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COME SALVARE L’EUROPA?

di Héctor Illueca / Augusto Zamora R. / Antonio Fernández / Manolo Monereo*

Volentieri pubblichiamo questo intervento di alcuni importanti intellettuali della sinistra spagnola. Essi avanzano l’idea di una Confederazione che rimpiazzi l’attuale Unione europea, ovvero nel perimetro della UE attuale, senza quindi la Russia.

Gli autori evocano lo “spirito di Bandung” e perorano il multipolarismo ma traspare l’idea di matrice globalista che si sarebbe chiusa definitivamente l’epoca westfaliana degli stati nazionali sovrani, che perciò il destino del mondo appartenga a grandi imperi-potenza. 

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Ciò che sembrava impensabile solo pochi anni fa è ora una realtà tangibile: l’Europa è entrata in una nuova fase di riarmo. In termini di bilancio, il balzo è colossale e senza precedenti dalla Seconda Guerra Mondiale. I piani dell’UE prevedono una mobilitazione fino a 800 miliardi di euro a breve e medio termine, mentre il governo spagnolo ha annunciato l’intenzione di aumentare la spesa per la difesa al 2% del PIL entro il 2025, il che implica un ulteriore stanziamento di 10,471 miliardi di euro di spese militari. Ancora più significativa è la dichiarazione rilasciata il 16 maggio dal Segretario Generale della NATO Mark Rutte, secondo cui la Spagna raggiungerà “senza dubbio” una spesa per la difesa pari al 5% del PIL nei prossimi anni. Se questo obiettivo verrà raggiunto, la Spagna stanzierà circa 80 miliardi di euro all’anno in settori legati alla difesa e alla sicurezza.

La decisione dell’UE di avviare un piano di riarmo di questa portata segna una svolta nella configurazione economica e politica del continente. Infatti, a differenza di altre iniziative di emergenza come il fondo Next Generation EU, che ha istituito meccanismi eccezionali di mutualizzazione del debito, il riarmo sarà finanziato principalmente attraverso l’emissione di debito sovrano da parte di ciascun Stato membro, il che avrà profonde implicazioni per le disuguaglianze, la disciplina fiscale e la gerarchia politica all’interno dello spazio europeo. Questa scelta non è affatto neutrale: optando per un sistema di finanziamento decentralizzato, l’UE sancisce un’architettura asimmetrica che riproduce e approfondisce le disuguaglianze esistenti al suo interno, evocando gli anni barbarici della crisi finanziaria, quando il debito pubblico divenne un meccanismo per disciplinare i paesi periferici e costringerli ad attuare tagli sociali feroci. Invece di correggere gli errori del passato, il riarmo europeo li riproduce in un nuovo contesto politico-militare.

I popoli dell’Europa meridionale sanno bene cosa questo significhi: il riarmo potrebbe riattivare il modello sperimentato durante la crisi del debito sovrano dell’eurozona. Paesi come Spagna, Italia e Grecia, con livelli di debito strutturalmente elevati, incontreranno serie difficoltà a finanziare il loro sforzo bellico, ed è probabile che questo indebitamento avverrà a condizioni sempre più onerose, limitando il loro margine di manovra fiscale e condizionando le loro decisioni di bilancio, riproducendo una gerarchia politica imposta dai mercati. Ciò significa che gli Stati più solventi saranno in grado di sviluppare le loro capacità di difesa senza troppi problemi; al contrario, gli Stati periferici saranno in grado di rispettare i loro impegni di spesa militare solo se accetteranno restrizioni su altri settori chiave , come l’assistenza sanitaria, l’istruzione o le pensioni. Il risultato è un’economia di guerra altamente gerarchica, in cui la capacità di indebitamento determina la posizione relativa di ciascuno Stato nell’effettiva distribuzione del potere europeo: coloro che possono finanziare il riarmo lo guidano; coloro che non sono in grado di farlo semplicemente obbediscono.

