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VERSO UN CROLLO ECONOMICO GENERALE? di M. Pasquinelli

Può il fallimento di due medie banche americane (Silicon Valley Bank  e Signature Bank) innescare una cascata di fallimenti bancari dentro e fuori gli USA? La maggioranza degli analisti, confortati dopo il tonfo di ieri dei titoli bancari dalla ripresa odierna (martedì 14 marzo), risponde che no, che il peggio sarebbe già passato. Lo sostengono non tanto grazie al salvataggio attuato in tutta fretta dalle autorità politiche e monetarie nordamericane, ma perché, nell’Olimpo della iper-finanza, esso annuncerebbe la fine delle politiche monetarie restrittive della Fed e della Bce — è noto da tempo quanto decisiva sia diventata la droga monetaria per sorreggere, soprattutto dopo il collasso del 2008-09, un’economia iper-finanziarizzata.

Noi invece riteniamo che questo ottimismo sia ingiustificato. Certo, nessuno può stabilire, nella sfera sociale, quando la quantità si trasformerà in qualità, ovvero quando una crisi circoscritta precipita in un vero e proprio crollo globale. Questa capacità predittiva è infatti negata anche alla più potente “intelligenza” artificiale, malgrado la sua formidabile capacità di elaborare caterve di dati. Quello che si può e si deve invece decidere è stabilire la tendenza generale, se la curva macroeconomica della “crescita” tende ad invertirsi e a precipitare verso la recessione/stagnazione  globale — la quale, sia detto di passata, pur colpendo sincronicamente i diversi paesi, ha sempre effetti asimmetrici.

Una cosa è certa: ogni grande crisi economica generale, tanto più in un ambiente neoliberista e bancocratico, è anticipata e annunciata da fallimenti bancari. Che il barometro annunci burrasca in arrivo, è mostrato dal fatto che i due fallimenti negli Stati Uniti non sono un fulmine a ciel sereno. Vale ricordare almeno tre eventi topici accaduti nel 2022: il dissesto del gigante bancario Credit Suisse; la crisi di debito pubblico britannica (che ha portato alla dimissioni di Boris Johnson); il fallimento, tra gli scandali, di sei tra le maggiori società di critpovalute.

La fuga dai titoli bancari può avere due spiegazioni principali. La prima, “minimalista” e “tranquillizzante” dice che si tratta soltanto di un segnale che gli squali della finanzia speculativa lanciano ai governi e alle banche centrali affinché cessino la stretta sulla liquidità (aumento del costo del denaro) e si decidano a politiche monetarie “accomodanti”. La seconda, “massimalista” e “preoccupante” dice: la febbre che colpisce il mondo della finanza è l’epifenomeno che nasconde lo stato di malattia grave dell’economia capitalistica, che la febbre annuncia quindi il cigno nero, una profonda recessione alle porte, se non globale, certamente dell’Occidente [Vito Lops, Il Sole 24 Ore del 13 marzo]. Del resto le due spiegazioni non sono oppositive bensì complementari, possono cioè essere entrambi vere.

La corrente dei “minimalisti” è ovviamente di gran lunga la prevalente tra gli economisti e gli ideologi neoliberisti (anzitutto europei) ovvero i soli che hanno voce in capitolo, quelli che primeggiano sui media euroatlantisti. Essi se la cavano indicando quattro cause fondamentali dell’attuale crisi: 1) “Il repentino aumento dei tassi d’interesse dopo quasi 15 anni di denaro a costo quasi zero” (Massimo Gaggi), quindi le politiche monetarie restrittive di FED e BCE; 2) gli squilibri nel portafoglio finanziario delle banche fallite (troppe obbligazioni a lunga scadenza in pancia) per cui la loro crisi sarebbe “di liquidità non di insolvenza” (Francesco Giavazzi); 3) la rischiosità intrinseca del modello di business (venture capital) di banche come la Silicon Valley. A queste tre cause tecniche se ne aggiungerebbe una squisitamente politica: “ La crisi sarebbe un effetto della deregulation USA” (Patuanelli), quindi tutta colpa di Donald Trump (Federico Fubini).

Ecco quindi i “minimalisti” nostrani assicurarci che noi europei possiamo dormire sonni tranquilli. Grazie alle regole di Basilea 3 e alla famigerata Unione Bancaria, in virtù dell’attenta vigilanza della BCE, le nostre banche, avendo più di 3mila miliardi di liquidità, assorbiranno facilmente “lo scossone d’oltreatlantico”. “In Italia e in Europa il sistema è stabile” (Giancarlo Giorgetti).

Non ci sono tuttavia solo gli economisti che giustificano il loro ottimismo presumendo di compiere analisi “oggettive”, “imparziali”, “scientifiche” — posto che essi considerano “scientifiche” le analisi che “fanno paralare” i dati empirici. Ci sono anche gli ideologi, l’aristocrazia degli intellettuali combattenti, gli addetti alla difesa della fede (nel capitalismo). Ogni paese ha il suo Sant’uffizio, preposto ad aggiornare la narrazione nonché ad emettere sentenze di scomunica per eresia verso chiunque ne contesti i precetti dogmatici. Ne prendiamo due, tra i più blasonati.

Chi non conosce Federico Rampini? Scrive editoriali e libri a gogò, trova il modo di saltare da una tv all’altra per eseguire sempre lo stesso spartito a tre note: il capitalismo è senza alternative, il capitalismo è bello, il capitalismo è imbattibile. Con stridente squillo di trombetta il nostro, affetto da russofobia acutissima, scriveva sul Corriere della Sera di martedì 7 marzo un editoriale che vale la pena citare: «L’apocalisse della crisi economica era un’allucinazione … Le profezie sulla recessione in arrivo erano tutte sbagliate… Se i danni paventati non si sono verificati, lo dobbiamo a due ingredienti del modello occidentale: l’economia di mercato e la democrazia».

Le ultime parole famose: il 10 marzo, tre giorni dopo, falliva la Silicon Valley Bank producendo il panico nei mercati mondiali.

Un’altra blasonata testa d’uovo risponde al nome del bocconiano turboliberista Francesco Giavazzi. Davanti al fallimento di una banca strettamente legata al settore digitale e ciberbentico, con sicumera, esclude [editoriale del Corriere della Sera del 14 marzo] che esso sia il segnale della fine del dominio incontrastato dell’imperialismo High Thech a stelle e strisce — la regola aurea del capitalismo è infatti “piatto ricco mi ci ficco”, evidentemente nella celeberrima Silicon Valley il piatto piange quindi i capitali fuggono. In ossequio al discorso della distruzione creativa, il nostro pensa di cavarsela rifilando ai poveri lettori il sacro dogma liberista: «La volatilità è una caratteristica dei mercati finanziari … tentare di cancellarne la volatilità significherebbe porsi l’obbiettivo di azzerare il rischio che è un aspetto essenziale dell’innovazione»; per cui Dio ce ne scampi dall’eccesso di regolamentazione pubblica poiché la «volatilità dei mercati finanziari” sarebbe il motore della…innovazione». Quindi la disarmante supercazzola ideologica finale: «Molti vaccini mRNA, che ci hanno salvato dall’epidemia del Covid, sono stati inventati nelle start-up di Boston, non in Cina, dove vaccini efficaci non esistono».

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Non vogliamo qui soffermarci sugli specifici fattori sistemici dell’attuale crisi, fattori che, figli della teoria marginalista, gli economisti neoliberisti non possono e non vogliono vedere. Per capire e individuare le grandi crisi non solo sarebbe necessario riscoprire gli insegnamenti degli economisti classici (tra cui Marx) o quantomeno Keynes. Sarebbe doveroso andare oltre, cambiare paradigma, sfuggendo alle semplificazioni economicistiche e riduzionisti fondate sulla divisione piramidale e gerarchica tra  base economica e sovrastruttura statuale e politico-ideologica. Il sistema capitalistico, pur distinguendosi dai sistemi che l’hanno preceduto per la centralità della sfera economica, è un complesso organismo sociale nel quale tutte le diverse sfere sono tra loro correlate da una fitta trama di connessioni per cui, mentre il tutto è superiore ad ogni sua parte, la potenza e la salute del tutto non solo dipende da quelle delle sue parti, dipende dalla loro consonanza, quindi dalla funzionalità delle reti e dei canali di trasmissione delle molteplici sollecitazioni sociali. La forza e la vita stessa del capitalismo dipendono dalla abilità delle classi dominanti di governare la complicata macchina che comandano, dalla intelligenza con cui fan credere alle classi subalterne di agire in nome del tutto e non della (loro) parte, quindi dalla capacità di guidare e assecondare gli incessanti mutamenti dell’organismo sociale.

Certo il crack bancario californiano ha cause peculiari, ma te lo spieghi solo se tieni conto del contesto generale, tenendo conto dell’Operazione Covid-19, del tramonto dell’ordine monopolare a stelle e strisce, dell’avanzata economica della Cina, del contrattacco russo in Ucraina, delle insormontabili difficoltà dell’Unione europea, del declino dell’egemonia del pensiero neoliberista, della straripante avanzata tecnologica, della trasformazione delle democrazie liberali in tecnocrazie. In ultima istanza non ti spieghi più niente, a questo punto della storia, se non nel quadro del Grande Reset e della epocale svolta verso il cybercapitalismo.




GEOPOLITICA DEL CORONA VIRUS di W.Dierckxsens, W.Formento

I Democratico-Globalisti contro Trump

Nel nuovo millennio c’è stato un costante aumento della partecipazione degli Stati Uniti, e anche dell’Unione Europea, agli Investimenti Diretti Esteri (IDE) in Cina a spese di Hong Kong, Taiwan e Giappone. Microsoft è entrata nel mercato cinese nel 1992 e poi sono entrati altri giganti, soprattutto se non esclusivamente, in società di tecnologia dell’informazione e della comunicazione come Facebook, Amazon, Apple, Alphabet, Netflix, Google (the FANG), Intel, Oracle, IBM, Quécomm, PayPal, Cisco, tra gli altri. Nel periodo 1990/2017, le società globali di origine americana hanno investito oltre 250 miliardi di dollari in Cina, in particolare nelle tecnologie dell’informazione e della comunicazione.

Insieme alle transnazionali globali, si sviluppano anche i giganteschi conglomerati nazionali cinesi (che noi chiamiamo Pekin). Sono anni che la Cina compete in quasi tutti i settori ad alta tecnologia con aziende globali in particolare Nord Americane.

All’inizio di questo millennio, gli Stati Uniti hanno esportato tre volte più della Cina in prodotti tecnologici verso i mercati mondiali. Nel corso del tempo, gli Stati Uniti sono diventati invece un grande importatore di prodotti tecnologici fabbricati in Cina che precedentemente producevano sul proprio territorio, generando un saldo commerciale sempre più negativo.

