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RIFLESSO PAVLOVIANO di Andrea Zhok

Una precondizione minimale per capire qualcosa del mondo contemporaneo dovrebbe essere l’abbandono definitivo, integrale, senza remore né indecisioni dell’apparato politico oppositivo del ‘900.

Si assiste ad un tracollo sistematico delle facoltà analitiche ogni qualvolta scattano i meccanismi a molla di condanna a sinistra dei “fascisti” e a destra dei “comunisti”.

Appena qualcuno a sinistra vede profilarsi qualche tratto che evoca gli schemini “antifa” si attiva tutto l’apparato delle relative reazioni a molla (razzisti! xenofobi! intolleranti! oscurantisti! ecc.) ed immediatamente compare davanti agli occhi, come nelle immagini della Gestalt, l’intera figura del bruto squadrista, rispetto a cui per definizione non si può discutere ma solo armarsi.

E la capacità riflessiva crolla a livelli da gibbone.

Appena qualcuno a destra vede profilarsi qualche tratto che rammenta più o meno lateralmente gli schemini “anticomunisti” con relative reazioni a molla (pauperisti! mangiapreti! squallidi materialisti! espropriatori! ecc.) immediatamente la figura della guardia rossa nel Gulag appare all’orizzonte, le labbra si inarcano di disgusto e si auspica una dose di topicida.

E la capacità riflessiva si riduce a quella di un pitbull.

Sembra incredibile, ma questi riflessi condizionati funzionano ancora e fanno danni terrificanti, consentendo la sopravvivenza di una “sinistra” unificata solo dal più vieto antifascismo e di una destra unita solo dal più patetico anticomunismo.

E questo vale non solo per la sinistra o destra standard, mainstream, ma anche per quelli che si reputano coscienze critiche.

Non si può sentire gente stimabile che, davanti alle uscite della Meloni, se ne salta fuori paventando il “pericolo fascista”, perché tra una piallata alla sovranità e uno alla cultura nazionale nostra signora della Garbatella intercala qualche cliché decisionista.

Non si può proprio sentire gente seria che ad un certo punto se ne salta fuori paventando il “pericolo comunista” che sarebbe incarnato da Klaus Schwab (sulla scorta del “non avrete nulla e sarete felici”).

Sono proprio segni di infantilismo, di regressione anale, di incapacità di togliersi il succhiotto consolatorio del ‘900 di bocca.

Una regola sicura oggi per determinare che qualcuno non sa di cosa parla o scrive è vederlo giocarsi la carta anticomunista o antifascista.

Sono segni di aterosclerosi politica che bloccano integralmente ogni presa di coscienza del mondo reale che abbiamo davanti.




AD UN ANNO DALLE ELEZIONI DEL 25 SETTEMBRE di Leonardo Mazzei

Tra pochi giorni Giorgia Meloni festeggerà il primo anniversario della sua vittoria elettorale. Lo farà in una situazione tesa e difficile, con un consenso che inizia a declinare. Ma potrà farlo ancora con una certa convinzione non tanto per l’ampia maggioranza parlamentare di cui dispone, quanto soprattutto per l’assenza di vere alternative politiche.

Un anno fa, due settimane prima del voto, scrivemmo un articolo sulle prospettive che si sarebbero aperte dopo il 25 settembre, sostenendo in particolare cinque cose per quanto riguardava il futuro governo: 1) che la destra avrebbe vinto le elezioni; 2) che grazie alla legge elettorale avrebbe ottenuto una forte maggioranza parlamentare; 3) che – contrariamente a quel che in diversi favoleggiavano allora – alle porte non c’era alcun governo tecnico, bensì un esecutivo politico; 4) che i dominanti avrebbero scelto la strada del condizionamento del  governo Meloni, non quella dell’opposizione e dell’ostruzionismo; 5) che il nuovo governo avrebbe messo in campo un mix di continuità sulle cose che contano (politica economica e sociale, politica estera), limitando il “cambiamento” alla propaganda su alcune questioni identitarie (immigrazione, famiglia tradizionale, eccetera).

Sul fronte dell’opposizione sostenemmo invece tre cose: 1) che, a causa di una colpevole divisione, nessuna delle liste dell’area del dissenso sarebbe entrata in parlamento; 2) che di conseguenza l’opposizione (più finta che vera, ma questo è un altro discorso) sarebbe stata egemonizzata dal Pd; 3) che dunque bisognava rimboccarsi le maniche, guardare al dopo-elezioni per costruire una nuova opposizione all’altezza della situazione.

Questa analisi ha trovato un’ampia conferma nei fatti degli ultimi 12 mesi. Adesso, però, ci avviciniamo ad un possibile punto di svolta. Ed è su questo che vogliamo concentrarci.

Il bilancio di un anno di governo Meloni

Il colore del primo anno del governo Meloni è stato il grigio. Nel suo insieme l’economia è andata piuttosto male, ma non malissimo come si poteva ipotizzare. Il boom dei costi energetici ha drenato parecchie risorse nei primi mesi, ma poi in primavera i prezzi hanno preso a scendere. Da qui la decisione di abbandonare ogni misura calmieratrice, sia sulle bollette di gas e luce, sia sui combustibili alla pompa. Anche per questo i prezzi hanno così ripreso a salire, ma di nuovi interventi dello stato proprio non si parla più. Nel frattempo stiamo entrando in recessione, con un’inflazione che resta alta: esattamente la temuta stagflazione.

In un quadro del genere qualunque governo sarebbe già in uno stato di pre-crisi, quello presieduto da Meloni per ora no, data la pittoresca debolezza (ma potremmo pure dire assenza) dell’opposizione parlamentare.

In politica estera, la capa di Fratelli d’Italia ha messo il suo governo al servizio degli americani e delle oligarchie euriste. Su questo terreno Meloni semplicemente non ha opposizione alcuna, vista l’identica collocazione del Pd e la strutturale inconcludenza dei mal di pancia pentastellati.

Per ora l’opposizione parlamentare ha saputo prendere una sola iniziativa di un qualche rilievo, quella sul salario minimo, mentre un’altra – ma ancor più generica – si annuncia sulla sanità. Un bilancio decisamente al di sotto del più basso minimo sindacale che si possa immaginare. La fotografia di un nullismo politico senza precedenti.

Tuttavia, nonostante questo incredibile vantaggio, la maggioranza di centrodestra sta cominciando a fibrillare. Se l’opposizione dorme, i problemi politici, sociali ed economici no. Ed i nodi cominciano a venire al pettine.

In primo luogo, tutte le promesse sul fisco stanno saltando una dopo l’altra. Resta in piedi la cosa peggiore di tutte, quel percorso verso la flat tax che simboleggia il massimo dell’iniquità sociale. Ma senza risorse sarà difficile portarla avanti senza suscitare un ampio malcontento popolare.

Sull’immigrazione, il 2023 finirà probabilmente con il record degli sbarchi provenienti dall’Africa. E l’annunciata svolta repressiva ben difficilmente invertirà la tendenza attuale.

Sulle riforme istituzionali siamo molto vicini allo stallo. Lo scambio tra il presidenzialismo (ora declinato come “premierato” e voluto da Fdi) e il regionalismo differenziato sostenuto dalla Lega sembra destinato ad un binario morto. Chiaro come ne verrebbe fuori comunque un mostriciattolo, ma non è questa la ragione dell’impasse. E’ che l’autonomia differenziata potrebbe passare solo con l’iniezione di consistenti risorse che proprio non ci sono, mentre sul “premierato” si andrebbe dritti ad un referendum che (Renzi docet) potrebbe portare al naufragio dell’attuale maggioranza.

