SALGADO E LA FINE DEL MONDO di Moreno Pasquinelli
La morte di Sebastiano Salgado, uno dei più grandi fotografi mai esistiti, sollecita una breve riflessione.
L’impressionante foto sopra e accanto (Sebastiao Salgado/Contrasto) ritraggono la miniera d’oro a cielo aperto di Serra Pelada, Stato del Parà, Brasile. Era il 1986. Si disse allora, citando Fanon: “I dannati della terra”.
Proprio Salgado ebbe invece modo di precisare: «Sì, ma quei minatori non erano schiavi. Erano lì per libera scelta. Dietro a quella foto non c’è lo sfruttamento, c’è la febbre dell’oro, l’avidità della ricchezza». [Corriere della Sera 21 maggio 2023]
Si coglie, in questo giudizio sconsolato, un catastrofismo antropologico che sfiora la misantropia, un disprezzo sconsolato per l’umanità — giorni addietro scrivevo sulle origini del pessimismo antropologico. Disse il nostro che “La Terra è stanca di noi”, che la specie umana è condannata, causa sui, all’estinzione. Non solo quindi un ambientalista radicale. Egli giunse alle stesse conclusioni dei seguaci della Ecologia Profonda (deep ecology) per cui l’antropocentrismo era una specie di male assoluto che doveva essere combattuto per una visione biocentrica.
Va evitata ogni schematica semplificazione, basti qui segnalare che una delle implicazioni dell’Ecologia Profonda è che per difendere la vita non basta farla finita con un capitalismo distruttore e la sua idea patologica della crescita infinita, occorre andare alla radice, ridurre le interferenze umane sul mondo non umano, è necessario diminuire drasticamente la popolazione. Siamo oltre Thomas Hobbes secondo cui l’uomo è un lupo per gli altri uomini, la specie umana sarebbe, in quanto tale, un flagello per la natura.
Tornando a Serra Pelada: era davvero “libera” la scelta di quei garimpeiros? O invece, per molti di quei diseredati, furono proprio le già miserevoli e disperate condizioni sociali a spingerli ad ammassarsi in quel formicaio infernale? Davvero quei dannati non erano sfruttati? O forse erano solo diversamente sfruttati, visto che a guadagnare cifre stellari furono le multinazionali a cui i minatori dovevano cedere l’oro che strappavano al fango?
Una cosa è certa, Genesio Silva, figlio del primo minatore, disse che suo padre «non ha guadagnato quasi nulla, ci dovrebbero 120 chili d’oro di royalties che non abbiamo mai visto»; per quindi aggiungere che quelli che diventarono ricchi a Serra Pelada «si contano sulle dita di una mano. Quasi tutti tornarono a casa, o sono rimasti a vivere qui senza un soldo». [Corriere della Sera del 4 novembre 2019]
E il sogno di diventare milionari? Non da forse esso ragione al pessimismo antropologico di Salgado? Non è forse questa avidità connaturata all’essere umano?
Non è questo il luogo per affrontare il tema complesso di cosa debba intendersi per “natura umana”. Basti dire che questa natura non dipende solo dalla natura ma anche dalla storia, dalla cultura, dai tipi di società e civiltà che si sono succeduti e continueranno a succedersi. Una cosa è certa: la civiltà capitalistica non solo fa leva e alimenta i sentimenti egoistici, di qui i fenomeni della competizione invece della cooperazione, della rivalità invece che della solidarietà e del mutuo soccorso; essa inculca l’idea tossica che la forma suprema della ricchezza consista nell’accumulazione di cose, di beni materiali, il cui simbolo supremo è il denaro.
La discussione su cosa sia la natura umana, se ci sia un’essenza immutabile, ci accompagnerà ancora per lungo tempo, che non sia un alibi per conservare questa società disumana e ripugnante.