Nell’attuale decennio, gli americani mantengono un’ampia leadership solo nei settori dell’industria automobilistica e aeronautica. Dal 2010, Pechino ha assunto la guida delle esportazioni, superando le transnazionali “nordamericane”  in termini di informazione e comunicazione. Allo stesso modo, ha appena abbinato le vendite di strumentazione scientifica ed è vicino a quello delle vendite di impianti di generazione di energia. Oggi Pechino è uno dei maggiori produttori al mondo di prodotti ad alta tecnologia come robot industriali, chip e macchine utensili. I titani americani vedono la concorrenza con i giganti cinesi sempre più problematica.

Inesorabilmente, anno dopo anno dall’inizio del millennio, la partecipazione degli Stati Uniti all’economia mondiale si è ridotta mentre quella della Cina è aumentata. La Cina è già il centro chiave dell’economia globale e il principale partner commerciale di quasi 130 nazioni. L’unico concorrente economico negli Stati Uniti è impegnato a reintegrare gran parte del mondo in una versione completamente interconnessa del 21° secolo di un sistema commerciale che fu al suo apice per oltre un millennio: le rotte della seta eurasiatiche. La Cina supera di gran lunga gli Stati Uniti nei brevetti e produce, rispetto agli Stati Uniti, almeno 8 volte più laureati all’anno in Scienze, Tecnologia, Ingegneria e Matematica (STEM) all’anno, guadagnando così lo status di principale contribuente alla Scienza globale.

Dopo la crisi globale del 2007-08, c’è stata un’accelerazione dei volumi dell’IDE (Investimenti Diretti Esteri ) dalla Cina al mondo che conferma le decisioni strategiche di internazionalizzazione delle società cinesi, l’aumento degli investimenti cinesi nell’economia di altri paesi. Quanto sopra ha molto a che fare con lo sviluppo di un sistema di istituzioni finanziarie diverso da quello di Bretton Woods e dalla cosiddetta Nuove Rotte della Seta (NRS).

Questa iniziativa delle NRS è associata alle politiche di investimento regionali di “Andare all’Ovest”, nel territorio cinese stesso, e si è evoluta per includere accordi e progetti di connettività per la costruzione di infrastrutture con Europa, Asia, Africa e America Latina, principalmente in energia, cibo, minerali e trasporti commerciali. Le NRS comprendono accordi con organizzazioni già costruire tra la Cina e altri paesi verso un mondo multipolare. Innanzitutto, ci sarebbe lo slancio per una maggiore internazionalizzazione dello yuan come valuta per le transazioni di capitale.

Nel quadro geopolitico di oggi, abbiamo che le forze del capitale finanziario globalizzato cercano di imporre uno Stato Globale con la sua valuta globale e in particolare una criptovaluta. Lo Stato Globale si pone sopra le nazioni e l’Organizzazione delle Nazioni Unite – ONU -, persino sopra gli Stati Uniti. Con la sua propria forza militare basata sulla NATO, ma nutrita da forze (spesso mercenarie) di tutte le nazioni e popoli, la qual cosa è già realtà.

I globalisti vogliono un altro sistema monetario internazionale (economic reset), così pure lo richiede il multipolarismo Cina-Russia-India-Sudafrica-Sud America. La Cina è il principale creditore degli Stati Uniti a causa del suo enorme surplus commerciale che ha con questa nazione. Dal 2013, la Cina ha smesso di accumulare titoli del Tesoro USA e ha persino diminuito la sua proprietà e li ha venduti in dollari per acquistare oro.

Più Trump rimane nella presidenza, più opzioni la Cina multipolare deve avanzare con il suo progetto multipolare. Trump scommette su un altro mandato presidenziale e, se ci riesce, può aiutare a fermare di nuovo le forze globaliste nel loro delirio di oligarchico-bellicista e il mondo potrebbe essere di nuovo al riparo da una conflagrazione globale. Il fallimento dei democratico-globalisti nell’impeachment (iniziativa di destituzione) contro Trump li ha lasciati in uno stato di disperazione e, ancor più, la candidatura sempre più probabile alla presidenza di Sanders da parte dei democratici li lascia senza un candidato del Partito Democratico, e il probabile trionfo di Trump che si vedrà nel novembre 2020, che non solo ha superato ogni trappola e colpo di stato da quando è entrato in carica nel 2017, è anche riuscito a rimandare in tempo l’inevitabile crisi economica che avrebbe avuto effetti negativi sulla sua campagna elettorale.

Il Nuovo Corona Virus come veicolo geopolitico

Il nuovo Coronavirus, ufficialmente chiamato “COVID-19, ha già avuto un grande impatto globale. In gran parte grazie ai grandi media del capitale finanziario globalista (CNN, BBC, Deutsche Welle, Washington Post, New York Times, AFP, AP, ecc.).

Apple è stata la causa del panico iniziale quando ha annunciato che si aspettava un calo dei suoi profitti a causa della chiusura della produzione in Cina legata al coronavirus. La Cina rappresenta il 30% della produzione mondiale e si prevedeva il fallimento di molte società cinesi a meno di un salvataggio da parte del governo (che senza dubbio ci sarà), ciò che  avrebbe gravi conseguenze sull’economia cinese stessa e non solo. In un’era globalizzata, gli effetti si verificano sulla catena del valore oltre i confini cinesi, motivo per cui è stata stimata una diminuzione del commercio mondiale di 600 miliardi di dollari.

L’obiettivo è chiaro, è quello di provocare angoscia tra gli investitori nelle borse del mondo con l’obiettivo di generare una grande crisi globale, permettendo il collasso di bolle private, commerciali e aziendali (abitazioni, automobili, ecc.). Questa mega-crisi era già nell’aria da quando Trump è stato eletto nel 2017, ma i globalisti non sono riusciti, fino ad ora, a provocare il suo scoppio ed a cacciare Trump dalla Casa Bianca. Il corona virus fornisce una nuova opportunità di provocare la “crisi” nel mezzo della campagna elettorale, che potrebbe essere “strumentalizzata” per evitare la rielezione di Trump.

Sono apparse molte notizie e articoli sull’impatto mortale della pandemia a scala globale, apparentemente per generare una situazione di panico mondiale. L’intero complesso dei media globalisti (CNN; BBC; Deutsche Welle, ecc.) ha ripetuto fino alla sfinimento che Pechino stava “mentendo” e perdendo il controllo dell’epidemia e sulla sua economia. Con “razzismo” hanno persino accusato la stessa  Via della Seta di essere una pandemia e che era “impossibile mettere la Cina in quarantena”. Quando la Cina sembrava ottenere il controllo della epidemia sono apparsi come “usciti dall’inferno” sempre più paesi al di fuori della Cina, prima in Estremo Oriente: Giappone e Corea del Sud e poi, seguendo la Via della Seta,  l’Iran  e l’Italia. L’OMS ha riferito il 25 febbraio che circa 77.000 persone erano state colpite dal virus con 2.600 morti, mentre Pechino lo aveva già sotto controllo.

Per renderlo ancora più scioccante e creare panico in tutto il mondo, hanno iniziato a inventare casi sporadici in tutto il mondo, come se avessimo già avuto una pandemia in tutto il mondo. Brasile, Grecia, Pakistan hanno confermato i loro primi casi, Kuwait, Iraq, Bahrein e Libano confermano casi possibili, quindi la Finlandia e la Francia addirittura con un secondo morto. È stato riferito che il Regno Unito prevede di testare in modo casuale la popolazione con sintomi simili al coronavirus.

Negli stessi Stati Uniti, dove apparentemente e curiosamente, a questo punto non sono stati segnalati casi oltre le persone che erano in crociera, i democratici stanno politicizzando il virus chiedendo a Trump di stanziare 8,5 miliardi di dollari per evitare la pandemia nel paese. Il presidente invece ritiene che siano sufficienti 2,5 miliardi di dollari.

È impressionante tutta la pubblicità che riceve la “pandemia”, alquanto grottesco quando sappiamo che secondo i dati dell’OMS muoiono fino a 650.000 persone all’anno (54.000 al mese) a causa [o come concausa, NdR] di malattie respiratorie legate all’influenza stagionale. Apparentemente nulla accade nel mondo per le piattaforme di comunicazione globale quando ciò accade anno dopo anno. Quanto sopra non lascia dubbi sul fatto che non si tratti di un’epidemia, ma di un’intera campagna di comunicazione e politica che, a nostro avviso, ha l’obiettivo di accelerare lo scoppio di una crisi finanziaria globale nel mondo, fenomeno che si stava già sviluppando dalla fine del 2018.

Le grandi piattaforme di comunicazione ci informano secondo per secondo sul cattivo umore, il nervosismo e  gli alti e bassi nelle borse valori del mondo e gli investitori premono i media per creare il panico. Tuttavia, i movimenti nel mercato azionario non sono mai lineari e se confrontiamo l’attuale calo del mercato azionario, non ha nulla di diverso dai movimenti osservati nell’anno 2019.

Non potevano cavarsela? Le quattro principali società tecnologiche globali (Facebook, Apple, Amazon e Microsoft) rappresentano l’11% del mercato azionario e le azioni delle società FANG sono diminuite in totale di 350 miliardi di dollari in 6 giorni e non sono riuscite a ridurre Criticamente le proprie azioni al momento della vendita. Si parla di percentuali storiche quando in realtà non superano il 10%. Secondo l’Almanacco del Wall Street Journal del 1999, ci furono il 19 ottobre 1987 ribassi del 22% in un giorno. Questa situazione richiede una spiegazione.

Graham Summers analizza e osserva che ci sono 5 investitori MAGA (Make America Great Again) [in opposizione all’altro MAGA (Microsoft, Amazon, Google e Apple), che rappresenta il blocco avversario di quello che fa riferimento a Trump; NdR] che acquistano tali azioni a tutti i costi sapendo che faranno fortuna durante il Secondo mandato di Trump. Così sono riusciti finora ad evitare che i quattro globalisti (Microsoft, Apple Amazon e Facebook) riescano a manipolare il mercato azionario a piacimento. Per il resto, Trump farà l’impossibile affinché la Federal Reserve (FED) intervenga in modo massiccio in modo che il mercato azionario non collassi durante la campagna elettorale. È in arrivo un nuovo calo del tasso di interesse.

Il mondo contro i globalisti: una battaglia per un’altra civiltà

Il capitale finanziario globalista (spesso chiamato “I mercati”) ha un solo obiettivo: causare la massima sofferenza con la crisi economica per arrivare in seguito con la grande soluzione, creare un nuovo sistema monetario sopra le nazioni – sovranazionale – e persino Sopra gli Stati Uniti. Inoltre, consegneranno il vaccino solo per risolvere il corona virus quando ci si troverà nel momento peggiore del panico, per apparire di nuovo come salvatori di una guerra biologica di cui fanno parte e non cessano di avere la responsabilità.

