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NAZIONE, SOVRANITÀ E IMMIGRAZIONE di Moreno Pasquinelli

«L’immaginazione è più importante della conoscenza. La conoscenza è limitata. L’immaginazione circonda il mondo». [Albert Einstein]

Ringrazio l’amico Ramon Franquesa per le considerazioni critiche che ha riservato al mio breve saggio Il mito della classe operaia [EL VIEJO TOPO, n. 452, settembre 2025]

Debbo dire che la critica, per diverse ragioni, muove da un equivoco e non colpisce il bersaglio.

Ramon mi accusa di sostituire al logoro mito della classe operaia quello della “identità nazionale”, la qual cosa non è per niente esatta.

Ho affermato invece che la nostra situazione è infelice proprio perché:

«non abbiamo un contro-mito da opporre a quello di cui il capitale si serve per giustificare la propria supremazia, anzi la propria poietica eternità. E non si vede all’orizzonte, né questo contro-mito, né un profeta che lo annunci».

Quale sia il mito della araba fenice capitalistica, l’arma ideologica essenziale di quello che chiamiamo CyberCapitalismo è visibile a chiunque lo voglia vedere, è l’idea del progresso prodigioso che l’umanità conoscerà grazie alla TecnoScienza ed alle sue diavolerie. Di contro a questo mito chimerico e transumanistico che affida alla Tecnica ovvero alla sua forma suprema, l’Intelligenza Artificiale, il destino del mondo, non abbiamo un contro-mito, un’idea-forza egemonica da opporre, tuttavia, aggiungevo, non per questo dobbiamo chiuderci in un cenacolo perché:

«l’umanità è sempre in cammino e noi dobbiamo procedere con essa, sapendo anzi che siamo dentro una crisi di civiltà, che il mondo conoscerà nuove scosse telluriche, che dentro questo gorgo siamo condannati a stare, a pensare, ad organizzarci per agire».

Questa è la sfida davvero fondamentale, l’opera a cui dedicare tutte le nostre residue forze intellettuali, morali e politiche che abbiamo. Tutto il resto, francamente, è secondario. Non supereremo la sfida se non faremo in modo definitivo i conti con le antinomie della teoria marxista — ho provato ad indicarle: 20 Tesi su Marx.

*   *   *

Parlando di cose secondarie (che non significa poco importanti) ho segnalato, nell’intervento che Ramon prende di mira, quella che a me pare una peculiare tendenza della attuale fase storica, quella, che Ernesto Laclau chiamava “Momento Populista” e che io ri-qualifico più precisamente come momento plebeo — segnalo en passant che respingo il paradigma post-strutturalista di Laclau e Mouffe per cui nulla avrebbe valore storico-oggettivo e che tutto si ridurrebbe a mero discorso e narrazione. Per la precisione affermo che il compito di fase dei rivoluzionari non consiste (come pare suggerire Ramon) nell’inverosimile transustanziazione di questa paccottiglia plebea in classe sociale, bensì in popolo sovrano— di qui la necessità e la missione principale del Partito Politico di cui c’è bisogno.

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Ramon concede che fare appello “alla classe operaia industriale come avanguardia della lotta per il socialismo nel XXI secolo è fuori della realtà”, e pone al suo posto un generico proletariato multietnico. Segnalo che lungi dall’essere una novità questa idea della supplenza è anzi usurata dal tempo.

In Italia l’operaismo, già a metà degli anni ’70, fallito il tentativo insurrezionale, abbandonò il mito fabbrichista del cosiddetto “operaio massa” e costruì la figura del cosiddetto “operaio sociale”, per sua natura votato a capeggiare la sovversione anticapitalista. Alla base di questa chimera v’era l’assunto che mentre il Capitale smantellava le grandi fabbriche, tutta la società diventava fabbrica, luogo di dispiegato e capillare sfruttamento. Un’indeterminatezza assoluta spacciata come scoperta scientifica — per la cronaca i post-operaisti, verificato che questo “operaio sociale” non dava alcun segno di ribellione, s’inventarono la tesi che il nuovo soggetto rivoluzionario era il “proletariato cognitivo”, i lavoratori dei settori della meccatronica e della cibernetica.

