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E ALLA FINE ARRIVA LUI: LEONE XIV di Alessia Vignali

Riflessioni di matrice psicodinamica sul fenomeno del papato, traendo spunto da quello appena incominciato.

È grande la commozione dei fedeli – ma anche la sua – quando s’affaccia sul soglio pontificio, alle 18 del meriggio, preludio alla sera. Tutto è simbolo, in questo momento in cui la Storia sta per cambiare e l’Eternità per trovare un suo nuovo volto. A sorprendere, nel nostro mondo aridamente secolarizzato, è la tenace continuità della Chiesa, il suo rinnovarsi, morire e rinascere da sempre e per sempre. La Chiesa come universo umano e spirituale in cui tralucono i bagliori dell’insondabile; la Chiesa come agenzia etica, l’unica rimasta in un panorama d’istituzioni moralmente afone, operanti in un tempo in cui più che mai avremmo bisogno di una guida nel buio. La Chiesa, “vox clamantis in deserto”? Voce veridica? O voce contraffatta anch’essa, come le mille voci false di questa simulazione corale d’intenzioni meritorie che è l’occidente collettivo?

A quel “venire dalla fine del mondo” di Francesco succede il comparire sul far della sera (dell’Occidente? Del mondo intero, alle soglie della terza guerra mondiale?) del papa prossimo venturo. E se il viso rotondo del primo sorprese i fedeli quasi spaccandosi in un sorriso, presago di necessaria amorevolezza (ma col senno di poi lo psicologo potrebbe leggervi, con malizia, i segni della scissione), i tratti delicati del secondo, le sopracciglia lievemente scese, la gestualità misurata sembrano raccontare la mite tenacia di un “pessimista della ragione, ottimista della volontà”.

Sarà proprio così?

I volti dei nuovi papi, i loro corpi: geografie della fisiognomica in cui il fedele cerca di rintracciare i tratti caratteriali e, insieme, i valori e i principi non negoziabili riletti alla luce del tutto nuova della persona nuova. Persona che è la prima, nella sua carica, a vivere nel tempo irripetibile in cui si svolge l’avventura terrestre dell’oggi, dopo che il suo predecessore aveva tentato le sue soluzioni mostrando limiti e possibilità: in genere, soprattutto limiti.

Chi sarà la persona del nuovo papa? Sarà essa, come alcuni poco onorevolmente sostengono, più dirimente della dottrina di cui si fa portavoce? Sarà essa invece caratterialmente insicura, abdicherà magari al compito, come altri hanno imputato a Benedetto XVI? O si tratterà finalmente di qualcuno che incarni lo spirito della cristianità? Quanto la sua umanità saprà commuoverci, ispirarci, guidarci, consolarci, accogliere le nostre paure, lenire le nostre sofferenze e infine porre rimedio all’infinita pena d’un mondo allo sfacelo in modo inedito?

Lontane dallo scoraggiarlo, le “terrae incognitae” del volto del papa nuovo inducono il fedele a sperare, ancora. Egli interroga “il corpo del capo” come un aruspice, anche perché a parlare, prima d’esso, fu il corpo di Cristo. Ricorda Leone stesso nella sua prima omelia: “In Gesù Cristo, il Figlio del Dio vivente, l’unico Salvatore e il rivelatore del volto del Padre, Dio, per rendersi vicino e accessibile agli uomini si è rivelato a noi negli occhi fiduciosi di un bambino, nella mente vivace di un giovane, nei lineamenti maturi di un uomo, fino ad apparire ai suoi, dopo la risurrezione, con il suo corpo glorioso. Ci ha mostrato così un modello di umanità santa che tutti possiamo imitare, insieme alla promessa di un destino che invece supera ogni nostro limite e capacità”.

Nella celebrazione dell’uomo nella sua verità corporea, nelle sue età, nei suoi limiti, nel suo cambiamento perenne, nella caducità e nel desiderio d’illimitato, Leone si assume appieno l’onere d’incarnare il Cristo e si riconnette alla fonte divina del suo operato, così come dovremmo poter fare tutti secondo il cristianesimo.

La scelta di dichiararsi erede di Pietro, di indossare l’abito della tradizione, chiarisce l’intento programmatico di riallacciarsi al passato, di non volere quella cesura promessa di Bergoglio nella sua prima parola, commovente nella sua umiltà ma rivelatrice nella sua trasgressività: “Buongiorno”.

Come pensiamo debba poter accadere alla nostra morte – ma questo è un privilegio che ciascuno di noi lascia, suo malgrado, a chi gli sopravvive- solo quando un papa muore è possibile tentar di comprendere il senso del suo operato alla luce del progetto dell’Uomo rispetto alla Storia.