Le acque si stanno dunque agitando, anche se i tempi della crisi non saranno brevi.

Il prezzo del servilismo

L’azione del governo appare dunque paralizzata, tutta puntata a microscopiche misure di bandiera. Una merce che puoi vendere per qualche tempo nei talk show, ma che alla fine non inganna quasi nessuno.

La luna di miele di Giorgia Meloni – in realtà più lunga di quanto avevamo previsto un anno fa – volge dunque al termine. Ed il passaggio topico dell’inizio della parte discendente della parabola sarà la prossima Legge di bilancio.

Il problema per il governo è che il servilismo dà sì alcuni vantaggi – in primo luogo la copertura politica di Washington e Bruxelles – ma alla lunga impone anche dei prezzi da pagare. Nel caso specifico, la ferrea volontà di non scontrarsi con l’UE, porterà ad una Legge di bilancio austeritaria, le cui misure, al di là del giudizio su ognuna di esse, dovranno essere finanziate con ulteriori sacrifici (nuove tasse o nuovi tagli di spesa). Il tutto nella totale assenza di ogni visione strategica dell’economia e della società, che non sia la semplice riproposizione delle più trite politiche neoliberiste.

E’ chiaro come lo snodo di tutte queste problematiche sta nella subalternità alla cupola eurista. Certo, Salvini porta a Pontida lo spauracchio Le Pen. Certo, di tanto in tanto, pure Meloni prova a fare la voce grossa, ma con quale credibilità?

La verità è che i caporioni della destra pensano solo alle elezioni europee, ma non ad un vero scontro con l’oligarchia eurista. Capaci di beccarsi tra loro per qualche voto in più, Meloni e Salvini sono del tutto incapaci di una vera scelta sovranista, questo è il punto. E se la propaganda li obbliga alla polemica verbale con Bruxelles, la loro subalternità strutturale gli impedirà di passare dalle parole ai fatti.

Certo, a volte anche un conflitto solo simulato può condurre ad un autentico scontro. Ma ciò potrebbe avvenire più facilmente in presenza di una vera opposizione, che al momento non c’è.

Le ultime notizie, provenienti dal vertice dell’Ecofin (composto dai 27 ministri delle finanze dell’UE), che si è tenuto lo scorso fine settimana a Santiago de Compostela, sono piuttosto precise. Mentre c’è grande irritazione per il ritardo dell’Italia nell’approvazione delle nuove regole del Mes, quel che più conta è che il nuovo Patto di stabilità – sul quale si sta ancora trattando – avrà comunque una chiara matrice austeritaria, come già avevamo denunciato a maggio.

Di fronte alle drammatiche conseguenze che ciò avrà sulla malmessa economia italiana, il governo Meloni ha già fatto enormi passi indietro rispetto alle richieste della scorsa primavera. Di fatto non si parla più di detrarre dal deficit tutti gli investimenti del Pnrr, ma solo quelli per la digitalizzazione e per la cosiddetta “transizione ecologica”, nonché le sacre spese militari dedicate a sostenere la guerra dell’Ucraina. Dunque, il governo italiano accetta di contabilizzare tutti gli altri investimenti pubblici, non solo quelli del Pnrr, come “spesa primaria”, con la conseguenza di dover ricorrere a nuove tasse e/o nuovi tagli per rientrare nei vincoli europei. A tutto ciò si unisca la politica degli alti tassi della Bce, confermata a Santiago de Compostela con l’illuminante «dobbiamo finire il nostro lavoro» di Christine Lagarde, ed il quadro del disastro in arrivo è fatto.

Brevi conclusioni

Dal nostro punto di vista sono perciò due le conseguenze da trarre.

La prima è che bisogna costruire una nuova opposizione sistemica, alternativa tanto al governo quanto all’accozzaglia Schlein-Conte-Calenda-Renzi. La seconda è che bisogna rimettere al centro la lotta per l’uscita dall’euro, dall’Unione Europa e dalla Nato.

Naturalmente, si aprirebbe adesso il discorso di come costruire questa opposizione e di come rilanciare concretamente l’iniziativa per l’italexit. Ma per ora ci fermiamo qui, perché intanto bisogna afferrare l’esigenza oggettiva di una nuova opposizione, insieme alla consapevolezza della rinnovata centralità del nodo europeo




L’ULTIMO ERRORE POLITICO DI DIEGO FUSARO di Moreno Pasquinelli

Diego Fusaro è un pensatore di talento. Non abbiamo mai nascosto la nostra stima per il suo impegno intellettuale  e lo abbiamo sempre difeso dagli attacchi scomposti da parte dei pennivendoli di regime. Sul piano squisitamente politico abbiamo invece criticato diverse sue mosse, così come abbiamo biasimato certa sua incoerenza tra il dire e il fare.

Eravamo presenti il 14 settembre 2019 quando, in un albergo di Roma, venne fondato in fretta e furia, grazie alla regia di Francesco Toscano, Vox Italia — di cui Fusaro era l’indiscusso ideologo. Proprio Fusaro coniò il marchio di fabbrica del nuovo partito: “Valori di destra, idee di sinistra”. Un motto che in effetti rappresenta la quint’essenza del fusarismo, il suo peccato originale.

Segnalammo subito la fragilità di quella operazione politica, il carattere tautologico dello slogan (ogni valore è al contempo un’idea politica e viceversa) il quale, lungi dall’avere potenza politica e forza identitaria, si rivelava un mediocre sofisma per riciclare, sulla base di un populistico collante anti-liberale, i reduci (nostalgici) delle due grandi potenze storiche uscite sconfitte dall’epico ‘900: comunismo e fascismo. Quel 14 settembre Fusaro lo dichiarò apertis verbis: “Oggi prende finalmente vita il partito rosso-bruno”.

Lo slogan “Valori di destra, idee di sinistra” veniva presentato come  attuazione e compimento del previano rifiuto della dicotomia destra-sinistra. Nulla di più falso. Si può condividere o meno l’assunto che la dicotomia ideologica e valoriale destra-sinistra sia per sempre scomparsa, ma con essa il compianto Costanzo Preve non intendeva affatto sostenere che la soluzione teorica fosse un impossibile miscuglio di idee marxiste e anti-marxiste; o che occorresse procedere verso un oscuro  partito fascio-comunista. Preve dialogava, è vero, con intellettuali della destra radicale, ma solo per ricordare anche a loro che occorreva procedere alla sistematica decostruzione delle diverse tradizioni teoriche (marxismo incluso), opera da lui considerata indispensabile per rifondare un nuovo pensiero rivoluzionario. Lo slogan “Valori di destra, idee di sinistra” consiste in un più-più, in un’addizione di due morti che non fanno un vivo, una somma che lungi dal condurre al superamento della dicotomia destra-sinistra la cristallizza, com’è evidente, sia dal punto di vista logico che politico. Ed infatti Vox Italia ebbe vita breve, malgrado numerosi fossero stati i mitomani trionfanti che salirono a bordo del taxi fusariano — e che altrettanto velocemente e tristemente ne scesero.