Ci chiediamo cosa potrebbero fare le banche centrali nel mondo se la crisi si approfondisse. Sappiamo che le banche centrali hanno già tassi di interesse pari a zero per storia e persino negativi, pertanto non avrebbero più maggiori margini in una grave crisi economica. In Cina (Hong Kong) hanno già iniziato con la cosiddetta “Helicopter Money” (soldi dagli elicotteri), dando soldi alla popolazione in modo che possa continuare a fare acquisti prima della “chiusura temporanea” dei loro luoghi di lavoro. Le banche della Cina continentale sono state incaricate di prestare denaro alle piccole imprese e di sostenerle per prevenire il fallimento.

E ciò che la Cina può fare con la sua pianificazione centrale ispirerà anche i governi occidentali a farlo. In Italia, il governo ha già proposto la riduzione delle imposte davanti al calo delle entrate. Negli Stati Uniti sarà considerata come una delle prime misure, la condanna del debito studentesco. Potremmo persino raggiungere il “momento Draghi”: che le banche centrali acquistano, in assenza di altri strumenti, anche le azioni di grandi aziende con problemi di pagamento per evitare un crollo completo e dare fiducia all’economia. In lavori precedenti abbiamo già visto che l’economia capitalista occidentale non è più in grado di riconnettere gli investimenti con l’economia reale o produttiva, a meno che non “rinunci” al profitto. Ciò che inizia come lavoro dei “vigili del fuoco in elicottero” diventa quindi politico. Non stiamo arrivando con esso all’inizio di un’economia pianificata, che non è più regolata dalle leggi di mercato?

Il fatto è che la leadership di Pechino ha già dovuto affrontare gravi guerre biologiche: un’epidemia di influenza suina, poi un’epidemia di influenza aviaria e ora il coronavirus, che ha praticamente riguardato metà della Cina.

I media mainstream riferiscono che l’economia è paralizzata ma non capiscono perché continui l’inquinamento atmosferico causato dalle emissioni di carbonio. Apparentemente c’è una contraddizione nelle informazioni che non sono divulgate. Dal punto di vista dell’intelligence cinese, l’attuale cocktail tossico non può essere semplicemente attribuito a una serie casuale di coincidenze. Pechino ha serie ragioni per collegare questa straordinaria catena di eventi come parte di un attacco coordinato di una guerra biologica ad ampio spettro contro la Cina.

Il Dr. Francis Boyle, professore di diritto internazionale all’Università dell’Illinois e autore, tra gli altri, di Biowarfare and Terrorism, è l’uomo che ha redatto l’Atto sulle armi biologiche anti-terrorismo degli Stati Uniti del 1989. Lo stesso Dr. Boyle afferma: “Tutti questi laboratori BSL-4 negli Stati Uniti, in Europa, Russia, Cina e Israele sono lì per investigare, sviluppare e testare agenti di guerra biologica”.

La Harvard University è uno dei principali attori di questo scandalo. Nel loro lavoro congiunto con ONG e laboratori cinesi hanno raccolto campioni di DNA da centinaia di migliaia di cinesi e li hanno portati negli Stati Uniti per continuare a sperimentarli. Da lì sono arrivati diversi virus corona, brevettati almeno uno da Microsoft Bill Gates. L’attuale virus della corona colpisce soprattutto le persone con le peculiarità del DNA della popolazione cinese.

È difficile credere che il virus sia un prodotto propriamente cinese. Questo potere distruttivo è nelle mani di pochi e la rivelazione pubblica che stiamo affrontando una guerra biologica pianificata, ci porta a interrogarci sulla probabile reazione, che sarà di indignazione diffusa e azione collettiva per fermare questo assalto all’umanità.

Saranno le più grandi società globaliste come Microsoft, Apple, Facebook e Amazon, con le loro grandi piattaforme di comunicazione globale, che entrano nella valutazione universale come il grande pericolo per l’umanità, dove sempre meno persone si fidano dell’opinione di questi media . Potrebbe essere giunto il momento, se non per nazionalizzarli, per subordinarli a enti pubblici che assicurino il bene dell’umanità.

In altre parole, siamo di fronte a un punto cruciale della storia: o i globalisti avranno la meglio, impongono i loro interessi e le loro attività e, quindi, tutta l’umanità soccombe. O si apre un nuovo percorso verso un’umanità che prende in mano il suo destino, risultante da un Dialogo di Civilizzazioni.

28 febbraio 2020

* Fonte: nuevaradio.org
** Traduzione a cura di SOLLEVAZIONE




LE DIVERGENZE TRA IL COMPAGNO BAGNAI E NOI di Moreno Pasquinelli

23 maggio 2013.

Ci giunge notizia che Alberto Bagnai (nella foto) si è finalmente deciso a scendere in campo, che sta per lanciare un manifesto, allo scopo di aggregare energie nuove per, evidentemente, dare vita ad un movimento politico per l’uscita dell’Italia dall’euro. E’ un’ottima notizia. Ma dire no all’euro non è sufficiente. Dall’euro si può uscire in tanti modi e addirittura con opposte finalità. Ci sono quindi aspetti teorici e politici che la questione dell’uscita tira in ballo. Di questo vogliamo parlare.

«La teoria economica dice questo: in un’area valutaria in cui non c’è mobilità, non ci sono trasferimenti e per di più avviene uno shock, si ha un collasso. L’aspetto criminale dei fondatori dell’Euro è che tutto questo lo sapevano, e non solo non han fatto nulla, ma anzi l’hanno fatto apposta: la crisi dell’Euro di oggi era inevitabile». [1]

Questa sentenza senza appello non l’ha pronunciata Alberto Bagnai, bensì quel liberista incallito di Luigi Zingales. Seppur tradendo una certa falsa modestia Bagnai ci dice infatti:

«Non per fare il “precisino”, ma vorrei chiarire subito che quelle che in Italia sono indicate come le “mie” tesi sull’euro in realtà di mio hanno ben poco. Ci tengo sia per onestà intellettuale (non sarebbe bello attribuirsi idee altrui), sia per far capire quanto sia indietro il dibattito in Italia (dove tesi comunemente accettate all’estero ancora sembrano rivoluzionarie)». [2]

Noi non ci occuperemo tuttavia dei difetti di Bagnai ma se c’è una teoria economica che soggiace alle sue posizioni e, se c’è, di quale essa sia.

I followers di Bagnai cadranno dalle nuvole: “Di quale teoria economica state parlando? Alberto snocciola dati e fatti così come si presentano, si limita ad interpretarli, di teorie sistemiche non c’è bisogno”.

I “dati”, i “fatti”. Non dovrebbe essere necessario scomodare Kant per capire che la nostra conoscenza non viene dal mero riflettere fatti empirici nella nostra mente, che essa è invece possibile perché la nostra ragione li afferra e li ordina necessariamente in base a criteri e forme a priori. Quindi può interpretarli. Siccome stiamo parlando di fenomeni sociali, e dato che la società è composta di classi e segnata da conflitti, ogni giudizio su di essi, per quanto pretenda di essere “oggettivo”, contiene implicita una concezione “soggettiva”. Nessuna interpretazione è innocente.

A. Smith

Immaginiamo l’obiezione dei seguaci: “ammesso che sia così, se Bagnai ha tirato conclusioni giuste sull’euro e il suo fatale destino, la sua teoria economica è evidentemente corretta”. Prima contro-obiezione: se anche Zingales, un ultra-liberista seguace di Milton Friedman e grande estimatore del thatcherismo, quindi apparentemente molto distante dalle concezioni di Bagnai, predica l’insostenibilità di una moneta unica per più paesi che non sia affiancata da comuni politiche fiscali, di bilancio e sociali, rivela appunto che si può trarre un medesimo giudizio di fatto, pur avendo differenti giudizi di valore. Seconda contro-obiezione: il fatto che per secoli i marinai abbiano solcato i mari e tracciato con estrema precisione le loro rotte pur basandosi sull’idea che la terra fosse il centro dell’universo non rende evidentemente giusta la teoria geocentrica.

Potete scavare in lungo e in largo nella copiosa produzione di Bagnai, a cominciare da “Il tramonto dell’euro”, per quanto possa sembrarvi paradossale non troverete mai il concetto di “crisi del sistema capitalistico”. Il fatto che ciò lo accomuni allo schieramento bipolare degli economisti mainstream divisi, così si dice, tra ortodossi ed eterodossi, non rende meno grave questa spaventosa deficienza. Una prova lampante che tutti costoro, liberisti e pseudo-keynesiani, pur accapigliandosi, si basano sul medesimo paradigma, la cui genetica caratteristica è quella di dare per scontato che quello capitalistico non è un sistema storicamente determinato, con contraddizioni sue proprie, bensì destinato ad essere eterno. Tutt’al più esso conoscerebbe solo “squilibri”, quindi essi si dividono solo sulle terapie: su come detti squilibri necessariamente momentanei debbano essere superati.

Conosciamo l’antifona: “ariecco i soliti marxisti tetragoni!”. Voilà il sintomo infallibile della momentanea vittoria del cosiddetto “pensiero unico”, la medaglia di cui neoliberismo e neo-keynesismo sono le due facce. Una tombale amnesia sembra essere calata sulla teoria economica, lo stigma della pervasività delle teorie dei seguaci contemporanei dei neoclassici o marginalisti che seppellirono brutalmente come “metafisiche” non solo le riflessioni di Marx, ma pure quelle di economisti come Smith, di Ricardo, di Sismondi, di Malthus, di J.S. Mill, di Schumpeter, di Marshall, di Galbraith, che pur essendo ognuno in qualche modo liberisti, almeno indagavano le contraddizioni e si chiedevano quale fosse il destino del sistema capitalistico.

Tutti questi grandi economisti sono stati “grandi” appunto perché non si sono limitati ad osservare i fenomeni, essi hanno cercato di svelare le loro intime connessioni, di scoprire le leggi a cui una data formazione economico-sociale ubbidisce (non fermandosi alla banalità che i prezzi soggiacciono al gioco della domanda e all’offerta), senza sfuggire alla questione di quale sarebbe potuto esserne l’approdo. Pur avendo svelato cause anche molto diverse fra loro, malgrado si siano divisi sul dopo, tutti sono giunti alla medesima conclusione: il capitalismo sarebbe perito sotto il peso delle sue contraddizioni intrinseche.

D. Ricardo

Tutto questo ricchissimo patrimonio teorico e scientifico sembra andato perduto, seppellito dalla folta schiera di economisti tutti indaffarati nel tentativo disperato di dare un senso al terrificante caos in cui si dimena il capitalismo-casinò. Sono così nate le più diaboliche discipline, le più disparate metodologie, i più funambolici modelli: finanza frattale, econometria, curve di differenza, moltiplicatori monetari, funzioni translogaritmiche. Chi più ne ha più ne metta.

Anche molti presunti keynesiani fanno appunto parte di questa schiera di insabbiatori. Come se, per meritarsi la qualifica di keynesiano fosse sufficiente ripetere come un mantra che occorre stimolare la domanda aggregata durante le recessioni incrementando la spesa pubblica, porre riparo agli squilibri delle partite correnti, ergo disporre di sovranità monetaria.