Così com’è stato concepito, il riarmo europeo sovverte le priorità pubbliche e seppellisce il costituzionalismo sociale del dopoguerra, consolidando un nuovo blocco storico attorno al capitale bellico-industriale. Il margine di manovra dello Stato nei confronti delle classi si restringerà sempre di più e sarà condizionato da imperativi geostrategici stabiliti da organismi completamente estranei alla volontà popolare. In questo contesto, si assisterà a una separazione sempre maggiore tra il Paese legale — le istituzioni formali — e il Paese reale — le maggioranze espropriate —, erodendo così la [già lesionata] legittimità dell’ordine attuale. Una nuova coscienza emergerà dall’oceano di menzogne ​​che alimenta la propaganda di guerra. È ancora diffusa, frammentata, persino contraddittoria. Ma esiste ed è alimentata dalla stanchezza, dal deterioramento delle condizioni di vita e da una memoria che conserva ancora gli echi di altre resistenze. Questa coscienza non si esprimerà immediatamente in forme organizzate o con i vecchi linguaggi. Sarà un processo lento, irregolare e travagliato. Ma aprirà una crepa, e attraverso quella crepa la storia potrà insinuarsi.

Ogni crisi racchiude in sé la possibilità di un nuovo inizio. La frattura della costituzione materiale può aprire un ciclo politico di lungo termine orientato alla ridefinizione democratica del potere. Sotto la superficie, come una vecchia talpa che scava instancabilmente, sta emergendo una coscienza critica che potrebbe guidare un processo costituente fondato sulla sovranità popolare, la difesa della pace e la giustizia sociale. A nostro avviso, questo impegno non richiede una rottura con l’Europa come spazio politico e storico, ma esattamente il contrario: la ricostruzione dell’Europa su nuove fondamenta. È necessario articolare un’Europa confederale capace di superare il disegno tecnocratico e post-nazionale dell’attuale UE. Un’Europa che parta dal riconoscimento dello Stato nazionale come spazio indispensabile per la democrazia e lo integri in un quadro di cooperazione sovranazionale basato sul rispetto reciproco e sull’esistenza di istituzioni comuni. Non si tratta di tornare ai vecchi nazionalismi escludenti, ma piuttosto di partire dal presupposto che non può esserci democrazia senza demos e che solo nel quadro di una comunità politica organizzata, dotata di capacità di deliberazione, decisione e autogoverno, la volontà generale può essere espressa.

Un’Europa confederale richiede di ripensare il continente come una comunità pluralistica e solidale, costruita dal basso, in cui la pace, il diritto internazionale e l’uguaglianza tra gli Stati membri siano principi guida. Non si tratta di disquisizioni teoriche o di formulazioni astratte. Se l’Europa aspira ad avere una propria voce nel contesto internazionale e a cessare di essere un’appendice di Washington, ci sono almeno tre punti critici che devono essere considerati per delineare un percorso alternativo: in primo luogo, ampliare lo spazio politico degli Stati affinché possano gestire le economie nazionali secondo i propri interessi specifici; in secondo luogo, proporre un trattato di amicizia e cooperazione con la Russia che esprima un desiderio di comprensione reciproca e collaborazione strategica, abbandonando la logica dello scontro; e in terzo luogo, impegnarsi per un’integrazione attiva in un mondo multipolare più equilibrato e aperto a una pluralità di modelli politici, economici e culturali. In definitiva, l’Europa deve scegliere se desidera rimanere un attore subordinato, incondizionatamente allineato agli interessi degli Stati Uniti, oppure se è disposta a partecipare alla costruzione di un mondo nuovo e più equilibrato in cui le persone abbiano voce, un ruolo e un riconoscimento.

L’Europa deve prendere posizione, rompere con la sua subordinazione all’atlantismo ed emergere come parte attiva di un mondo in transizione che non ruota più attorno a Washington, tanto meno a Bruxelles. Dobbiamo recuperare, se possibile, lo spirito di Bandung, la conferenza del 1955 che riunì i nuovi paesi afroasiatici indipendenti per proclamare il diritto dei popoli a decidere del proprio destino in un quadro internazionale basato sulla sovranità, la pace e la cooperazione tra pari. Quello storico incontro segnò l’emergere di un soggetto collettivo sulla scena mondiale, l’annuncio di una geopolitica dal basso che rivendicava la dignità dei popoli liberati dal colonialismo. Più di mezzo secolo dopo, l’Europa ha la responsabilità storica di accogliere quell’eredità e definire il proprio posto nel mondo. Tornare a Bandung significa costruire un rapporto diverso con il Sud del mondo; riconoscere come interlocutori i popoli, dall’America Latina all’Africa all’Asia, che chiedono un nuovo ordine internazionale basato su uguaglianza, sostenibilità e giustizia sociale. In breve, partecipare attivamente al processo di trasformazione del mondo, che è il grande compito del nostro tempo.

Tornare a Bandung non è un segno di nostalgia per il passato, bensì un impegno per il futuro.

* Fonte: Publico del 16 giugno 2025

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