Implosa Vox Italia ritroviamo il tandem Fusaro-ideologo-Toscano-presidente fondatori, nel marzo 2021, di Ancora Italia. C’eravamo pure in quell’atto fondativo, e non ci volle molto a capire che, ribadito il motto e riaggiornato l’emblema, si stavano commettendo gli stessi errori: il Fusaro-Pensiero come cifra di un populismo a scoppio ritardato in salsa rosso-bruna, a cui corrispondeva uno spiccato verticismo sul piano organizzativo, sintomo di una concezione élitista e leaderistica del partito.

Come accadde a Vox Italia pure Ancora Italia, passata l’euforia iniziale è andata in pezzi dilaniata dai contrasti interni — tra cui il violento conflitto di personalità tra Fusaro e Toscano —, accuse, controaccuse e carte bollate. Un processo di sfarinamento iniziato ancora prima della sconfitta elettorale del 25 settembre 2022, che fu solo il colpo di grazia.

Dove sia finito Toscano dopo la rottura con Fusaro sappiamo, a braccetto col vetero-comunista Marco Rizzo. Dov’è invece finito Diego Fusaro? Smessi i panni dell’ideologo esterno a pagamento è sceso direttamente in pista assumendo, per quanto ad interim, la carica di Presidente di Ancora Italia allo scopo di rilanciare la suddetta organizzazione. Vorremmo elogiarlo per questo suo gesto finalmente coraggioso solo che alla prima occasione ha compiuto una manovra spericolata che se non corregge subito lo porterà a rompersi il collo e con lui chi gli starà accanto.

Di cosa stiamo parlando? Del sodalizio, politico e organizzativo con il gruppo dell’ex Forza Nuova Giuliano Castellino, vero e proprio flagello del movimento no green pass, promotore del famigerato assalto alla sede centrale della Cgil, venuto a provocare incidenti ad ogni nostra manifestazione a P.zza San Giovanni, proferitore di pesanti minacce personali ai nostri dirigenti, accusato nello stesso ambiente fascista di essere un “infiltrato”. Ebbene, sono mesi che questo gruppo dichiara sui suoi canali social che i suoi attivisti sono entrati a far parte di Ancora Italia. Basiti abbiamo chiesto delucidazioni agli amici di Ancora Italia i quali ci hanno laconicamente confermato che “mentre Castellino personalmente, in quanto pregiudicato, non può tesserarsi al partito, non possono impedire agli altri di farlo”. Insomma, questo ingresso collettivo dei sodali di Castellino è avvenuto e sta avvenendo.

Perché Fusaro ha fatto questa mossa? Perché ha deciso di prestarsi a riciclare un losco avventuriero in servizio permanente effettivo? Frullano le risposte: per faciloneria, per avventurismo, per debolezza, per soldi, per disperazione, per tutti questi motivi messi assieme. Di sicuro alla base c’è l’ideologico peccato originale di cui sopra: l’idea neo-populista in salsa rosso-bruna, l’idea un po’ pietista di un soggetto politico che sia un rifugio di tutti i reietti del XX secolo, casa comune di diseredati sociali, di pseudo-aristocratici in disgrazia e di funzionari dello Stato declassati e scontenti.

Come che sia Fusaro e gli amici di Ancora Italia hanno compiuto un errore politico gravissimo che merita di essere biasimato e condannato. L’augurio è che essi correggano la rotta e tornino sui loro passi. Altrimenti la stessa collaborazione politica diventa impossibile.




CHI E’ IL SOGGETTO POLITICO (2) di Paolo Emilio Bogni*

Il saggio che verrà sviluppato di seguito (2 CHI E’ IL SOGGETTO POLITICO) segue quello precedente intitolato – 1 COSA E’ L’ECONOMIA e precede i cinque successivi intitolati – 3 COSA E’ LA MONETA, – 4 COSA E’ IL CAPITALISMO, – 5 PERCHE’ IL CAPITALISMO NON E’ ECONOMIA, – 6 ECONOMIA/ECOLOGIA, – 7 LINEAMENTI DI UN PROGRAMMA ECONOMICO.

Premessa

Se vogliamo che il nostro lavoro di ricerca sulla definizione del soggetto politico sia credibile, rigoroso e possibilmente privo di zone d’ombra aporetiche, dobbiamo stabilire il canonico punto zero da cui situiamo la sua origine. A seguire, come corollario di questa prima indagine, indicheremo anche il fine per il quale mondanamente (orizzonte politico storico-sociale) ed evolutivamente (verticalità ontologica) il soggetto politico esiste.

Quest’origine non può però situarsi – immediatamente – nella dimensione storico-sociale. Abbiamo già anticipato – nel primo saggio di questa collana – che l’essenza umana è fondamentalmente un respiro spirituale che precede lo spazio, la materia e il tempo. Il soggetto politico – nei fatti – è colui il quale – gettato nello spazio, nella materia, nel tempo e nel corpo biologico – è il creatore e il principale attore della Storia, ma non deve la sua essenza (l’essenza umana) alla Storia stessa. Anzi. Se l’umanità fosse un prodotto storico – e per fortuna non lo è -, essa avrebbe lo stesso destino tracciato dal destino nichilista della morte o dell’esaurimento biologico e fisico della propria parte corporea, alla stregua di tutti gli enti viventi del regno animale e vegetale.

Vedremo nei successivi saggi (il quarto e il quinto, COSA E’ IL CAPITALISMO e PERCHE’ IL CAPITALISMO NON E’ ECONOMIA) come il sistema attuale voglia scientemente ridurre il significato di essere umano proprio alla stregua del regno animale – pura istintualità – e quello vegetale – pura ripetitività – ridefinendo donne e uomini come numeri e algoritmi all’interno di un dispositivo tecnico planetario (Heidegger docet) attraverso un progetto denominato transumanesimo. Quest’ultimo è la colonna sonora ideologica dell’attuale epoca che, attraverso la risoluzione dell’umano nelle gabbie dei circuiti telematici, mira a completare – nel quadro della perseverante sussunzione della totalità sociale nel capitale – la radicale realizzazione della forma più acuta di alienazione del genere umano dalla propria essenza.

Di quanto il transumanesimo rappresenti un fenomeno ideologico imperante in quest’epoca post-moderna ne tratteremo, a suo tempo, in quelle stanze. Qui ci focalizziamo sulla ricerca dell’origine del soggetto politico (protagonista di questo secondo saggio), perché in qualche modo quell’origine rappresenta anche il fine dell’esistenza del soggetto politico stesso in quanto agente della e nella Storia. Il principio del soggetto politico – libera volontà che crea e agisce nella Storia – è quindi antecedente alla Storia stessa.

Questo assunto non può essere dimostrato – ovviamente – nei laboratori che usano il metodo sperimentale galileiano e nemmeno può sottostare a potenziali falsificabilità popperiane. Una scienza dell’origine non soggiace a protocolli che prevedono un risultato matematico-quantitativo legato a dei rapporti causa-effetto fondati su nessi logici inquadrati in paradigmi – denominati scienze sperimentali – che vogliano ricostruire regioni parziali della realtà.

