l’Ozeimpic. Pochi sono, tra quest’ultimi, coloro che si rivolgono a una psicoterapia, nella consapevolezza che il tormento che affligge il corpo può nascere dalle sofferenze di una tormentata biografia. Ultima nata è la dermorexia, la mania per la pelle perfetta che sembra coinvolgere tante adolescenti, affascinate dalla pulizia del viso alla coreana.
Questa breve galleria testimonia come il continuum nell’oscillazione tra l’ascesi, denominabile nelle gergalità di oggi “hypoembodiment”, e l’ipermaterializzazione, o “hyperembodiment”, sia una costante nella storia e ricorra nelle diverse culture.
Tra la “caduta nel corpo” e l’“ascesi mistica oltre la corporeità” sembra esserci un nesso, anzi, i due fenomeni sembrano due facce della stessa medaglia, così come lo sono l’anoressia e il “binge eating”: l’impossibilità per la mente di “tener dentro” ed elaborare i messaggi dolorosi, allarmanti, vitali, euforizzanti provenienti dal corpo. O viceversa, l’inabilità ad uscire dalla dimensione della pura datità materiale del corpo per accedere a un pensiero, che traendo spunto proprio dalle sensazioni corporee si faccia idea del mondo, di sé stessi, filosofia di vita.
Il corpo sembra essere un “grande rimosso”, un “impensabile” anche per gran parte degli abitanti della cultura contemporanea. Anzi, oggi più di ieri assistiamo a una rivincita delle prassi di scotomizzazione del corpo che tocca, in modo specifico, la sfera del sessuale.
Per i boomers di cui parlavamo a inizio articolo, quello dell’adolescenza all’epoca era ancora, tornando a Lingiardi, «…un corpo che, svestendosi, si vestiva di fragilità e di paura, di fragilità e forza, di mistero. Era il corpo del piacere, delle cavità e degli umori. Il corpo che si innamora: degli uomini e delle donne. Il mio corpo con il corpo dell’altro. Un corpo paesaggio che imparavi dalla vita e dalla poesia». La poesia che l’Autore cita per esemplificare l’esperienza è densa di evocazioni proprio a partire dall’anatomia:
E finiamo cullandoci l’un l’altro
tra le labbra
di un terrapieno.
Mentre esamino
per diletto
la pavimentazione
delle sue nocche,
i tornelli
dei suoi gomiti.
(S. Heaney, Sogni d’osso, 1975)
L’incontro con i due misteri, il corpo proprio e quello dell’altro, sembra essere un appuntamento cui troppi giovani di oggi preferiscono, invece, non presentarsi. Paradossalmente, ora che si è tanto liberi sembra che non si voglia proprio scoprire cosa comporti l’uso di questa nuova libertà. Giunge sempre più tardi “la prima volta”, molte sono le giovani coppie che non hanno fatto sesso nell’ultimo mese.
Uno psicoanalista specializzato in adolescenza, Matteo Lancini, sembra in rete giustificare il fenomeno: a quanto afferma con un “reel” su Tik Tok (si tratta di uno spezzone “tagliato”, forse il discorso ascoltato per esteso andrebbe a completarsi e a chiarirsi), «i ragazzi semplicemente non sono molto interessati all’atto sessuale perché conta compenetrare la mente dell’altro, non il corpo. Oggi ci sono molti altri aspetti che gratificano di più della sessualità. È il vivere nella mente degli altri, e in questo abbiamo costruito una società legata al follower, alla popolarità, al successo, alla gratificazione che ti dà l’essere pensato e non compenetrare il corpo dell’altro. Il sesso, insieme alle canne, era un tempo un modo per crescere e opporsi agli adulti. Oggi le canne sono anestetiche e il sesso qualcosa di fastidioso. Meglio farsi un selfie e un sexting, molto meno impegnativi».
Credo di cogliere, dietro l’apparente “giustificazione”, una descrizione del fenomeno attuata attraverso la scelta retorica dell’identificazione: Lancini si identifica nel ragazzo di oggi e ne espone il modo di ragionare, senza giudicarlo. Ne emergono i malintesi, veri e propri “bias cognitivi”, in cui incorre quello stesso giovane: anzitutto, l’idea che si possa essere davvero “pensati” dall’altro quando si posta qualcosa in rete.
In realtà, quanto accade non è un vero ingresso nella mente dell’altro. Non entriamo nel suo pensiero, quando ci esprimiamo online: siamo, piuttosto, stimoli sensoriali complessi che colpiscono i suoi sensi e la sua emotività, che poi elabora e fantasmizza a modo suo, senza il peso ed il freno della nostra reale presenza.
L’altro utilizza cioè i nostri pensieri, fruisce della nostra immagine, ci trasforma in ciò che gli serve e che combacia con il suo immaginario, coi suoi bisogni immediati, anche intellettuali, se è ciò che in quel momento persegue. Tra i bisogni immediati può esserci persino quello di innamorarsi di noi, perché no! Ma è veramente di NOI, che egli si innamora? Perché ci si innamora assai facilmente di un’immagine bidimensionale, anche composta di frasi e parole, idealizzabile ad libitum.
Siamo, in rete, la tela bianca su cui l’altro dipinge il suo dipinto. Ovvero: l’espediente per permettergli di esperire sé stesso.
Affrontare uno sguardo, il repentino cambiamento di colorito, di odore, dell’altro; fare esperienza di lui assieme a noi nel mondo; questo è quanto si sta perdendo.