Si converrà che per spacciarsi tali occorre accettare, assieme a certe premesse dottrinali di keynes —la critica alla teoria smithiana della “mano invisibile” per cui il mercato si autoregola da solo; quindi il rifiuto della legge di Say, oro colato dei neo-classici; per cui l’offerta aggregata crea la propria domanda, la critica alla concezione marginalista del capitale— anche la sua visione generale per cui, dato che il capitalismo tende per sua natura allo squilibrio (o sovrapproduzione) la funzione della politica economica sarebbe quella di accompagnarlo verso la sua inesorabile fine a favore di un ordine sociale più razionale. [3]

Maledetta economia teorica! Il guaio è che senza una teoria generale non si va lontano, e senza questa non possiamo spiegarci la malattia congenita che affligge il sistema capitalistico, quindi non avremo alcuna terapia degna di questo nome. Per cui a noi va bene anche chiamarli tutti quanti “neo-keynesiani”, compresi i Krugman, gli Stiglitz e i Roubini, ma nel senso di “mezzi-keynesiani”. [4]

Sismondi

Non è per caso che costoro si guardano bene dallo spiegarci come mai il cosiddetto “periodo d’oro del capitalismo”, che va dalla fine della seconda guerra mondiale alla metà degli anni ’70, che si è svolto appunto all’insegna del keynesismo, sia crollato e abbia lasciato il posto a quello che chiamiamo (in attesa di una definizione più stringente e adeguata) capitalismo-casinò, convenzionalmente neoliberismo.

Bagnai per primo evita di porsi certe “scabrose” domande —salvo prendere sdegnato le distanze dalle tesi “complottiste” come quella dei seguaci della Modern Money Theory, che pur ricorrendo alla conspiracy delle sette dominanti, almeno una risposta cercano di darsela.

La tesi di Bagnai è alquanto semplice (ciò che non rende inutile leggersi il suo ponderoso Il tramonto dell’euro). Proviamo a ricapitolare la concezione generale di Bagnai: (1) la crisi non chiama in causa la struttura del sistema capitalistico, essa trae origine da alcuni “squilibri”; (2) dipende dal fatto che i debiti privati sono diventati pubblici; (3) se è anzitutto crisi dell’eurozona, ciò dipende dallo squilibrio delle partite correnti e delle bilance commerciali; (4) l’euro è causa essenziale poiché, che con le parità fisse, impedisce alle leggi di mercato di farsi valere anche nella sfera valutaria.

La cura per uscire dal marasma è quindi semplice: tornare alle valute nazionali, e, grazie al gioco compensativo delle svalutazioni e rivalutazioni, i mercati capitalistici, compresi quelli finanziari torneranno a scoppiare di salute.

Questa tesi sulle cause della crisi fa acqua da diverse parti, ed è come minimo semplicistica. E per quanto attiene alla terapia, vorremmo sottolineare che dall’euro si può uscire in diversi modi, anche “da destra”, fascisticamente, o magari proprio con un governo del sempiterno Berlusconi, ovvero usando svalutazione e inflazione per affamare ulteriormente i salariati, obbligandoli a sgobbare per quattro soldi.
Lo crediamo bene che così il capitale tricolore aumenterebbe la sua produttività e si risolleverebbe aggrappandosi alle esportazioni. Ciò che, malgrado tutte le improperie contro il “luogo comunismo”, finisce proprio per giustificare i sinistrati i quali ti dicono che, dati i rischi… tanto vale tenersi la moneta unica e sparire in un super-stato europeo.

Tutto ciò cela, eccome! una teoria economica. Una pietanza in cui frattaglie di keynesismo vengono condite alla rinfusa con un pizzico di mercantilismo protezionistico (quello che sta applicando la Germania), quindi forti dosi di libero-scambismo smithiano —privato però del suo discorso, pur impreciso, sulla caduta inevitabile del saggio di profitto e del suo aspetto anti-liberista [5]. Il tutto per servirci un insipido piatto neo-classico.

K. Marx

Già, i neo-classici, i marginalisti i quali, liquidando come metafisico ogni tentativo di dare basi oggettive alla teoria del valore, tagliarono la testa al toro affermando che questo, lungi dall’essere creato anzitutto a monte, nella sfera produttiva, si determinerebbe a valle, in quella del consumo, sarebbe quindi puramente soggettivo. Scompare del tutto l’analisi delle merce e del suo valore di scambio, che è considerata solo dal lato del suo valore d’uso, valendo quindi solo per il fatto di essere di qualche utilità al consumatore finale. Conterebbe cioè solo il prezzo, stabilito dalla “legge” della domanda e dell’offerta. Un letterale capovolgimento da cui deriva un’idea astrusa del capitale, considerato come mero sinonimo di mezzo di produzione (e non come rapporto sociale), come se un grande complesso industriale nel quale lavorano migliaia di salariati, equivalga all’arco e alle frecce del cacciatore preistorico o alla zappa del servo della gleba. Di qui l’idea che il capitale sia un sistema “naturale” in quanto tale destinato all’eternità. Si fa subito, seguendo questa pista, a considerare il profitto come legittima remunerazione del capitalista, giusta ricompensa del fatto che invece di consumare il suo reddito lo investe a rischio per creare ricchezza supplementare. Piccola domandina: da dove gli viene questo profitto? Non sarà mica che egli si appropria del plusvalore prodotto dai salariati?

Per i classici, e soprattutto per Marx, l’economia capitalistica consiste invece in produzione di valore, il quale ha come fine la propria valorizzazione. In altre parole: il capitale produce delle merci le quali hanno sì un valore d’uso che soddisfa bisogni, ma questo per il capitale è solo un mezzo, essendo il suo scopo la propria valorizzazione, il proprio illimitato accrescimento. E’ proprio la nativa insaziabile sete di profitto di innumerevoli capitali in cieca concorrenza fra loro che per Marx determina le crisi più catastrofiche, che implicano distruzione su larga scala di forze produttive (solo in Italia la produzione industriale, dal 2009, è crollata del 20%).

Ed è proprio a causa di queste crisi cicliche sempre più devastanti, alle prese con la necessità di investimenti sempre più massicci che offrono rendimenti sul lungo periodo e quel che è peggio decrescenti, che il tardo-capitalismo (capitalismo senescente) tende a preferire l’interesse al plusvalore, la rendita finanziaria insomma, il processo corto per cui il denaro deve produrre un guadagno saltando le fatiche del ciclo produttivo di merci (da cui solo nasce il plusvalore). 

Detto di passata: Bagnai non vede questa metamorfosi del tardo-capitalismola trasformazione del grosso della borghesia in classe parassitaria, come aveva colto Shumpeter, e, prima di lui, Lenin, con la sua analisi dell’imperialismo come “fase suprema” quindi terminale del capitalismo— ciò che gli impedisce di afferrare le cause del crollo del sistema finanziario americano del 2007-2008.

E’ in questa metamorfosi del sistema capitalistico, il peso preponderante della sfera finanziaria, che si spiega la fenomenologia delle crisi dal 1929 in poi, che consiste in terremoti valutari, in crack bancari, bolle borsistiche, o in default di debiti sovrani, fino all’ultimo patatrac, quello dei subprime negli Stati Uniti —che ha innescato la crisi globale nella quale il capitalismo, non solo euro-atlantico, è ancora avviluppato.

J. Shumpeter

Abbiamo detto che alla domanda del perché la crisi scoppiata negli USA si sia riverberata più pesantemente in Europa Bagnai, spinge solo tre tasti del suo clavicembalo: debito privato! Bilance dei pagamenti! euro! Repetita juvant, sottolinea spesso il Nostro.
Anche troppo, grazie. Lo fa squadernando una panoplia di grafici e tabelle. La sua specialità. Ovviamente ciò non spaventa nessuno, ma impressiona assai coloro che, mossi da una sincera passione civile e da un sano disprezzo per il partito unico degli euristi, si sono gettati con foga nella disputa “euro sì, euro no”. Per costoro, non certo colpevoli per essere dei principianti, le tabelle di Bagnai hanno un effetto stupefacente, nel senso letterale del termine. Creano un’illusione d’irrefutabilità.

Concludiamo:

– Per quanto occorra sbarazzarsi al più presto di quel mostro che è la moneta unica, essa è una concausa, per quanto decisiva, della crisi sistemica, ma la radice più profonda è nella crisi del processo di accumulazione e valorizzazione del capitale su scala globale.

– Finché l’economia globale funzionerà in base alle leggi capitalistiche, fino a che tutto è merce e le stesse valute sottostanno alle leggi di mercato, fino a quando si resta entro il perimetro imperialistico dei mercati finanziari, [6] non c’è sovranità monetaria che tenga e si è comunque esposti a crisi valutarie e attacchi speculativi della finanza predatoria, con l’euro o la lira.

– Anche paesi con bilance dei pagamenti in surplus possono essere colpiti da crisi gravissime. Fu il caso della Gran Bretagna, lo fece notare proprio Keynes, che nel 1929 aveva una produzione industriale superiore a qualsiasi momento precedente e un attivo netto della bilancia dei pagamenti superiore perfino a quello degli Stati Uniti.

– Nel capitalismo-casinò tra debiti privati e debiti pubblici c’è una connessione stringente, una relazione osmotica, a monte e non solo a valle. Se uno Stato, per finanziarsi, getta il suo debito sui mercati finanziari globali (come avvenne per l’Italia dopo gli anni ’80), a certe condizioni, esso può esporsi al rischio di default, malgrado i suoi debiti privati siano sostenibili.

– A certe condizioni importare capitali, e quindi un deficit di conto corrente, può essere addirittura salutare per un paese che voglia attivare un virtuoso ciclo di accumulazione (il caso più evidente: la Cina). Ciò che chiama quindi in causa le scelte delle sue autorità e della sua classe dominante. [6]

– E’ certo necessario contrastare gli euristi che terrorizzano i cittadini descrivendo scenari apocalittici con la fine dell’euro. E’ un gravissimo errore, tuttavia, sottovalutarne le conseguenze, e considerare la svalutazione della nuova lira come una panacea. Se con l’uscita non reintrodurremo l’indicizzazione dei salari, l’inevitabile inflazione sarà una macelleria sociale peggiore della deflazione montiana —non vorremmo sbagliarci ma in 413 pagine Bagnai mai ha sottolineato la necessità di reintrodurre la scala mobile.

J.M. Keynes

– In Europa la finanza speculativa, i derivati, il flash trading, il mercato dei titoli OTC, le vendite allo scoperto, i sistemi di negoziazione dark pool, sono forse più diffusi che negli Usa. Anche per questo sono epicentro della crisi globale.

– La scienza statistica e l’econometria sono strumenti utili, ma non sono discipline da cui si possono tirar fuori leggi scientifiche, e che quindi ad una tabella gliene si può opporre un’altra di diverso segno. [7]

– Per cui: (1) dobbiamo solo “uscire dalla crisi” o anche da un modello sociale condannato per sua stessa natura alla crisi permanente? (2) Il nostro nemico è solo l’euro e i politicanti- oligarchi che lo difendono, o lo sono anche le classi sociali per i cui interessi è stato costruito e viene tenuto in vita?