Forse mi sbaglio ma temo che Ramon stia percorrendo lo stesso calvario dell’operaismo italiano, in cima al quale, haimé, c’è solo una Croce. Lo stesso mi sembra l’errore teorico, quello di pensare che non c’è rivoluzione che non sia incarnata in un “soggetto sociale” (ove “soggetto sociale” è uno dei nomi dietro cui si cela la classe proletaria), un ente che per sua genetica natura, ne abbia coscienza o meno, sia destinato ad assolvere una storica e salvifica missione. Ritengo che ci si debba congedare definitivamente da questa mistica del “soggetto sociale”. È illusorio pensare che la società secerna motu proprio, spontaneamente, il soggetto rivoluzionario. Continuare a rovistare in mezzo alla mucillagine sociale per scovare questo soggetto è come dissetarsi con acqua salata, o Aspettare Godot.

Ramon sottolinea, ed è vero, che sociologicamente parlando la classe proletaria è maggioritaria, che anzi ha enormemente allargato le sue fila dato il processo di generale proletarizzazione — ma sarebbe più preciso, data la natura polimorfica ed eteronoma di questo processo parlare di pauperizzazione, che non è la medesima cosa; non può tuttavia non vedere l’altro lato della medaglia, che ad un aumento quantitativo corrisponde una captis deminutio politica maxima.

Soggetto rivoluzionario può essere soltanto una forza cosciente, determinata, e strutturata per conquistare il potere, in altre parole solo un Autonomo Partito Politico che abbia capacità di agglutinare un blocco sociale a vocazione maggioritaria, la quale cosa è appunto possibile solo grazie ad un mito aggregante. Un’utopia lontana dall’utopismo, un sogno che camini sulle gambe del più severo realismo politico.

Concedo a Ramon che egli non fa che raccogliere il principale articolo di fede del cosiddetto “socialismo scientifico”, l’idea che nessuno meglio di Trotsky seppe esprimere, quella del partito-ostetrica la cui funzione è quella di agevolare il parto col quale il socialismo è necessariamente destinato a venire al mondo. Una metafora di grande efficacia ma maledettamente fasulla; un’idea che nella migliore delle ipotesi è la riproposizione dell’entelechia aristotelica per cui, come dal seme crescerà necessariamente la pianta, un ente passa dalla potenza all’atto. Un’idea (altro che materialismo!) di matrice idealistica e storicistica, epistemologicamente parlando ibridata con l’evoluzionismo positivista. La coscienza non sorge per germinazione, non si passa naturalmente dall’in sé al per sé; spontaneamente insegnava Lenin, l’in sé proletario produce al massimo un per sé sindacalistico. Occorre un agente catalizzante esterno affinché un ectoplasma sociale prenda forma e guadagni autocoscienza, occorre il lievito per fare il pane. La storia è cultura non natura.

Ramon insiste molto sulla necessità di un “approccio scientifico”, che il nuovo mito si basi su “concetti sociali scientifici”, che occorre “interpretare scientificamente la realtà”.  Il discorso su cosa sia lo “scientifico” e sulla relazione tra mito e scienza è questione cruciale ma sub judice, oltrepassa le finalità di queste brevi note critiche. Tuttavia è degno di nota segnalare il prodotto che esce fuori dall’inceneritore scientifico di Ramon, il punto morto dove egli è condotto da suo discorso della scientificità:

«Non è adeguato, e non è scientificamente consistente considerare che il soggetto mitico dell’attuale classe lavoratrice possa basarsi sulle tradizioni di carattere nazionale e meno sullo spazio dell’Occidente Collettivo».

Ecco che Ramon ricasca nell’errore di scambiare l’idea-mito con un determinato soggetto sociale, solo che al posto della vecchia classe operaia mette il nuovo proletariato multietnico. Forse sbaglio ma in questa fissazione sul soggetto proletario intravedo, mutatis mutandis, la mistica soteriologica cristiana dei poveri, degli ultimi qui in terra che saranno i primi ad entrare nel paradisiaco al di là.