Psicodinamicamente parlando, il più grande rammarico dell’umano è dover lasciare questa terra avendo ancora da perfezionare e sviluppare il progetto di sé e del proprio operato trasformativo nel mondo. Compito d’ogni nato è far rilucere nel creato la novità del suo messaggio, portare in essere la sua promessa sulla terra, realizzare al massimo le sue potenzialità per il bene suo e del mondo. Solo così egli si fa portavoce della grandezza dei genitori, degli avi, del Padre per chi crede. Quando lasciamo questa terra sentiamo che c’è qualcosa d’incompiuto, in noi stessi e in ciò che avremmo potuto fare e rappresentare.

La religione lenisce questo dolore, tuttavia il bilancio dell’operato terrestre rimane da fare. Che figlio della Chiesa è stato Bergoglio, che Padre? Quale ruolo trasformativo del nostro tempo ha avuto, se ne ha avuto uno? Ha rispettato il mandato che, nella fattispecie, era divino? Non ci assumiamo, qui, il compito di un tale giudizio, che lasciamo alla discrezione personale del lettore.

Ricordiamo che per i più, anche per ragioni strumentali di questa o quella fazione politica, si è trattato di una specie di santo, un progressista dedito agli ultimi. Per altri fu una figura ambigua, un massone, per alcuni addirittura un antipapa. Chi ha condotto analisi equidistanti ha saputo evidenziarne i passi falsi, le prove ed errori, le ambiguità, le scelte retoriche e comunicazionali talora in contrasto con l’operato effettivo, l’opportunismo comunicazionale in linea con le istanze progressiste di Davos, il tentativo di riformare una Chiesa in perdita secca di fedeli e vocazioni, poi corretto da brusche frenate (dal “Chi sono io per giudicare?” al “Nella chiesa c’è troppa frociaggine”). Umano, troppo umano?

Nel voler soddisfare le due fazioni, progressisti e conservatori, le ha deluse entrambe.

Con la pandemia ha forse mancato a un appuntamento storico, l’occasione di dimostrare che la Chiesa è bene al di sopra di una pandemia terrena. Di lui rimane l’anelito a privilegiare gli scartati, in linea con la teologia della Liberazione e con il messaggio germinale del primo cristianesimo. Fu un trasgressivo?

Il giudizio non compete solo ai fedeli, interessa gli uomini. Il problema esistenziale in ballo è, qui, infatti, quello dell’eredità. Atei o credenti, rechiamo in noi scintilla di qualcosa di sacro, foss’anche solo il bene della vita, da proteggere fino alla fine dei tempi. Il sacro che abbiamo in noi ci è stato trasmesso dai nostri genitori, che in genere hanno tentato di darci tutto quanto potevano in termini di valori, di filosofia del vivere. Ci hanno dato quel che avevano compreso, quel che faticosamente avevano strappato al mistero che è l’esistere.

Ogni giovane deve fare i conti con questo “patrimonio”: tanto è vero che, per poter acquisire autonomia di giudizio rispetto ad esso, la fase tumultuosa dell’adolescenza è ritenuta un passaggio necessario, in cui occorre “uccidere simbolicamente i genitori” per potersene distaccare affettivamente e cognitivamente. Solo in questo modo si potrà trovare la propria unica, irripetibile identità. Le similitudini verranno viste dopo, quel che importa è che sia avviata la strada verso la ricerca di una propria natura. Solo così, possiamo essere “nani sulle spalle di giganti”. Ereditare significa, in un primo momento,“tradire” quanto ci hanno dato per verificarne autonomamente, alla luce del proprio discernimento, validità ed errori. Ereditare significa, poi, recuperare la bontà di quanto ricevuto come un bene prezioso e portarla nel mondo nuovo con le proprie capacità.

Così come ai padri succedono i figli, per fortuna (da un certo punto di vista!) “morto un papa se ne fa un altro”. E come il Figlio, rappresentato dal bambino Gesù nel Presepe in maniera commovente, incarna la speranza della novità travolgente che saprà cambiare il mondo, spazzarne via la corruzione, le ingiustizie, la disumanità, si crede che un nuovo papato ci apra al mondo nuovo.

Il papa nuovo potrà “salvare la Chiesa”?

“I will sing a new song to the Lord, because he has done marvels”, “Canterò al Signore un canto nuovo, perchè ha fatto meraviglie”, dice Leone XIV sempre nella prima omelia, citando il Salmo 97/98. Non sfugga al lettore la necessità ed il valore di un canto che sia NUOVO.