Troppo complesso, troppo radicale, non fa trendy. Meglio piccole pillole di saggezza econometrica. Per dirla alla Grillo: “l’economia non è né di destra né di sinistra, riguarda tutti i cittadini”.

Vogliamo augurarci che col suo manifesto Bagnai non voglia suonarci questa stucchevole melodia e ci dica, oltre che bisogna uscire dall’euro, come e con chi ricostruire questo paese, quale blocco sociale dobbiamo costruire per vincere quello oggi dominante, e quale potrà essere la forza motrice dell’alternativa.

Note

[1] Luigi Zingales intervista di Umberto Mangiardi del 19 dicembre 2012

[2] Intervista a rischio calcolato del 20 febbraio 2013

[3] J:m: Keynes, Prospettive economiche per i nostri nipoti, 1930

[4] Non si interpreti quanto scriviamo come un’apologia del pensiero di Keynes, ne siamo ben lontani, anche dal suo concetto di Pil di evidente matrice neoclassica per cui esso sarebbe la somma di consumi e investimenti, di lavoro produttivo e improduttivo. Concetto di cui i liberisti si sono infatti ben guardati dallo sbarazzarsi.

[5] «Nella corsa alla ricchezza, agli onori e all’ascesa sociale, ognuno può correre con tutte le proprie forze, […] per superare tutti gli altri concorrenti. Ma se si facesse strada a gomitate o spingesse per terra uno dei suoi avversari, l’indulgenza degli spettatori avrebbe termine del tutto. […] la società non può sussistere tra coloro che sono sempre pronti a danneggiarsi e a farsi torto l’un l’altro». Adam Smith, Teoria dei sentimenti morali, 1759

[6] Bagnai ritiene impensabile la rottura o la fuoriuscita dai mercati finanziari, che sono com’è noto dominati, nel senso che detta legge la finanza predatoria globale. Non a caso il Nostro ritiene inconcepibile disdettare il debito pubblico italiano verso grandi banche e fondi speculativi: solo verso quelli esteri ammonta a qualcosa come 800 miliardi di euro. Da nessuna parte propone la nazionalizzazione delle banche italiane, che hanno la pancia piena di titoli con cui rattoppano i loro asset e coi cui guadagni ripagano le perdite accumulate coi giochi in derivati. Infine: da nessuna parte ha mai suggerito o anche solo alluso, tanto per dire, sulla scia di Keynes, ad un nuovo ordine finanziario e monetario internazionale

[7] Sbaglia dunque Bagnai a liquidare come fuffa la protesta popolare contro “la casta”. Il disprezzo trasversale verso le elite politiche italiane è sacrosanto poiché chiama in causa non solo la loro corruzione, ma il loro servilismo verso monopoli e finanza globale, il loro fallimento strategico, le loro corte vedute.

[8] Valga per tutti la recente figuraccia fatta dai due notissimi metro economisti Kenneth S. Rogoff e Carmen M. Reinhart. In un loro lavoro del 2010 i due harvardiani avevano “dimostrato” con una messe di statistiche e tabelle che sotto una certa soglia di spesa pubblica arriva la recessione. E’ bastato che uno sconosciuto studente di econometria di un altro ateneo, l’università Amherst del Massachussets, a far crollare il loro castello di carte. Incaricato di ripercorrere i calcoli dei due economisti, hariscontrato diversi errori nelle tabelle Excel dello studio dei due, e perfino l’omissione dei dati riguardanti diversi paesi, come Spagna e Nuova Zelanda.




Uscire dalla crisi del capitalismo o uscire dal capitalismo in crisi?


[ 26 dicembre 2009 ]

 

di Samir Amin

Il principio dell’accumulazione senza fine che definisce il capitalismo è sinonimo di crescita esponenziale, ed essa – come il cancro – porta alla morte. Stuart Mill, che l’aveva capito, immaginava uno “stato stazionario” che avrebbe posto fine a questo processo irrazionale. Keynes condivideva questo ottimismo della ragione. Ma né l’uno né l’altro erano attrezzati per capire come poter realizzare il necessario superamento del capitalismo. Marx invece, facendo posto alla nuova lotta di classe, poteva immaginare di rovesciare il potere della classe capitalistica, concentrato oggi nelle mani dell’oligarchia.
L’accumulazione, sinonimo anche di pauperizzazione, disegna il quadro oggettivo delle lotte contro il capitalismo. Ma essa si esprime soprattutto con il contrasto crescente fra l’opulenza delle società del centro, beneficiarie della rendita imperialistica, e la miseria di quelle delle periferie dominate. Questo conflitto diventa di fatto l’asse centrale dell’alternativa “socialismo o barbarie”.
Il capitalismo storico “realmente esistente” è associato a forme successive di accumulazione per spossessamento, non soltanto all’origine (l’accumulazione primitiva) ma in tutte le tappe del suo sviluppo. Una volta costituito, questo capitalismo “atlantico” è partito alla conquista del mondo e lo ha ridisegnato sulla base del permanere dello spossessamento delle regioni conquistate, che diventavano così le periferie dominate del sistema.
Questa mondializzazione “vittoriosa” si è dimostrata incapace di imporsi in modo durevole. Solo mezzo secolo dopo il suo trionfo, che sembrava già inaugurare la “fine della storia”, essa veniva messa in discussione dalla rivoluzione della semiperiferia russa e dalle lotte (vittoriose) di liberazione in Asia e Africa, che hanno fatto la storia del XX secolo – la prima ondata di lotta per l’emancipazione dei lavoratori e dei popoli.
L’accumulazione per spossessamento prosegue sotto i nostri occhi nel tardo capitalismo degli oligopoli contemporanei. Nei paesi del centro, la rendita di monopolio di cui beneficiano le plutocrazie oligopolistiche è sinonimo di spossessamento dell’insieme della base produttiva della società. Nelle periferie, questo spossessamento pauperizzante si manifesta nell’espropriazione dei contadini e con il saccheggio delle risorse naturali delle regioni interessate. Entrambe le pratiche costituiscono i pilastri essenziali delle strategie espansionistiche del tardo capitalismo degli oligopoli.
In questo spirito, io pongo la “nuova questione agraria” al centro della sfida per il XXI secolo. Lo spossessamento delle società contadine (in Asia, Africa e America Latina) costituisce la forma contemporanea più saliente della tendenza alla pauperizzazione (nel senso che dava Marx a questa “legge”) associata all’accumulazione. La sua attuazione è indissociabile dalle strategie di captazione della rendita imperialistica da parte degli oligopoli, con o senza agrocombustibili. Ne deduco che lo sviluppo delle lotte su questo terreno, le risposte che saranno date all’avvenire delle società contadine del Sud (circa la metà dell’umanità) determineranno ampiamente la capacità o meno dei lavoratori di progredire sulla strada della costruzione di una civiltà autentica, liberata dal dominio del capitale, per la quale io non vedo altro nome che quello di socialismo.
Il saccheggio delle risorse naturali del Sud necessario per proseguire il modello di consumo basato sullo spreco a beneficio esclusivo delle società opulente del Nord annulla ogni prospettiva di sviluppo degno di questo nome per i popoli interessati, e costituisce perciò l’altra faccia della pauperizzazione a livello mondiale. In questo spirito, la “crisi dell’energia” non è il prodotto della rarefazione di certe risorse necessarie per la sua produzione (naturalmente si parla del petrolio), e neppure il prodotto degli effetti distruttivi delle forme energivore di produzione e di consumo oggi in vigore. Questa descrizione – peraltro corretta – non va oltre le evidenze banali e immediate. Questa crisi è il prodotto della volontà degli oligopoli dell’imperialismo collettivo di assicurarsi il monopolio dell’accesso alle risorse naturali del pianeta,più o meno rare, per appropriarsi della rendita imperialistica, anche nel caso in cui l’utilizzo di queste risorse restasse com’è (energivora e di spreco) oppure fosse soggetto a nuove politiche correttive “ecologiste”. Ne deduco inoltre che se la strategia di espansione del tardo capitalismo degli oligopoli continuerà in questa maniera, provocherà necessariamente la crescente resistenza delle nazioni del Sud.
La crisi attuale non è dunque una crisi finanziaria, e neppure la somma di crisi sistemiche multiple, ma è la crisi del capitalismo imperialistico degli oligopoli, ilo cui potere esclusivo e suprema rischia di venir messo in questione, ancora una volta, con le lotte dell’insieme delle classi popolari nonché dei popoli e delle nazioni delle periferie dominate, anche se in apparenza “emergenti”. E’ nello stesso tempo una crisi dell’egemonia degli Stati Uniti. Capitalismo degli oligopoli, potere politico delle oligarchie, mondializzazione barbara, finanziarizzazione, egemonia degli Stati Uniti, militarizzazione della gestione della mondializzazione al servizio degli oligopoli, declino della democrazia, saccheggio delle risorse del pianeta e abbandono delle prospettive di sviluppo del Sud sono tutti fenomeni indissociabili.
La vera sfida è dunque questa: queste lotte riusciranno a convergere per aprire la strada – o le strade – sul lungo cammino verso la transizione al socialismo mondiale? Oppure resteranno separate le une dalle altre, o addirittura in conflitto, e perciò inefficaci, in modo da lasciare l’iniziativa al capitale degli oligopoli?