La scienza che può dimostrare quell’origine ha dunque come missione quella di rintracciare la genuina fondazione del soggetto politico. Essa è la scienza dello spirito. L’intuizione – l’intuizione umana – è il suo organo principale ed è l’unico strumento che può accedere alle conoscenze di questa scienza. Le sue affermazioni sono asserti apodittici, sono assiomi da cui dedurre concetti che successivamente – da un punto di vista storico-sociale – trovano verità e conferma nello spazio e nel tempo. Ed è lì che questa scienza incontra la collaborazione e il supporto delle scienze sperimentali galileiane deputate a certificare l’esattezza di protocolli certi intorno a discipline calcolabili nel tempo e nello spazio.

Il principio del soggetto politico, la sua fondazione e la sua matrice trovano la loro radice – come in tutti gli enti viventi e non viventi, visibili e non visibili – nell’origine. Tutto è deducibile da lì. L’origine è l’Essere. Nell’affermare ciò non diciamo nulla di nuovo o originale (per l’appunto..). Anzi. Tutte le problematiche filosofiche connesse all’Essere occupano secoli e secoli di travaglio speculativo che rampollano da questo particolare oggetto d’indagine. L’Essere è la problematica filosofica (e anche politica, oltre che religiosa) di cui ci occupiamo da millenni. L’Essere in quanto principio è origine. E’ definibile filosoficamente, religiosamente, metafisicamente anche con i nomi di Dio, Totalità, Assoluto o Uno. E’ storicamente il concetto più attraente ma al tempo stesso più divisivo della Storia dell’umanità.

La centralità di esso come tema di ricerca scaturisce dalla delicatezza della sua importanza che – consciamente o meno – lo indica e lo pone come la priorità di tutte le conoscenze e sta alla base di tutte le culture e sapienze del pianeta, anche tra quelle che non sono mai entrate in contatto diretto tra loro. L’Essere è incondizionato, perfetto, eterno, immutabile, infinito e onnisciente. E non può non essere così. In quanto origine, esso comprende il tempo e lo spazio ma non è riducibile a essi se considerato nella sua totalità.

Quest’ultima è posta al di là del tempo cronologico, dello spazio materiale e della Storia, perché – in questi ultimi ambiti – gli enti, che partecipano all’Essere ma non lo sono integralmente, sperimentano la caducità, la provvisorietà, la deperibilità e la morte, quindi – pur partecipando all’Essere – sono attraversati anche dal non-essere.

Non ringrazieremo mai a sufficienza Martin Heidegger quando ammoniva che l’Essere non è l’Ente per eccellenza ma non è ente in alcun modo. Non lo è. L’Essere non è un ente. Esso è la luce che apre la prospettiva all’esistenza degli enti che a esso partecipano ma non lo rappresentano totalmente. L’Essere può esistere senza enti che lo ricerchino. Gli enti – al contrario – esistono solo alla luce dell’Essere e senza essa sarebbero nulla.

E quel particolare Ente qual è l’uomo lo ri-cerca e lo vuole, come se non ri-cercandolo e non volendolo non completasse il senso della sua esistenza. Perché? Se gli enti esistono e dunque esiste l’ente essere umano come sintesi di spirito e corpo, di natura e cultura ed esistono – ad esempio – quelle merci e quei servizi che dovrebbero essere disposti al soddisfacimento evolutivo dei suoi bisogni, perché tutti questi enti – senzienti o meno – esistono fuori e in opposizione alla perfezione, all’eternità, all’immutabilità e all’onniscienza, quantunque gli enti godano della luce dell’Essere senza la quale non sarebbero e non esisterebbero? E perché economia (vedi il saggio precedente COSA E’ L’ECONOMIA) ci dice che questo ente deve soddisfare i suoi bisogni orientando il loro soddisfacimento verso la stella polare dell’evoluzione spirituale?

Le risposte a queste domande le troviamo indagando l’Essere. Infatti, l’ente essere umano – l’umanità – è il frutto di un conflitto interno all’Essere. L’Ente non è una creazione dell’Essere, contrariamente a quanto sostengono – ad esempio – le religioni monoteistiche abramitiche (cristianesimo, ebraismo, islam). L’Ente – per quanto incosciente nei termini della sua individualità – è coeterno all’Essere e dunque è coevo a esso e non può essere una sua creatura. L’Ente è invece un’emanazione dell’Essere, una versione derubricata e coscientemente inferiore all’Uno ma non ontologicamente separata da esso. L’Essere e gli Enti (compreso l’Ente che s’interroga sull’Essere, di cui ora stiamo trattando) abitano lo stesso Mondo. Un unico mondo.

Per quanto noi siamo discepoli devoti di Platone, dal maestro ci distinguiamo (con tutta la modestia del caso che rivolgiamo nei suoi confronti) per un approccio mono-mondano. L’Essere e gli Enti differiscono e si distinguono, però, per il loro rapporto con la totalità. L’Essere è la totalità mentre l’Ente storicamente no, o lo può parzialmente essere solo a livello storico-sociale esercitando la massima attività spirituale qual è l’azione politica mentre essa umanamente realizza la Comunità secondo i decreti contenuti nella sua essenza.

L’intuizione descrive l’Essere come perfetto nella realizzazione eterna e necessaria delle Leggi che governano l’Universo infinito – che governano se stesso -, fondate su amore, unità, ordine, armonia, misura, bellezza e giustizia (Idee innate che vedremo inscritte nell’essenza umana. Più avanti ne parleremo) ma attraversato – contrariamente da quello che viene narrato da pur pregevoli e straordinarie culture millenarie – da un’assenza di pace che segna il suo intimo malessere nell’infinità della sua luce. Nel seno della sua perfezione qualsiasi dualità è ricomposta, contenuta, dissimulata, taciuta, risolta.

Nell’eterna ancorché apparente quiete primordiale, la principale di queste dualità soffocate e annullate, costituita da necessità e libertà, rappresenta iconicamente il tormento dell’Essere. L’immutabilità perfetta dell’Essere primordiale si sposa alla necessità dominante ed escludente la libertà. L’Essere è Uno. E’ la solitudine perfetta. E’ la noia perfetta del soggetto che non pensa alcun oggetto perché nulla gli si oppone come tale. L’Essere primordiale è la soggettività compiuta realizzata a se stessa. Le leggi che governano la totalità primordiale sono perfette ma non volute o frutto di scelta libera. Sono necessarie. Sono assolutamente le categorie per eccellenza dello Spirito.

Ma nell’Uno primordiale, una di queste categorie – la libertà – è repressa. Nell’Uno primordiale c’è luce, è luce, ma non c’è vita né movimento. E’ infinita energia potenziale concentrata in un infinito e eterno punto zero, luminosissimo ma statico. Quel punto primordiale è però tormentato. Quella perfezione non è la realizzazione delle Leggi universali ma ne è solo l’enunciazione, maestosa ma immobile. Non c’è realtà in quell’Essenza ma abbagliante presenza statica, quella dell’Io sono eterno. Ma è un’eternità in cui non è realizzata la verità. Quest’ultima troverà compimento quando le Leggi universali saranno consacrate dalla libertà. Ma per vivere la libertà, l’Uno deve negare se stesso e la sua assoluta singolarità. Deve negare l’immobilità del suo punto zero. L’Essere abbandona dunque la torre d’avorio della propria necessità totale. In questa ribellione interiore, il tormento dell’Essere porta all’autodeflagrazione.