Online si possono avere, nel migliore delle ipotesi, relazioni, non rapporti. La relazione, dal latino “referre” (riferire), significa “racconto” (cerebrale) di sé. Mentre il “rapporto” è vivere l’altro, vivere con l’altro, sentire l’esperienza fatta assieme sulla pelle e leggerla assieme a lui. Solo al “rapporto” appartiene la possibilità di quella conoscenza profonda dell’altro che ci rende possibile il “tenerlo nei nostri pensieri” ed “essere tenuto nei suoi”. Sarebbe questa, forse, l’esperienza desiderata dai ragazzi alla ricerca di likes, cioè conferme, online. I like, anche quando sono migliaia, lasciano i ragazzi vuoti come prima, perché una semplice conferma non vuol dire che son tenuti nella mente o tra le braccia di nessuno.
La verità è che il sesso ha sempre fatto paura, poiché implica prima di tutto un incontro con il proprio corpo, che oggi sta diventando, proprio a causa della virtualizzazione progressiva dalla nostra esperienza, ancora più temuto di prima: abituato e quasi anestetizzato dalle migliaia di video su Porn Hub di cui ho fruito online sin da bambino, come reagirà il mio corpo a un corpo vero? L’imprevisto di quelle parti del corpo che non controllo a quali angosce mi sottoporrà? I timori ipocondriaci prendono poi, sempre più spesso, il sopravvento.
Oggi l’incontro con esperienze forti che implichino il corpo è difficile più che in passato, perché i nostri figli non hanno, spesso, avuto nel genitore una guida alla mentalizzazione del loro corpo, vero compito da conseguire nella prima fase dello sviluppo.
L’identità, non i vari alias o avatar fittizi che ci diamo, nasce nei primi anni di vita, quando una madre traduce in parola le prime sensazioni corporee, i primi piaceri, le prime sofferenze. Avviene allora quel “miracolo” che fa di un “animaletto” un uomo, di una mente immatura abitata da “pensieri selvaggi senza pensatore” una mente capace di tradurre la sensazione in emozione, l’emozione in parola, volendo in sentimento, poi in pensiero.
Mattina
M’illumino d’immenso.
In questo celebre verso di Ungaretti cogliamo cosa sia un pensiero umano nato dalla sensorialità. Arriva lo stimolo sensoriale che ci avverte di qualcosa che accade nel mondo: è mattina. Il corpo risponde, la sensazione mobilita l’emozione, che recupera poi tutte le esperienze mnestiche precoci, i desideri, le nostalgie, le visioni di futuro del soggetto, e genera un sentimento complesso, ancora pregno di corporeità: il poeta s’illumina d’immenso.
Sarebbe poeta, il poeta, senza questo sentire ancora grondante di corpo, di sensorialità? Sarebbe uomo, l’uomo?
Prima ancora che sentirsi maschi o femmine, i nostri ragazzi fanno fatica ad avvertire e a decodificare il significato dei messaggi del loro corpo, che a loro appare alieno e inquietante proprio perché non sono mai stati abbastanza assistiti nel conoscerlo nella prima infanzia, poi vengono educati a vivere come se non esistesse.
L’incontro con il corpo dell’altro genera turbamento perché riconnette a memorie sepolte d’intimità primarie, i primi abbracci, i baci, la commistione di pelle e di carezze con il corpo materno… “Madonna con bambino”. I ragazzi di oggi son stati presso la madre sempre troppo poco, per troppo poco tempo. Per lavorare la donna deve presto collocare i figli al nido, farli assistere da altre, far loro perdere troppo presto il paradiso e renderli, in qualche modo, orfani di lei, di sé, di corpo. Vero femminismo sarebbe lottare affinché una madre possa stare con il suo bambino i primi tre anni della sua vita, con uno stipendio!
E poi… poi c’è, ancora e di sottecchi, l’Edipo. La scienza cosiddetta “evidence based” (basterebbe parlare con un epistemologo per capire il reale significato di questa espressione) già si difende, sostenendo che non c’è. Come affrontare l’Edipo, sguarniti come siamo rispetto alla sfera del corporeo? Quanti desideri sono non già rimossi, ma forclusi in molti di noi.
Il fatto è che il corpo della donna per l’uomo, dell’uomo per la donna, generano ancora, da sempre e per sempre, ricordi e desideri antichi e inconfessabili.
I ragazzi vengono poi catapultati in queste nostre vite false, in cui gli incontri sono garantiti dai colossi del web, che fanno soldi sui loro volti e sulle loro speranze. Senza una base di sensorialità ben acquisita, senza una vera “terra” sotto i piedi, è difficile riprendersi.
Incontrare il corpo dell’altro intristisce perché ci ricorda l’abbandono del nostro, di corpo, e della nostra anima, da sempre abbandonata.
A terrorizzare è il rapporto profondo, metaforizzato dall’intimità dei corpi. Rapporto che ben pochi di noi sanno cosa sia. Nel rapporto con il ragazzo, con la ragazza, temiamo di scoprire ciò che non abbiamo mai avuto la chance di scoprire di noi stessi. Temiamo di scoprire che non valiamo niente, così come poco abbiamo pensato di contare per genitori sempre distratti, presi dal lavoro, e ancora meno contiamo per questa società intenta solo a sfruttarci.
Le madri di oggi vivono dello stereotipo del figlio che si son fatte di lui, a figlio non cresciuto da loro. Troppo spesso mettono in campo la loro idealizzazione di lui, non la conoscenza del figlio reale. Lui va bene perché è perfetto, griffato, popolare. Finché non presenta i problemi di cui sopra: self-cutting, anoressia, ecc. ecc.
Difficile, con questo vuoto nella conoscenza di sé, abbandonarsi con fiducia tra le braccia di un altro.
Bene, ma troppa carne al l fuoco. Io su Platone e Cartesio ci andrei un pò più cauto