Qui, la Chiesa offre una ricetta apparentemente speciale, la fede. Può l’uomo vivere senza la fede?

In realtà, per la psicoanalisi di Erich Fromm la fede è un fenomeno psichico senza il quale l’uomo non può vivere. Checché il relativismo etico di oggi sembri credere nella possibilità di vivere senza la fede, lo sperdimento contemporaneo sembra avvalorare la tesi di Fromm. L’uomo d’oggi soffre di una cronica infelicità conscia o inconscia. Può vivere persino in ebete euforia, tra apericena e promesse mancate, mentre nasconde a se stesso d’essere disperato.

Sembriamo non riuscire a fare a meno di un sistema d’orientamento e devozione fondato sulla fede, tanto che in assenza di esso ne eleggiamo inconsciamente altri, più subdoli, meno dichiarati. Senza accorgercene, sposiamo ideologie forti che si spacciano per deboli e si travestono da “stili di vita”, come quella del consumo. Oppure, facciamo del “pensiero unico”, di qualunque sponda esso sia, l’acritica guida della nostra vita, e mentre crediamo che sia il prodotto originale delle nostre menti non ci accorgiamo d’essere invasi.

Una fede è necessaria, meglio se consapevole.

Quando ogni bambino nasce, la madre sufficientemente buona CREDE che potrà imparare, acquisire, crescere… perché lui ne ha la potenzialità. Così, ognuno di noi deve CREDERE che i suoi sogni possano avverarsi, per esempio. Lo farà con la forza apparentemente irrazionale del “è sempre stato così, ci sono le potenzialità affinché sia così”.

Fromm ci ricorda che anche la fiducia nel fatto che l’uomo possa darsi un sistema sociale equo, fondato sul rispetto delle istanze esistenziali più profonde per il massimo sviluppo dell’essere umano, è un atto di fede. Il fatto che tale sistema non si sia mai realizzato non deve indurre l’uomo ad arrendersi: l’uomo ha in sé tutte le capacità per realizzare tale sistema!

Si tratta di una fede, dunque, che potremmo denominare “razionale”, basata su evidenze empiriche e radicata nel sentimento di sé che l’uomo SANO può avere conoscendosi intimamente e considerandosi come degno di fiducia. Egli è fiducioso in sé: come disse Nietzsche, “l’uomo può essere definito dalla sua capacità di promettere”. La fede in se stessi conduce poi alla fede negli altri e quella nell’umanità.

Come avere fiducia nell’umanità proprio oggi, se non grazie a un atto di fede?

Come trovare il coraggio di fare un figlio adesso, se non grazie alla fede?

Apparentemente fondata sulla magia e sull’irrazionale, la fede manda avanti il mondo, persino quello della scienza: nessun ricercatore persevererebbe nei suoi studi, se non avesse fede nella possibilità di validare attraverso la sperimentazione una verità intuita. La fede può essere non religiosa ma sorreggere la vita della persone: per esempio, la fede nell’arte, nella bellezza, nella scienza.

La fede, poi, può essere nel mistero di un creatore tanto più grande, tanto più splendido di noi da indurci, proprio perché al di fuori della nostra esperienza quotidiana, a superare noi stessi nell’imitazione di lui.

Se Freud considererò la fede in Dio un residuo irrazionale e la descrisse come “nevrosi collettiva”, Winnicott la considererebbe invece come tra i più alti prodotti della mente umana, facente parte dell’area transizionale, quella della creatività, che sa vedere il mondo come diverso da com’è e ne inventa un’alternativa.

E’ la stessa area in cui nascono e si sviluppano l’arte, la scienza, la cultura, la politica,la civiltà, che Freud avrebbe ascritto a una grande capacità dell’uomo, quella di sublimare i suoi impulsi.

In essa l’uomo dà il meglio di sé, perché la magia del suo desiderare e la forza della sua capacità d’amare si fondono con le sue capacità razionali più alte. Questo, il parere di due padri della psicoanalisi.

Come psicoanalista trovo altrettanto interessante quanto sostiene il reverendo Pfrister, coltissimo amico di Freud e a sua volta psicoanalista, in risposta al saggio che Freud intitolò “L’avvenire di un’illusione”. Freud sosteneva che l’umanità avrebbe tratto beneficio dal liberarsi della religione. Per lui “il futuro di questa illusione” sarebbe stato sperabilmente ben poco roseo. Pfister gli rispose, invece, con un saggio intitolato  “L’lllusione di un avvenire”(1939).

Come a dire che, senza la religione e senza la fede, è l’avvenire a rimanere una pia illusione.

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