Essere e il Soggetto politico

L’Essere primordiale, al culmine del tormento eterno, non annulla la necessità ma (finalmente) scioglie dalle catene la libertà che prende dimora ufficiale all’interno della totalità, rendendo viva la dualità fin lì eternamente rimossa e dissimulata. L’anelito dell’Essere è ora quello di essere potenzialmente perfetto ma nella libertà. Le sette grandi Leggi universali devono realizzare la perfezione nella libertà. L’Uno apre se stesso alla frammentazione e rapportandosi a essa le riconosce la prerogativa del libero percorso per la vera realizzazione delle Leggi universali. L’Uno si divide in infinite particelle, da quelle più sottili e vicine al punto zero – con alta coscienza – a quelle più dense e corpose e costituenti la materia – fino all’incoscienza praticamente azzerata dei minerali.

Dal big bang ontologico, l’Uno perde la solitudine e sperimenta una condizione mai percepita nel punto zero: la molteplicità. Essa è la portatrice – in alcune sue espressioni (l’umanità) – di quella libertà che è la sola condizione per rendere verità a quelle sette fondamentali Leggi universali quali amore, unità, ordine, armonia, misura, bellezza e giustizia. Il prezzo da pagare, però, è la Storia da scrivere per realizzare questo programma che è al tempo stesso di governo umano e di ricongiungimento divino. La libertà è potenzialità. Essa permette qualsiasi scelta. O l’elevazione alle vette celestiali della meraviglia contenuta in ognuna delle sette Idee (Leggi) fondamentali oppure l’oscuramento di esse e lo sprofondamento negli abissi infernali.

In un altro nostro lavoro (che esula dalla collana di questi sette saggi) – intitolato capitalismo e alienazione – tenteremo di dimostrare che l’attuale Epoca – denominata post-moderna e caratterizzata dal drammatico passaggio dall’ultimo umanesimo al transumanesimo – è il palcoscenico terminale con cui l’umanità vorrebbe portare a termine il progetto della propria estinzione di specie. La libertà ha anche la potenzialità di radicalizzare il processo di alienazione totale dalla propria essenza in cui un’umanità è disperata dall’idea di risalire all’Uno e dove destina se stessa al suicidio. Nella Storia – a seguito del big bang ontologico – vengono sdoganate altre dualità che dalla notte dei tempi segnano il cammino del racconto umano. Quella del bene-male è generata dal rapporto che l’uomo ha con le proprietà delle sette idee innate (vedremo tra poco a proposito del primo topos dell’essenza umana) che sono l’eredità del padre (Uno) che ogni particella umana contiene nella propria matrice spirituale proveniente da quell’ancestrale deflagrazione.

Di tutti gli Enti, che sono la versione storica delle particelle originate dall’autodeflagrazione, l’essere umano è quello che coglie se stesso come l’unico che può interrogarsi su chi sia la luce che dà corpo alla sua esistenza; su quale rapporto abbia con quella e quale funzione abbia quella luce rispetto alla progettualità della sua esistenza; soprattutto – la più sconvolgente delle interrogazioni – quale sia il motivo (a cui noi abbiamo umilmente risposto in anticipo con una Tesi che stiamo qui sviluppando) della separazione tra la unica e statica sorgente luminosa che tutto comprendeva e se stesso (l’uomo e il mondo abitato) che gode di riflesso di quella luce. In questa riflessione – non solo energetica, ma anche da intendersi come movimento di pensiero – ci sta anche l’emersione di un’altra dualità, tipica della Storia: quella tra soggetto e oggetto.

A un livello alto in cui è considerata questa dualità vi è l’autocoscienza in quanto attraversamento del pensiero su se stesso in prima istanza oggettivato come momento di studio, attenzione, indagine. Oppure la dinamica espressa dalle scienze (sia quelle sperimentali che quelle sociali) in cui il pensiero e le sue strutture s’immergono nel fenomeno da ricreare sperimentalmente. A livello relazionale – invece – c’è la comparsa dell’altro che genera un’ulteriore dualità quale quella che contrappone l’io al noi. A questo livello l’essere umano è zoon politikon e – dei suoi risvolti -tratteremo più avanti. Ognuna di queste dualità – nel punto zero primordiale – erano semplicemente inconcepibili. Il tormento dell’Essere le ha disingessate, soprattutto nell’anelito della libertà- dando luogo contemporaneamente alle neonate molteplicità, diversità, alterità e alla comparsa della parola, del logos.

L’essere umano – a questo stadio – diviene zoon logon echon, che anticipiamo essere argomento anch’esso di futura descrizione. L’Essere rimane sempre uno stato incommensurabile rispetto agli enti (nella sua totalità è – in ultima analisi – eterno, infinito, immutabile) ma sull’onniscienza divina dell’Essere bisogna che anche l’Ente essere umano faccia chiarezza. L’onniscienza divina dell’Uno non può allargarsi alla dimensione del futuro in quanto la libertà pregiudica ogni scienza che si rivolga a un tempo non ancora compiuto, e questo vale sia per le scienze sperimentali (che possono prevedere staticamente – a partire da dati e categorie del passato – un singolo fenomeno o un insieme circoscritto di essi, ma non il quadro generale complessivo del mondo cosiddetto naturale, pur dominato esso dalla necessità) che – soprattutto – per la scienza dello spirito – e qui torniamo all’Essere integrale -, in quanto quel tormento che esigeva la libertà è spiritualmente la prova provata che il futuro come luogo del sapere è un’assurdità. E’ un non-essere sul quale l’Essere non ha né competenza né desiderio.

L’idea che un Dio conosca il futuro è il frutto della paura paralizzante che attanaglia l’essere umano dall’istante successivo al big bang ontologico. L’Uno eterno e necessario non era futuro né aveva futuro ma dimorava in un presente astorico e fuori dal tempo. l’Uno deflagrato convive con la molteplicità che gestisce il sapere tra il presente storico e le epoche che gli stanno alle spalle, vale a dire il passato. Non esiste alcuna scienza esatta sul futuro in quanto contrasterebbe con la libertà di cui una parte degli Enti godono, soprattutto il genere umano. Il futuro è da scrivere spiritualmente e storicamente, nella più pura potenzialità, né scritta né anticipata necessariamente.

L’Essere non è deflagrato per corrispondere al divenire ponendo esso nelle maglie di una necessità riveduta e corretta o mascherata sotto le mentite spoglie di una libertà pilotata o eterodiretta da “sacre scritture” o dottrine storicistiche preveggenti il futuro. Quante dottrine anticapitaliste portano in sé il germe dello storicismo! Non funziona così, con buona pace tanto per i materialisti atei delle magnifiche sorti progressive illusi che nella Storia vi sia un nesso globale oggettivo per il quale l’umanità – progredendo nel bene – giunga a un paradiso in terra, quanto per gli “spirituali” devoti e rivolti al dio consolatorio dell’al di là che cura il male dell’al di qua promettendo redenzione e gloria nel paradiso dei cieli. Fosse così semplice, sia nel primo caso quanto nel secondo.. Invece, cari lettori (sperando siate giunti sin qua) la Storia siamo noi con la nostra volontà e con la nostra libera scelta. Assumiamocelo – una buona volta – questo preciso impegno.