Metodologicamente il procedimento di Ramon è il più classico dei sillogismi: il proletariato è un mitico soggetto rivoluzionario; il proletariato è oggi multietnico; il proletariato multietnico è l’attuale soggetto mitico. Quanto forte si avverte il fascino, questo si mitico, dell’internazionalismo proletario, oggi trasformatosi in una versione volgare del cosmopolitismo borghese che fu.

Da questo carattere multietnico di quella che chiama “classe proletaria” Ramon conclude che sollevare la questione della sovranità nazionale è escludente, taglierebbe fuori i lavoratori stranieri. Ramon sottolinea che impugnare la questione dell’identità nazionale esclude la possibilità stessa di coinvolgere nella battaglia gli immigrati. Condanna così frettolosamente ogni forma di nazionalismo come la “vecchia strategia della classe dominante”.

Premesso dunque che per il sottoscritto deve intendersi per mito un’idea, giammai un soggetto sociale, non consegno alla difesa della sovranità nazionale alcun carattere magico o miracoloso. Si tratta, assieme ad altri, di uno strumento politico per agire sulle concrete contraddizioni della predatoria globalizzazione liberoscambista la quale, più procede più tende a smantellare le sovranità statuali, le cui conseguenze ricadono sulle spalle del popolo, anzitutto dei suoi strati proletari, immigrati in primis. Analisi concreta della situazione concreta: non l’aristocrazia borghese che anela al melting pot neo-tribalistico ma proprio la nuova plebe proletaria ha tutto l’interesse a rifondare le sovranità statuali nazionali, agendo quindi la questione della sovranità popolare e democratica. Non c’è alcuna ragione per cui il lavoratore immigrato non debba prendere parte, assieme ai suoi compagni di classe autoctoni, ad un movimento popolare per emanciparsi e sganciarsi dalla globalizzazione e ottenere democrazia e indipendenza nazionale. È anzi in questa lotta che i lavoratori immigrati possono diventare parte effettiva di un Popolo soggetto politico sovrano, cessando di essere merce, quota del captale variabile.

Lasciamo alla sinistra transgenica, woke e intersezionalista l’opinione demenziale che ogni forma di patriottismo equivalga a nazionalismo reazionario e razzista. C’è invece il patriottismo democratico, inclusivo e socialista che è l’arma di cui disponiamo per contrastare l’ondata di nazionalismo reazionario e suprematista che sta dilagando nell’Occidente Collettivo e oltre, ondata che la sinistra transgenica non solo non può fermare ma che alimenta col suo astratto moralismo immigrazionista funzionale alle necessità del capitalismo neo-schiavistico.

Per concludere v’è il discorso sull’identità. Segnalo a Ramon che noi, come spieghiamo nelle nostre Tesi ci consideriamo umanisti rivoluzionari. Queste Tesi così si concludono:

«Un compiuto universalismo, un’armonica associazione mondiale di civiltà, popoli e nazioni, è certo una possibilità. Se non è giusto escludere la speranza di un compiuto affratellamento dell’umanità, sarebbe sbagliato non vederne gli ostacoli che a tutt’oggi appaiono insormontabili. Tra i due poli ideali della totale fusione in un’unica civiltà politica globale e del nazionalismo xenofobo, esiste la dimensione della necessità, che consente multiformi pratiche e modalità di coesistenza e collaborazione tra popoli e nazioni sovrane. Tra la pace perpetua e la guerra permanente c’è lo spazio politico d’azione della Nuova Repubblica Italiana, popolare e sovrana. La sua prima titanica sfida esistenziale è quella di liberarsi definitivamente dalle catene dell’impero americano, dell’Unione europea e della NATO. Senza questa piena autodeterminazione nazionale non ci sarà né Nuova Repubblica né Democrazia Sociale. Solo dopo, posto che nessuna autarchia è per l’Italia praticabile, si decideranno le forme della cooperazione e del reciproco soccorso con altre nazioni sorelle, e le forme di reciproco e vantaggioso scambio con quelle amiche, le relazioni con quelle nemiche».

Un pensiero su “NAZIONE, SOVRANITÀ E IMMIGRAZIONE di Moreno Pasquinelli”

  1. Nello dice:

    Discorso giusto, ma troppo complesso per le menti ideologizzate e semplificatrici dei sinistrati. Il mio gatto ci arriverebbe, loro no, compreso il signor Franquesa

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