Da una lunga crisi all’altra

Il crollo finanziario del settembre 2008 probabilmente ha colto di sorpresa gli economisti convenzionali della “mondializzazione felice” e ha disarcionato qualche costruttore del discorso liberale che trionfava dal tempo della caduta del muro di Berlino, come si usa dire. Se invece l’evento non ha sorpreso noi – noi l’aspettavamo (senza certo averne predetto la data) – è semplicemente perché per noi esso si iscriveva naturalmente nello sviluppo della lunga crisi del capitalismo in fase di senescenza fin dagli anni 70.
E’ opportuno tornare a riflettere sulla prima lunga crisi del capitalismo, che ha forgiato il XX secolo, tanto è impressionante il parallelo fra le tappe di sviluppo delle due crisi.
Il capitalismo industriale trionfante del XIX secolo entra in crisi a partire dal 1873. I tassi di profitto crollano, per le ragioni evidenziate da Marx. Il capitale reagisce con un doppio movimento di concentrazione e di espansione mondializzata. I nuovi monopoli confiscano a loro profitto una rendita prelevata sulla massa di plusvalore generata dallo sfruttamento del lavoro. Essi accelerano la conquista coloniale del pianeta. Queste trasformazioni strutturali permettono una nuova ascesa dei profitti e aprono la “belle époque” – dal 1890 al 1914 – che è segnata dal dominio mondializzato del capitale dei monopoli finanziarizzati. I discorsi allora dominanti fanno l’elogio della colonizzazione (la “missione civilizzatrice”), fanno della mondializzazione il sinonimo di pace, e la socialdemocrazia operaia europea si unisce a questo coro.
La “belle époque”, annunciata come la “fine della storia” dagli ideologi del tempo, termina con la guerra mondiale, come solo Lenin aveva previsto. Il periodo che segue, fino all’indomani della seconda guerra mondiale, sarà un periodo di guerre e rivoluzioni. Nel 1920, isolata la rivoluzione russa (l’“anello debole” del sistema) dopo la sconfitta delle speranze rivoluzionarie in Europa centrale, il capitale dei monopoli finanziarizzati restaura contro venti e maree il sistema della “belle époque”. Una restaurazione, denunciata allora da Keynes, che è all’origine del crollo finanziario del 1929 e della depressione che comporta fino alla seconda guerra mondiale.
Il lungo XX secolo – 1873/1990 – è dunque il secolo della prima profonda crisi sistemica del capitalismo senescente (al punto che Lenin pensa che quel capitalismo dei monopoli costituisca la “fase suprema del capitalismo”) e nello stesso tempo quello di una prima ondata trionfante di rivoluzioni anticapitalistiche (Russia, Cina) e di movimenti antimperialistici dei popoli d’Asia e Africa.
La seconda crisi sistemica del capitalismo si apre nel 1971, con l’abbandono della convertibilità in oro del dollaro, quasi esattamente un secolo dopo l’inizio della prima. I tassi di profitto, di investimento e di crescita crollano (non ritroveranno mai più il livello che avevano raggiunto nel periodo 1945-75). Il capitale risponde alla sfida come nella crisi precedente facendo un doppio movimento di concentrazione e mondializzazione. Instaura così delle strutture che definiranno la seconda “belle époque” (1990-2008) di mondializzazione finanziarizzata che permette ai gruppi oligopolistici di prelevare la rendita di monopolio. Gli stessi discorsi di accompagnamento: il “mercato” garantisce la prosperità, la democrazia e la pace; è la “fine della storia”. Stesso allineamento dei socialisti europei al nuovo liberismo.  Eppure questa nuova “belle époque” viene accompagnata fin dall’inizio dalla guerra, quella del Nord contro il Sud, iniziata fin dal 1990. E appunto come la prima mondializzazione aveva provocato il 1929, la seconda ha prodotto il 2008. Siamo giunti oggi al momento cruciale che annuncia la probabilità di una nuova ondata di guerre rivoluzioni. Tanto più che i poteri attuali non sanno prevedere altro che la restaurazione del sistema come era prima del crollo finanziario.
L’analogia fra lo sviluppo delle due lunghe crisi sistemiche del capitalismo senescente è impressionante. Ci sono peraltro delle differenze la cui portata politica è importante.


Uscire dalla crisi del capitalismo o uscire dal capitalismo in crisi?

Dietro la crisi finanziaria, la crisi sistemica del capitalismo degli oligopoli

Il capitalismo contemporaneo è soprattutto e anzitutto un capitalismo di oligopoli nel senso pieno del termine (finora non lo era che in parte). Intendo dire che gli oligopoli da soli dominano la riproduzione del sistema produttivo nel suo complesso. Essi sono “finanzia rizzati” nel senso che essi soli hanno accesso al mercato dei capitali. Tale finanziarizzazione presta al mercato monetario e finanziario – il loro mercato, quello su cui si fanno concorrenza fra loro – lo status di mercato dominante, che a sua volta forgia e domina i mercati del lavoro e dello scambio dei prodotti.
La finanziarizzazione mondializzata si esprime con una trasformazione della classe dirigente borghese, divenuta ora plutocrazia redditiera. Gli oligarchi non sono solo russi, come troppo spesso si dice, ma molto di più statunitensi, europei e giapponesi. Il declino della democrazia è il prodotto inevitabile di questa concentrazione del potere a beneficio esclusivo degli oligopoli.
E’ importante d’altra parte precisare la nuova forma della mondializzazione capitalistica, che corrisponde a questa trasformazione, in contrapposizione a quella che caratterizzava la prima “belle époque”. Io la esprimo in una frase: il passaggio dall’imperialismo declinato al plurale (quello delle potenze imperialistiche in conflitto permanente fra loro) all’imperialismo collettivo della triade (Stati Uniti, Europa, Giappone).
I monopoli che emergono in risposta alla prima crisi del tasso di profitto si sono costituiti su basi che hanno rafforzato la violenza della concorrenza fra le maggiori potenze imperialistiche del tempo, e hanno portato al grande conflitto iniziato nel 1914, proseguito attraverso la pace di Versailles e poi con la seconda guerra mondiale fino al 1945. Ciò che Arrighi, Frank, Wallerstein e io stesso avevamo definito fin dagli anni 70 come la “guerra dei trent’anni”, termine ripreso poi da altri.
Invece la seconda ondata di concentrazione oligopolistica, iniziata negli anni 70, si è costituita su basi totalmente diverse, nel quadro di un sistema che ho definito “imperialismo collettivo della triade” (Stati Uniti, Europa, Giappone). In questa nuova mondializzazione imperialistica, il dominio dei centri non si esercita più per mezzo del monopolio della produzione industriale (come era il caso prima) ma con altri mezzi (il controllo delle tecnologie, dei mercati finanziari, dell’accesso alle risorse naturali, dell’informazione e della comunicazione, delle armi di distruzione di massa). Il sistema che ho definito di “apartheid su scala mondiale” implica la guerra permanente contro gli Stati e i popoli delle periferie recalcitranti, guerra iniziata nel 1990 con il controllo militare del pianeta da parte degli Stati Uniti e gli alleati subalterni della Nato.
La finanziarizzazione del sistema è indissociabile, nella mia analisi, dal suo carattere oligopolistico. Si tratta di un rapporto organico fondamentale. Questo punto di vista non è quello dominante, non solo nella voluminosa letteratura degli economisti convenzionali, ma anche nella maggior parte degli scritti critici sulla crisi in corso.

Il sistema è tutto ormai in difficoltà

I fatti sono noti: il crollo finanziario sta già producendo non una “recessione” ma una vera, profonda depressione. Ma oltre questo, sono emerse alla coscienza pubblica altre dimensioni della crisi del sistema, ancor prima del crollo finanziario. Se ne conoscono le grandi linee – crisi energetica, crisi alimentare, crisi ecologica, cambiamenti climatici – e vengono quotidianamente presentate varie analisi, alcune pregevoli, di questi aspetti delle sfide contemporanee.
Io rimando comunque critico circa questo modo di trattare la crisi sistemica del capitalismo, che isola le diverse dimensioni della sfida. Ridefinisco quindi le “crisi” diverse come sfaccettature della stessa sfida, quella del sistema della mondializzazione capitalistica contemporanea (liberista o meno) fondato sul prelievo che la rendita capitalistica opera su scala mondiale, a profitto degli oligopoli dell’imperialismo collettivo della triade.
La vera battaglia si combatte su questo terreno decisivo fra gli oligopoli che cercano di produrre e riprodurre le condizioni che gli permettono di appropriarsi della rendita imperialistica e tutte le loro vittime – lavoratori di tutti i paesi del Nord e del Sud, popoli delle periferie dominate, condannati a rinunciare ad ogni prospettiva di sviluppo degno di questo nome.

Uscire dalla crisi del capitalismo o uscire dal capitalismo in crisi?

La formula era stata proposta da André Gunder Frank e da me nel 1974.
L’analisi che noi proponevamo della nuova grande crisi che giudicavamo già iniziata ci aveva portato a concludere che il capitale avrebbe risposto alla sfida con una nuova ondata di concentrazioni, sulla cui base avrebbe proceduto a delocalizzazioni di massa. Cosa ampiamente confermata dalle ulteriori evoluzioni. Il titolo di un nostro intervento a un colloquio organizzato dal “Manifesto” a Roma in quella data (“Non aspettiamo il 1984”, con riferimento all’opera di George Orwell tratta dall’oblio in quell’occasione) invitava la sinistra radicale dell’epoca a rinunciare a correre in soccorso del capitale con la ricerca di “uscite dalla crisi”, per impegnarsi invece in strategie di “uscita dal capitalismo in crisi”.
Ho continuato su questa linea di analisi con una ostinazione che non rimpiango.
Io proponevo di teorizzare le nuove forme di dominio dei centri imperialistici fondandosi sull’affermazione di modi nuovi di controllo che si sostituivano al vecchio monopolio dell’esclusiva industriale, cosa confermata poi dall’ascesa dei paesi poi definiti “emergenti”. Io definivo la nuova mondializzazione in costruzione come “apartheid su scala mondiale”, che esigeva la gestione militarizzata del pianeta, e che perpetuava con nuove condizioni la polarizzazione indissociabile dall’espansione del “capitalismo realmente esistente”.

La seconda ondata di emancipazione dei popoli: un remake del XX secolo o qualcosa di meglio?

Non ci sono alternative alla prospettiva socialista

Il mondo contemporaneo è governato dalle oligarchie. Oligarchie finanziarie negli Stati Uniti, in Europa e in Giappone, che dominano non soltanto la vita economica, ma anche la politica e la vita quotidiana. Oligarchie russe a loro immagine che lo Stato russo cerca di controllare. Statocrazia in Cina. Autocrazie (a volte nascoste dietro qualche apparenza di democrazia elettorale “a bassa intensità”) inquadrate in questo sistema mondiale altrove, nel resto del pianeta.
La gestione della mondializzazione contemporanea da parte delle oligarchie è in crisi.
Le oligarchie del Nord non si sentono minacciate e pensano di restare al potere, una volta passato il tempo della crisi. Invece la fragilità dei poteri delle autocrazie del Sud è ben visibile. L’attuale mondializzazione si presenta per questo molto fragile. Sarà rimessa in discussione dalla rivolta del Sud, come nel secolo passato? Probabile. Ma triste. Giacché l’umanità si impegnerà sulla via del socialismo – sola alternativa umana al caos – solo quando i poteri delle oligarchie, dei loro alleati e dei loro lacchè saranno sconfitti sia nei paesi del Nord che in quelli del Sud.
Viva l’internazionalismo dei popoli contro il cosmopolitismo delle oligarchie.

E’ possibile che il capitalismo degli oligopoli finanziarizzati e mondializzati torni in sella?