La condizione strutturale del genere umano è dunque situata su un piano di piena assunzione di questa responsabilità, ove nessuna esternità (la Storia autonoma o il dio consolatorio) salva l’umanità dalla propria alienazione, voluta e inconsciamente progettata, come vedremo nei saggi successivi. E di questo fatto, un soggetto politico che deve organizzare politicamente economia nella propria Comunità deve fondamentalmente tenerne conto. E deve tenere conto da dove egli proviene – ontologicamente – al fine di definire antropologicamente quali siano i prerequisiti per affrontare la sua vicenda storico-sociale in funzione della propria emancipazione (sul piano mondano) e la propria evoluzione sul piano spirituale. Soprattutto deve definire il rapporto intercorrente tra il genere umano e quel punto zero (origine) denominato Essere.

Negando l’eterna e totale necessità e uscendo da quel punto zero di perfetta immutabilità, l’Essere primordiale – scatenando la libertà – placa il suo tormento che ora però (nella Storia, nel tempo, nello spazio, nella materia, nei corpi) sposta quell’ancestrale “disagio” sull’Ente – l’essere umano – a lui più somigliante e simile e a più alta coscienza. Ora è l’Ente che vive storicamente una tragedia. Con la bicicletta della libertà deve pedalare in mezzo all’inevitabile morte, alla provvisorietà, alla precarietà, alla sofferenza, alla fatica e al dolore. In mezzo a questa valle di lacrime – per dirla con un’immagine cara ai nostri amici cristiani -, l’essere umano, attivata la memoria ancestrale anche solo momentaneamente a sprazzi o solo per alcuni istanti, ricorda quello stato di quiete e immutabile perfezione che dimorava là in quel punto zero primordiale. E in questo ricordo prova il sentimento più struggente, cieco e sublime. Non lo sente in modo sempre conscio o nitido. Ma esso lo scuote e modula il respiro sino agli stadi più rarefatti dell’atmosfera. Egli prova la nostalgìa. La nostalgìa di una casa di cui non recupera alcuna immagine ma solo frequenze sottili a cui vibra la propria coscienza più profonda. Non è un ricordo fotografico. E’ un ricordo emotivo.

E’ la nostalgia dell’Assoluto. L’essere umano intuisce che egli è il frutto di quell’arcaica e immutabile perfezione e ne anela – molto spesso inconsciamente – il ricongiungimento. Muove un desiderio che si trasforma in un potenziale progetto: il ritorno a casa. Percepisce che non lo può fare nella materia che – presa a se stante – è il regno della necessità. Non può compiere quel viaggio con qualsivoglia modalità. No. E’ un viaggio particolare. Questo viaggio è un lungo percorso a tappe ove potenzialmente, progressivamente o regressivamente c’è l’obiettivo dell’ascensione.

E’ un viaggio che può condurre alla méta come può precipitare negli abissi del nulla. E’ il viaggio della libertà. E’ il viaggio che attraversa la materia, i corpi e il tempo. E’ il viaggio verso l’elevazione della coscienza e una scalata ai livelli superiori dell’Essere. E’ un percorso ove mondanamente la dimensione storico-sociale deve essere il luogo della realizzazione delle Idee innate nella matrice spirituale umana, soprattutto nell’apoteosi della settima e ultima Idea, quella della giustizia, stella polare della massima attività spirituale qual è la politica. E’ un viaggio ove l’essere umano sperimenta l’olismo come modalità e anche principio filosofico ove riconosce alla propria totalità corpo-spirito, alla totalità storico-sociale e all’interazione con la natura ambientale un’armonia tra le parti che non è rappresentata dalla mera somma algebrica di esse, riconoscendo in queste totalità il raddoppiamento metaforico di quella ancestrale totalità perfetta situata in quel punto zero oggetto di nostalgia. Un percorso ove ogni uomo deve cooperare con un altro uomo per solidarizzare intorno al proprio status di viaggiatore dello spirito e non un precario nella materia ove si compiono divisività, separazioni, competizione e prevaricazioni. E’ un percorso ove mondanamente al tempo stesso è sublimata la materia come banco di lavoro per la realizzazione delle Leggi sacre elevate alla massima espressione – con appunto la giustizia a fare da compendio – e il contemporaneo inizio del distacco da essa e il superamento graduale delle sue trappole seduttive.

L’attaccamento alla Storia, alla materia, ai corpi costituisce un impedimento al Ritorno a casa e rappresenta un’anticamera della morte eterna. Quel ritorno a casa è la risalita all’Uno. Come abbiamo visto, l’Essere illumina gli enti. Senza quella luce essi sarebbero inesistenti. Ma quell’Ente a lui più vicino – vicino alla sorgente luminosa da cui è partita la deflagrazione – accoglie le vibrazioni di quell’ancestrale tormento, paragonabile a quella radiazione fossile diffusasi in ogni angolo dell’Universo ancora presente in sottofondo a distanza di miliardi di anni da quell’evento da cui nacquero galassie e stelle. Quel tormento è una richiesta di aiuto che specularmente ben si concilia con la brama del ritorno a casa della matrice spirituale umana. E’ come se due innamorati telepaticamente – nell’immensità cosmica – si mandassero segnali di richiamo con i quali trasmettersi reciprocamente il desiderio di riconciliarsi.

Quella risalita all’Uno è realizzata solo nell’evoluzione dell’essere umano ora incarnato nella terra di mezzo. Non costituisce solo un viaggio alla spasmodica ricerca dell’Essere perduto. Lo è ma non solo. Quella risalita all’Uno da parte dell’essere umano, quel ritorno alla casa del padre, rappresenta la salvezza dell’Uno stesso, dapprima condannato (nella notte dei tempi) alla solitudine eterna di un Soggetto senza alcun oggetto e ora dannato – avendo liberato la libertà – nella separazione dal molteplice e spettatore impotente di un vaso di pandora scoperchiato e non più dipendente dal proprio controllo.

L’Essere è pur sempre la totalità e pur sempre illumina gli enti e illumina quell’Ente – l’Essere umano – ma è separato da esso. E quest’ultimo – beneficiario della libertà – è l’unico che può creare nella volontà autonoma la dimensione realizzata e concreta delle sette Idee che fondano le Leggi sacre universali. Ecco perché le sette Idee innate sono reali. L’essere umano ha dunque questa enorme responsabilità: nel ridefinire – nel divenire – l’Essere diviene esso stesso l’Essere abbracciandolo nella libertà. E i due innamorati tornerebbero – se l’uomo vuole – Uno. L’Ente e L’Uno sono dunque in una corrispondenza biunivoca che li lega nella prospettiva del comune obiettivo. La salvezza dell’Essere. Perché l’estinzione del genere umano (a differenza dell’estinzione del leopardo o del faggio) rappresenterebbe un degrado assoluto dell’Essere stesso. Nel prosieguo del saggio scenderemo più nei dettagli su quali siano le strutture dell’essere umano, della sua natura e della sua essenza. Descriveremo le proprietà del corpo e quelle dei tre topos della sua matrice spirituale incarnata nello stesso corpo e nella Storia. Questa complessa descrizione la riteniamo fondamentale e propedeutica a delineare gli attributi e i contenuti dell’essere umano inteso come soggetto politico.

Struttura del Soggetto politico

Nel primo saggio abbiamo elaborato una definizione del concetto di economia. E da lì ripartiamo. Economia è – sostanzialmente – l’organizzazione etica garantita dalla Politica in merito al soddisfacimento evolutivo dei bisogni sobri, essenziali e creativi di cui è portatrice una persona con la sua Comunità. Economia è l’Oggetto di quel particolare Soggetto (essere umano comunitario) latore di quei bisogni da soddisfare evolutivamente. Ed è su questo punto che lavoreremo in questo secondo saggio. Esso (il Soggetto da indagare) risulta dal particolare sinolo tra corpo e matrice spirituale.

Questo sinolo è altrimenti conosciuto come Natura umana. L’Essenza della Natura umana è il secondo elemento del sinolo – lo spirito – rappresentato dalla matrice che s’incarna nel corpo. Come specificato nel precedente saggio (1 COSA E’ L’ECONOMIA), il rigore logico della nostra analisi complessiva (lunga sette saggi) avrebbe imposto la precedenza all’analisi preliminare sulle peculiarità e caratteristiche fondamentali del soggetto. La precedenza non era dovuta tanto e solo a una questione di priorità ontologica. E’ il soggetto – infatti – che pensa e agisce la Realtà, non certo l’oggetto da esso posto. Essa rappresentava un obbligo anche – e soprattutto – perché ogni e qualsivoglia oggetto storico-sociale (e dunque politico) è la proiezione del pensiero e dell’azione del soggetto e dunque il risultato della sua valutazione ed aspirazione etica legata a una potenziale esigenza evolutiva da considerare al fine stesso del suo essere posto nel mondo.

L’oggetto – infatti – è sempre un dopo del quale – nelle implicazioni – ne va sempre del senso stesso del soggetto che lo pone in quanto perimetrate all’interno di quelle esigenze evolutive e di quelle aspirazioni e valutazioni etiche di cui sopra. L’economia è dunque un oggetto politico posto e prodotto dall’essere umano e tutto ciò che riguarda economia è interamente riguardante l’essenza e l’attività dell’essere umano.

In Essere e Tempo, Martin Heidegger ha aperto la via a questa metodologia, anche se ridurre l’Essere da lui indagato a oggetto dell’Esserci (dasein) è ovviamente una forzatura se non addirittura un’inesattezza. A noi, però, interessa il metodo. Se la stessa indagine ontologica era svolta dall’Esserci heideggeriano (Essere umano nella sua singolarità) e Heidegger sentì la necessità di quel tipo di analisi preliminare su esso, a maggior ragione noi – che indaghiamo molto più “semplicemente” l’oggetto economia – dobbiamo ribadire il primato ontologico dell’essere umano quale indagatore di oggetti – i suoi – e conservare la preliminarità dello studio basico degli elementi fondamentali di cui è costituita la propria Natura umana.

Per comprendere l’economia, dunque, il soggetto economico (essere umano comunitario) deve prima comprendere se stesso in quanto soggetto che problematicamente si pone la ricerca della definizione concettuale dell’oggetto pensato e agito. Soprattutto – indagando preliminarmente il soggetto –, dobbiamo scoprire donde in esso sono originate le esigenze evolutive, la naturale valutazione etica della dimensione storico-sociale e l’aspirazione etica a (potenzialmente) trasformarla verso il bene e ricordando come questi fondamentali stiano alla base della produzione di quel particolare oggetto posto denominato economia.

La Natura umana è perciò l’unione tra un corpo fisico e biologico con una dimensione spirituale che fondamentalmente la definisce. Corpo e spirito sono complementari e vivono in una perenne – storicamente parlando – corrispondenza biunivoca ove la salute dell’uno dipende vitalmente dall’altro e viceversa. Perché, malgrado l’interdipendenza, l’essenza della Natura umana risiede però nello spirito e non nel pur importantissimo corpo? Perché lo spirito ha un respiro infinito e la sua più alta espressione – il pensiero – ha la straordinaria capacità di astrarre concetti e oggettivarli problematicamente, trasformando liberamente e potenzialmente la realtà in cui dimora la Natura umana in forza dell’elaborazione e l’applicazione di essi.

L’astrazione del pensiero è la prima e più importante metafora con cui lo spirito coglie la propria dimensione infinita e potenzialmente eterna. Esso – attraverso l’inesauribile agire – trascende il finito, il luogo della Storia e della morte, ove la dimensione del corpo è soggetta alla deperibilità, alla necessità delle leggi biologiche e all’intrascendibile aspettativa della propria fine data dal decesso inevitabile. Lo spirito potenzialmente sublima la Storia, accoglie i cicli e nobilita la morte.

Il corpo è il tempio dello spirito incarnato e lo custodisce – pur nella finitudine – nella materia dello spazio e del tempo. Il soggetto che ora analizzeremo – di base un essere umano comunitario – è dunque da definire più complessivamente in relazione al suo oggetto problematicamente posto. Il soggetto da noi preso in considerazione è colui il quale esprime una serie di bisogni da soddisfare non casualmente ma evolutivamente attraverso un’organizzazione comunitaria che ha la sua cabina di regia nella Politica, la quale è la garante etica anche di altri ambiti comunitari (educativi, politici, ecologici, sanitari, geopolitici,..) che non quelli strettamente legati al pur evolutivo consumo. In questa complessa maglia di confronti, azioni, decisioni, valutazioni etiche e rapporti sociali e diplomatici, è la Politica che incorpora e subordina a sé il senso e l’indirizzo da dare all’organizzazione etica di quella particolare soddisfazione evolutiva.

L’economia, perciò, non è un compartimento stagno separato dalla complessa maglia storico-sociale a cui partecipa la comunità di appartenenza del soggetto. Quando dunque parliamo di un’organizzazione del sistema dei bisogni non possiamo rivolgerci semplicemente e superficialmente a un generico soggetto economico, ma a un vero e proprio soggetto politico. Anzi, un soggetto economico (a meno che si aggiunga qualche aggettivo derivato dalla comunità o qualcosa di simile) semplicemente non esiste. Latore dei bisogni sobri, essenziali e creativi è dunque il soggetto politico. E la sua essenza – come detto – è lo spirito, il quale è deputato all’educazione, alla valutazione etica della propria epoca storico-sociale e all’evoluzione. Lo spazio, il tempo cronologico, la Storia, la materia e il corpo sono formidabili banchi di prova per l’umanità. Nessuna di queste dimensioni portano però nel loro grembo potenzialità evolutive che indirizzino al Bene. E’ lo spirito che si occupa del bene e la massima attività spirituale è la Politica.

Essa, come abbiamo già anticipato in questo e nel precedente saggio (COSA E’ L’ECONOMIA), è quel respiro dello Spirito che rende la mondanità storico-sociale aderente e coerente alla matrice della Natura umana, in cui sono iscritte (innate) le sette principali Leggi che governano la Totalità dell’Universo e – nella proiezione storico-sociale – le relazioni comunitarie della cosiddetta Polis. La scienza operativa della Polis è la Politike che è il termine greco antico da cui provengono il senso e il significato della parola politica. Essa è dunque la Scienza operativa che attiene alla relazione tra due o più monos (singola persona, singolo cittadino) all’interno di una Polis (incontro di due o più monos).

La Scienza operativa della relazione tra due o più monos (politica) è liberamente orientata alla realizzazione delle potenzialità delle Idee innate presenti nella matrice spirituale, che d’ora innanzi chiameremo Idee Reali in quanto è nella realtà storico-sociale che esse si realizzano concretamente e attualmente. La Polis come luogo d’incontro, d’interazione e di sinergia tra due o più monos prende il nome – come già visto nel primo saggio – di Oikos (Comunità). Così come già illustrammo in quei passaggi che ogni monos è naturalmente portatore di bisogni sobri, essenziali e creativi e il soddisfacimento di questi è naturalmente oggetto d’analisi e attuazione di una particolare Scienza interna alla politica. Essa è l’Oikos-nomos (eco-nomia) ed è il nomos (legge, ordine) dell’Oikos (comunità).