Il capitalismo è “liberista” per natura, se per “liberismo” si intende non quella cosa bella che il termine ispira ma l’esercizio pieno e intero del dominio del capitale non solo sul lavoro e l’economia, ma su tutti gli aspetti della vita sociale. Non esiste “economia di mercato” (espressione volgare per indicare il capitalismo) senza “società di mercato”. Il capitale persegue ostinatamente questo obiettivo unico. Il denaro. L’accumulazione per se stessa. Marx, ma dopo di lui altri teorici critici come Keynes, l’hanno capito perfettamente. Non i nostri economisti convenzionali, inclusi quelli di sinistra.
Questo modello di dominio esclusivo e totale del capitale era stato imposto con ostinazione dalle classi dirigenti per tutto il lungo periodo della crisi precedente, fino al 1945. Solo la triplice vittoria della democrazia,a del socialismo e della liberazione nazionale dei popoli aveva permesso – fra il 1945 e il 1980 – di sostituire a questo modello permanente dell’ideale capitalistico, la coesistenza conflittuale dei tre modelli sociali regolati quali sono stati il welfare state della socialdemocrazia a ovest, i socialismi realmente esistenti a est e i nazionalismi popolari al sud. Successivamente, l’indebolimento e poi il crollo dei tre modelli ha reso possibile un ritorno al dominio esclusivo del capitale, definito neoliberista.
Ho associato questo nuovo “liberismo” a un complesso di nuove caratteristiche di ciò che mi è sembrato meritare la definizione di “capitalismo senile”. Il libro così intitolato, pubblicato nel 2001, era fra i pochi scritti che in quell’epoca, lungi dal vedere nel neoliberismo mondializzato e finanziarizzato la “fine della storia”, analizzava il sistema del capitalismo senescente evidenziandone l’instabilità che lo destinava al crollo, precisamente a partire dalla sua dimensione finanzia rizzata (il suo “tallone d’Achille”, come ho scritto).
Gli economisti convenzionali sono rimasti ostinatamente sordi a ogni tentativo di mettere in discussione i loro dogmi. Al punto da esser stati incapaci di prevedere il crollo finanziario del 2008. Coloro che i media dominanti hanno presentato come “critici” non meritano molto la definizione. Stiglitz resta convinto che il sistema quale era – il liberismo mondializzato e finanzia rizzato – può tornare in sella, a patto di qualche correzione. Amartya Sen predica la morale senza osar pensare il capitalismo realmente esistente quale è necessariamente.
I disastri sociali che il liberismo – “l’utopia permanente del capitale”,come ho scritto – non avrebbe mancato di provocare hanno ispirato molte nostalgie del passato recente o lontano. Ma le nostalgie non servono per rispondere alla sfida. Esse sono il prodotto di un impoverimento del pensiero critico teorico che si era a poco a poco vietato di capire le contraddizioni interne e  limiti dei sistemi del dopoguerra, in cui le erosioni, le derive e i crolli sono apparsi come cataclismi imprevisti.
Tuttavia, nel vuoto creato da questi arretramenti del pensiero teorico critico, una presa di coscienza delle nuove dimensioni della crisi sistemica di civiltà ha trovato il modo di aprirsi la strada. Mi riferisco qui agli ecologisti. Ma i Verdi, che hanno preteso di distinguersi radicalmente sia dai Blu (conservatori e liberali) che dai Rossi (i socialisti) si sono rinchiusi in un vicolo cieco, incapaci di integrare la dimensione ecologica della sfida con una critica radicale del capitalismo.
Tutto era a posto dunque per assicurare il trionfo – di fatto passeggero, ma vissuto come “definitivo” – dell’alternativa detta della “democrazia liberale”. Un pensiero misero – un autentico non pensiero – che ignora ciò che Marx aveva detto di decisivo riguardo alla democrazia borghese, che ignora che coloro che decidono non sono coloro che sono toccati dalle decisioni. Coloro che decidono godono della libertà rafforzata dal controllo della proprietà, e sono oggi i plutocrati del capitalismo degli oligopoli e gli Stati che sono loro debitori. Per forza di cose i lavoratori e i popoli interessati non sono altro che le loro vittime. Ma simili sciocchezze potevano sembrare credibili, per un breve momento, per via delle derive dei sistemi del dopoguerra, quando la miseria delle dogmatiche non riusciva più a capire le origini. La democrazia liberale poteva allora sembrare il “migliore dei sistemi possibili”.
Oggi i poteri attuali, che non avevano previsto nulla di ciò, si sforzano di restaurare lo stesso sistema. Il loro eventuale successo, come quello dei conservatori degli anni 20 – che Keynes denunciava senza allora ottenere ascolto – potrà solo aggravare l’ampiezza delle contraddizioni che sono all’origine del crollo finanziario del 2008.
Non è meno grave il fatto che gli economisti “di sinistra” si sono allineati da tempo sulle tesi dell’economia volgare e hanno accettato l’idea – sbagliata – della razionalità dei mercati. Essi hanno concentrato i loro sforzi sulla definizione delle condizioni di tale razionalità, abbandonando Marx – che aveva da parte sua rivelato l’irrazionalità dei mercati dal punto di vista dell’emancipazione dei lavoratori e dei popoli – giudicato ormai “obsoleto”. Nella loro prospettiva, il capitalismo è flessibile, si adegua alle esigenze del progresso (tecnologico e anche sociale), se viene obbligato. Questi economisti di “sinistra” non erano preparati a capire che la crisi che è scoppiata era inevitabile. E sono ancor meno preparati a fronteggiare le sfide che i popoli hanno oggi di fronte. Come gli altri economisti volgari, essi cercheranno di riparare i guasti, senza capire che per riuscirvi è necessario intraprendere un’altra strada, quella del superamento delle logiche fondamentali del capitalismo. Invece di cercar di uscire dal capitalismo in crisi, pensano di poter uscire dalla crisi del capitalismo.

Crisi dell’egemonia degli Stati Uniti

La recente riunione del G20 (Londra, aprile 2009) non ha affatto avviato una “ricostruzione del mondo”. E forse non è un caso che sia stata seguita da quella della Nato, il braccio armato dell’imperialismo contemporaneo, e dal rafforzamento del suo impegno militare in Afghanistan. La guerra permanente del Nord con il Sud deve continuare.
Già si sapeva che i governi della triade – Stati Uniti, Europa, Giappone – perseguono l’obiettivo esclusivo di ripristinare il sistema come era prima del settembre 2008, e non bisogna prendere sul serio gli interventi a Londra del presidente Obama e di Gordon Brown da una parte, quelli di Sarkozy e di Angela Merkel dall’altra, destinati a divertire la platea. Le pretese “differenze” rilevate dai media, prive di reale consistenza, rispondono solo al bisogno dei vari leader politici di farsi valere di fronte alle rispettive opinioni pubbliche sprovvedute. “Rifondare il capitalismo”, “moralizzare le operazioni finanziarie”: molte parolone per evitare le questioni vere. Ripristinare il sistema non è impossibile, ma non risolverà i problemi, ne aggraverà piuttosto la portata. La “commissione Stiglitz” convocata dalle Nazioni Unite, si inquadra in questa strategia di costruzione di un trompe l’oeil. Evidentemente non ci si può aspettare altro dagli oligarchi che controllano i poteri reali e dai loro debitori politici. Il punto di vista che ho sviluppato, ponendo l’accento sui rapporti fra il dominio degli oligopoli e la necessaria finanziarizzazione della gestione dell’economia mondiale – che sono indissociabili – è ben confermato dai risultati del G20.
Risulta invece più interessante il fatto che i leader dei “paesi emergenti” invitati sono rimasti in silenzio. Nel corso di quella giornata di gran circo, solo una frase intelligente è stata pronunciata dal presidente cinese Hu Jintao, che quasi di sfuggita , senza insistere e con un sorriso (ironico?), ha fatto osservare che bisognerà ben cominciare a prendere in considerazione l’ipotesi di un sistema finanziario mondiale non fondato sul dollaro. Alcuni rari commentatori hanno immediatamente fatto il confronto – corretto – con le proposte di Keynes nel 1945.
Questa “osservazione” ci riporta alla realtà: che la crisi del sistema del capitalismo oligopolistico è indissociabile da quella dell’egemonia degli Stati Uniti, ormai allo stremo. Ma chi gli darà il cambio? Certo non l’“Europa”, che non esiste al di fuori dell’atlantismo e non nutre alcuna ambizione di indipendenza, come ha dimostrato ancora una volta l’assemblea della Nato. La Cina? Questa “minaccia”, che i media invocano a sazietà (un nuovo “pericolo giallo”) indubbiamente per legittimare l’allineamento atlantico, è senza fondamento. I dirigenti cinesi sanno che il loro paese non ne ha i mezzi, e loro non ne hanno la volontà. La strategia della Cina si limita a operare per dare avvio a una nuova mondializzazione senza egemonia, cosa che né gli Stati Uniti né l’Europa giudicano accettabile.
Le possibilità di uno sviluppo che vada in questo senso riposano ancora totalmente sui paesi del Sud. E non è un caso che la Cnuced sia la sola istituzione delle Nazioni Unite che abbia preso iniziative molto diverse da quelle della Commissione Stiglitz. Non è un caso che il suo direttore, il tailandese Supachai Panitchpakdi, considerato finora come un perfetto liberista, nel suo rapporto intitolato The Global Economic Crisis del marzo 2009, abbia osato fare delle proposte realistiche e avanzate, nella prospettiva di un secondo momento di “risveglio del Sud”.
La Cina da parte sua ha avviato la costruzione – progressiva e controllata –  di sistemi finanziari regionali alternativi e indipendenti dal dollaro. Iniziative che completano sul piano economico le alleanze politiche del “gruppo di Shanghai”, il maggiore ostacolo al bellicismo della Nato.
L’assemblea della Nato, riunita nell’aprile del 2009, ha confermato la decisione di Washington di non avviare il disimpegno militare, ma invece di accentuarne l’ampiezza, sempre sotto il fallace pretesto della lotta al “terrorismo”. Il presidente Obama usa dunque tutto il suo talento per tentare di salvare il programma di Clinton e poi di Bush di controllo militare del pianeta, unico mezzo per prolungare l’egemonia americana ormai minacciata. Obama ha ottenuto dei risultati facendo capitolare senza condizioni la Francia di Sarkozy – la fine del gollismo – che è tornata nel comando militare della Nato, cosa rimasta difficile finché Washington parlava con la voce di Bush, sprovvista d’intelligenza ma non di arroganza. Per di più Obama è salito in cattedra, come Bush, senza preoccuparsi di rispettare “l’indipendenza” dell’Europa, per invitarla ad accettare l’integrazione della Turchia nell’Unione Europea!

Verso una seconda ondata di lotte vittoriose per l’emancipazione dei lavoratori e dei popoli

Sono possibili nuovi progressi nelle lotte di emancipazione dei popoli?

La gestione politica del dominio mondiale del capitale degli oligopoli comporta necessariamente un’estrema violenza. Per conservare la loro posizione di società opulente, i paesi della triade imperialistica sono ormai costretti a riservare a loro esclusivo beneficio l’accesso alle risorse naturali del pianeta. Questa nuova esigenza sta all’origine della militarizzazione della mondializzazione, che io ho definito come “impero del caos” (titolo di una delle mie opere, pubblicata nel 2001), espressione poi ripresa da altri.
Nella scia del progetto di Washington di controllo militare del pianeta. Conducendo perciò “guerre preventive” con la scusa della lotta al “terrorismo”, la Nato si è autopromossa come “rappresentante della comunità internazionale”, emarginando perciò l’ONU, la sola istituzione qualificata  per parlare a quel titolo.
Naturalmente non si possono confessare gli obiettivi reali. Per mascherarli, le potenze interessate hanno scelto di strumentalizzare il discorso della democrazia e si sono concesse un “diritto di intervento” per imporre il “rispetto dei diritti umani” !
Parallelamente, il potere assoluto delle nuove oligarchie ha svuotato di ogni contenuto la pratica della democrazia borghese. Mentre nel passato era necessaria la negoziazione politica fra le diverse componenti del blocco egemonico necessario per la riproduzione del potere del capitale, la nuova gestione politica della società del capitalismo oligopolistico, con una sistematica depoliticizzazione, fonda una nuova cultura politica basata sul “consenso” (sul modello degli Stati Uniti), che sostituisce il consumatore e lo spettatore politico al cittadino attivo, condizione di una democrazia autentica. Questo “virus liberale” (per riprendere il tiolo della mia opera pubblicata nel 2005) abolisce l’apertura su scelte alternative possibili e vi sostituisce il consenso intorno al solo rispetto della democrazia elettorale.
L’indebolimento e poi il crollo dei tre modelli di gestione sociale evocati prima sono all’origine del dramma. La pagina della prima ondata di lotte per l’emancipazione è stata voltata, quella della seconda ondata non si è ancora aperta. Nella penombra che le separa, si “disegnano i mostri”, come scriveva Gramsci.
Nei paesi del Nord questa evoluzione sta all’origine della perdita di senso della pratica democratica. L’arretramento viene giustificato ricorrendo al discorso cosiddetto “post-modernista”, secondo cui nazioni e classi avrebbero abbandonato la scena per lasciare il posto all’ “individuo”, diventato soggetto attivo della trasformazione sociale.
Nei paesi del Sud la scena è occupata da nuove illusioni: l’illusione di uno sviluppo capitalistico nazionale autonomo iscritto entro la mondializzazione, molto sentita fra le classi dominanti e medie dei paesi “emergenti” e confortata dal successo immediato degli ultimi decenni; o le illusioni passatiste (para-etniche o para-religiose) nei paesi rimasti più indietro.
Più grave risulta il fatto che questo corso degli avvenimenti favorisce l’adesione generale all’a “ideologia dei consumi”, all’idea che il progresso si misuri sulla crescita quantitativa. Marx aveva dimostrato che è il modo di produzione che determina quello del consumo, e non l’inverso, come pretende l’economia volgare. Viene così totalmente persa di vista la prospettiva di una razionalità umanista superiore, fondamento del progetto socialista. Il gigantesco potenziale che l’applicazione della scienza e della tecnologia offre all’umanità intera, e che dovrebbe permettere agli individui e alle società di fiorire pienamente, al Nord come al Sud, viene sprecato per la necessità di assoggettarlo alle logiche dell’accumulazione del capitale. Più grave ancora, i progressi continui della produttività sociale del lavoro vengono associati a uno sviluppo vertiginoso dei meccanismi di pauperizzazione (ben visibili su scala mondiale, fra l’altro per l’offensiva generalizzata contro le società contadine), come Marx aveva ben capito.
L’adesione all’alienazione ideologica prodotta dal capitalismo non colpisce soltanto le società opulente dei centri imperialistici. I popoli delle periferie –nella stragrande maggioranza esclusi dall’accesso a livelli accettabili di consumo – accecati da aspirazioni a un consumo analogo a quello del Nord opulento, perdono la coscienza che la logica di sviluppo del capitalismo storico rende impossibile generalizzare il modello in questione a tutto il pianeta.
Si comprendono allora le ragioni per cui il crollo finanziario del 2008 è stato risultato esclusivo dell’acutizzarsi delle contraddizioni interne caratteristiche dell’accumulazione del capitale. Solo l’intervento di forze portatrici di un’alternativa positiva permette di immaginare un’uscita dal caos prodotto dall’acutizzarsi delle contraddizioni interne del sistema (io opponevo la “via rivoluzionaria” al modello di superamento di un sistema storicamente obsoleto con la “decadenza”). Allo stato attuale delle cose, i movimenti di protesta sociale, malgrado la loro notevole ascesa, restano nell’insieme incapaci di mettere in discussione l’ordine sociale associato al capitalismo degli oligopoli, per mancanza di un progetto politico coerente che sia all’altezza delle sfide.
Da questo punto di vista la situazione attuale è molto diversa da quella che prevaleva negli anni 30, quando si affrontavano forze portatrici di opzioni socialiste da una parte e di partiti fascisti dall’altra, producendo qua la risposta nazista e là il New Deal e i Fronti popolari.
Non si potrà evitare che la crisi diventi più profonda, anche nell’ipotesi di un eventuale successo – non impossibile – del sistema di dominio del capitale oligopolistico. In queste condizioni la radicalizzazione delle lotte non è un’ipotesi impossibile, anche se gli ostacoli restano notevoli.
Nei paesi della triade la radicalizzazione comporterebbe il mettere in agenda l’espropriazione degli oligopoli, il che sembra escluso per il futuro immediato. Perciò non è possibile scartare l’ipotesi che malgrado le turbolenze provocate dalla crisi, non venga messa in discussione la stabilità delle società della triade. Sembra serio invece il rischio di un remake dell’ondata di lotte di emancipazione del secolo scorso, che rimetta in discussione il sistema a partire da alcune periferie.
Una seconda tappa del “risveglio del Sud” (per riprendere il titolo del mio libro pubblicato nel 2007, che offre una lettura del periodo di Bandung come primo tempo del risveglio) risulta oggi all’ordine del giorno. Nella migliore delle ipotesi, i progressi realizzati in queste condizioni potrebbero costringere l’imperialismo ad arretrare, a rinunciare al progetto demenziale e criminale di controllo militare del pianeta. E in questo caso il movimento democratico nei paesi del centro potrebbe contribuire positivamente al successo di questa neutralizzazione. Inoltre il decremento della rendita imperialistica di cui godono le società della triade, prodotto dalla riorganizzazione degli equilibri internazionali a favore del Sud (in particolare la Cina) potrebbe efficacemente aiutare il risveglio di una coscienza socialista. Ma d’altra parte le società del Sud dovranno sempre affrontare le stesse sfide del passato, con gli stessi limiti posti al loro progresso.

Un nuovo internazionalismo dei lavoratori e dei popoli è necessario e possibile

Il capitalismo storico è tutto quel che si vuole, tranne che durevole. Non è che una breve parentesi nella storia. Rimetterlo in causa – cosa che i teorici nostri contemporanei non immaginano né “possibile” e neppure “auspicabile” – è peraltro la condizione imprescindibile dell’emancipazione dei lavoratori e dei popoli dominati (quelli della periferia, l’80% dell’umanità). Le due dimensioni della sfida non si possono dissociare. Non si potrà uscire dal capitalismo solo con la lotta dei popoli del Nord e neppure solo con la lotta dei popoli dominati del Sud. Si potrà uscire dal capitalismo solo quando, e nella misura in cui, le due dimensioni della stessa sfida si articoleranno l’una con l’altra. Non è “certo” che ciò succeda, nel qual caso il capitalismo sarà “superato” dalla distruzione della civiltà (al di là del disagio della civiltà, per usare i termini di Freud) e forse anche della vita sul pianeta. Lo scenario di un possibile remake del XX secolo resterà dunque al di qua delle esigenze di un impegno dell’umanità sulla lunga strada della transizione al socialismo mondiale. Il disastro liberista impone un rinnovamento della critica radicale del capitalismo. E’ la sfida cui oggi si confronta la costruzione/ricostruzione permanente dell’internazionalismo dei lavoratori e dei popoli, in contrasto con il cosmopolitismo del capitale oligarchico.
La costruzione di questo internazionalismo passa necessariamente per il successo dei nuovi tentativi rivoluzionari (come quelli iniziati in America Latina e in Nepal) che aprono la prospettiva di un superamento del capitalismo.
Nei paesi del Sud la lotta degli Stati e delle nazioni per una mondializzazione negoziata senza egemonie – forma contemporaneo dello sganciamento – sostenuta dall’organizzazione delle rivendicazioni delle classi popolari, può circoscrivere e limitare il potere degli oligopoli della triade imperialistica. Le forze democratiche nei paesi del Nord devono pure sostenere questa lotta. Il discorso “democratico” proposto e accettato dalla maggioranza delle sinistre come sono oggi, gli interventi “umanitari” condotti in suo nome, come le pratiche miserabili degli “aiuti”, escludono dalla loro considerazione il confronto reale con questa sfida.
Nei paesi del Nord gli oligopoli sono già visibilmente dei “beni comuni” la cui gestione non può essere affidata ai soli interessi particolari (la crisi ne ha dimostrato i risultati catastrofici). Una sinistra autentica deve avere l’audacia di immaginarne la nazionalizzazione, prima tappa imprescindibile nella prospettiva della loro socializzazione mediante l’approfondirsi della pratica democratica. La crisi in corso permette di immaginare la possibile formazione di un fronte di forze sociali e politiche che raduni tutte le vittime del potere esclusivo delle oligarchie.
La prima ondata di lotte per il socialismo, nel XX secolo, ha dimostrato i limiti delle socialdemocrazie europee, dei comunismi della Terza internazionale e dei nazionalismi popolari dell’epoca di Bandung, l’indebolirsi e poi il crollo delle loro ambizioni socialiste. La seconda ondata, nel XXI secolo, deve trarne le conseguenze. In particolare, bisogna associare la socializzazione della gestione economica con una più profonda democratizzazione della società. Non ci sarà socialismo senza democrazia, ma neppure alcun progresso democratico fuori dalla prospettiva socialista.
Questi obiettivi strategici invitano a pensare alla costruzione di “convergenze nella diversità” (per riprendere l’espressione del Forum mondiale delle alternative) delle forme di organizzazione e di lotta delle classi dominate e sfruttate. E non è mia intenzione condannare aprioristicamente le forme che, alla loro maniera, vogliano riprendere le tradizioni delle socialdemocrazie, dei comunismi e dei nazionalismi popolari, o vogliano abbandonarle.
In questa prospettiva, mi sembra necessario pensare a un rinnovamento dei un marxismo creativo. Marx non è mai stato tanto utile e necessario per capire e trasformare il mondo come lo è oggi, ancora più di ieri. Essere marxista in questo senso significa partire da Marx e non fermarsi a lui, a Lenin o a Mao, come hanno teorizzato e praticato i marxismi storici del secolo scorso. Bisogna rendere a Marx quel che gli compete: l’intelligenza di aver iniziato un pensiero critico moderno, critico della realtà capitalistica e critico delle sue rappresentazioni politiche, ideologiche e culturali. Il marxismo creativo deve avere lo scopo di arricchire senza esitazioni questo pensiero critico per eccellenza. Non deve temere di integrare tutti gli apporti della riflessione, in tutti i campi, compresi gli apporti che sono stati considerati, a torto, come “estranei” dai dogmatici dei marxismi storici del passato.

Nota: Le tesi presentate in questo articolo sono state sviluppate nell’opera La crise, sortir de la crise du capitalisme ou sortir du capitalisme en crise, ed. Le Temps des Cerises, Parigi, 2009.