Ecco spiegato perché naturalmente la politica ha il primato sull’economia, perché quest’ultima è fattore interno, parzialità sussunta e strumento operativo della scienza etica della relazione tra due o più monos, ovvero di una Comunità di persone. La politica è la Scienza etica delle scelte eco-nomiche. La politica è la Scienza dell’umanità intesa come relazione tra donne e uomini che tendono alla realizzazione della propria Natura umana. La politica è la Scienza agita dallo zoon politikon aristotelico in quanto uomo naturalmente comunitario e sociale.

Il livello supremo che incarna la dimensione politica è lo Stato, un noi comunitario organicamente costituito da Istituzioni che realizzano e garantiscono sostanzialmente sette sovranità fondamentali senza le quali lo Stato non è Stato e semplicemente non è. Nella sua genuina definizione, all’oggi – in questa Epoca – lo Stato praticamente non esiste in tutto il pianeta, a parte rarissime eccezioni e nessuna presente nel cosiddetto occidente americanocentrico. Quali sono le sette sovranità fondamentali per le quali è confermata la teoria – e con essa la prassi – che lo Stato incarni la politica di un Popolo libero, indipendente, autonomo e – per l’appunto – sovrano? Esse sono le sovranità di questi ambiti: politica, militare, economica, monetaria, alimentare, sanitaria e educativa. Queste sette fondamentali sovranità sono la proiezione delle sette Idee innate inscritte nella matrice spirituale umana che si collegano all’elenco da poco indicato con unità (politica), ordine (militare), giustizia (economica), misura (monetaria), armonia (alimentare), bellezza (sanitaria) e amore (educativa). Nulla – idealmente – si trasforma storicamente o s’indirizza eticamente se non attraverso la politica. Il soggetto politico è dunque la proiezione storico-sociale in ambito comunitario della Natura umana. Essa è l’incontro e la momentanea fusione (dalla nascita alla morte) tra il corpo e la matrice spirituale. Cominciamo ora dal primo elemento di questa fusione situato al livello inferiore: il corpo.

Il Corpo

Il corpo è l’espressione della materia, ovvero il grado inferiore dell’Essere. Ciò non vuol dire (riferendoci all’aggettivo inferiore eventualmente inteso come diminutio) che non abbia la sua notevole importanza. Esso è la sede di tutti gli aspetti cognitivi attraverso i quali il pensiero si esprime in tutte le sue articolazioni. E’ il medium tra la libertà d’azione spirituale e la necessità della sopravvivenza della singola persona. Senza il corpo non ci sarebbero presenza (qui e ora), esistenza (trasformazione), Storia (dispiegamento del pensiero umano creativo) e potenziale evoluzione da parte del genere umano. Il corpo è fondamentalmente disposto dalla necessità (fisiologica, biologica,..), cioè da leggi indipendenti dalla volontà libera. Esso è precario, soggetto a invecchiamento e decadimento progressivo. Esso è mortale e finito.

A dimostrazione però di quanto corpo e spirito si condizionino e dialoghino tra loro implicandosi a vicenda, la malattia del corpo (sia fisica che psichica) può avere una genesi anche dagli scompensi dovuti al livello psichico e spirituale. Il corpo – e in questa veste ricopre un ruolo di straordinaria importanza – è il vettore in cui s’incarna l’Energia della Matrice spirituale (vedremo tra poco le strutture energetiche, il secondo topos della matrice spirituale). Fondamentale è riconoscere che la Natura umana è Energia. Essa è pensiero che crea e lavoro che trasforma.

L’Energia è dunque il presupposto indispensabile – a noi potenzialmente disponibile! – per l’agire rivoluzionario a livello storico-sociale. L’energia è il motore del pensiero che crea (elaborazione teorica) ed è il motore del lavoro che trasforma (prassi rivoluzionaria). L’essere umano è una struttura complessa composta da diversi livelli energetici corrispondenti ai diversi livelli dell’Essere e del suo Essere situantesi tra il livello inferiore della materia (corpo) e quelli più sottili ed elevati degli stadi superiori e spirituali con tutte le possibilità di evoluzione.

Il corpo è il medium per i diversi livelli di energia portati dallo spirito quale manifestazione delle sette strutture energetiche, il secondo topos dell’essenza umana ed è integrato nel Logos quale espressione molteplice delle attività spirituali creatrici, il terzo topos (idem come sopra per le strutture energetiche), argomento che caratterizzerà la costituzione della Natura umana come Natura storica. Il corpo è il tempio dello Spirito e deve essere oggetto di cura costante. Questo tempio deve potenzialmente durare un lungo arco temporale per permettere allo spirito di portare a compimento i suoi potenziali obiettivi, sia quelli che competono eticamente all’orizzontalità storico-sociale tanto quelli deputati all’elevazione nella dimensione della verticalità ontologica. Il corpo deve essere solido, bello, sano e accogliente.

Il corpo deve avere una presenza esteticamente gradevole e deve essere accudito anche nella forma. La trascuratezza estetica del corpo è l’anticamera dell’oscurità dello spirito. Il corpo deve essere curato nel metabolismo e dunque nutrito con un’alimentazione sana e corretta. Il corpo deve essere il medium di una sessualità che connetta con il piacere evolutivo e che si predisponga, altresì, alla riproduzione della specie. Il corpo deve essere attivo fisicamente in modo tale che tutti i suoi organi funzionino al meglio e nella salute. Il corpo deve collaborare con lo spirito per una crescita evolutiva in una dimensione olistica ove il Tutto ricomprenda e unifichi ogni singola (e solo apparentemente divisa) parte.

La fusione corpo-spirito è la prima metafora della particolare dimensione che inquadra armonicamente l’unità olistica, la quale definisce la totalità dinamica di ogni elemento della natura umana tale per cui ogni essere umano è impensabile se non in relazione a tutte le proprie caratteristiche (pure quelle inerenti al connubio corpo-spirito). Ma anche in relazione – l’essere umano comunitario – all’altro e cioè gli altri esseri umani, gli altri esseri viventi, quelli non viventi, a quelli visibili e non visibili, al pianeta (oikos come madre terra) nella sua globalità e l’universo tutto. La dimensione olistica dell’Essere (la totalità – l’Uno – in rapporto al molteplice e il molteplice in rapporto alla totalità) è la medesima dimensione olistica del nostro essere (umanità in rapporto al mondo e il mondo in rapporto all’umanità).

Il secondo e fondamentale elemento d’analisi per definire il soggetto politico, ovvero l’essere umano comunitario, è la matrice spirituale.

La Matrice spirituale

La matrice spirituale ha una maggiore complessità d’analisi rispetto al corpo. La Natura umana – ricordiamolo – è l’incontro tra questi due elementi. La Matrice spirituale, però, – senza nulla togliere all’importanza del corpo – ne rappresenta il principio il quale è da noi definito con il termine di essenza umana. Essa rappresenta il grado superiore dell’Essere per ciò che concerne la sfera dell’umanità. Del corpo abbiamo poc’anzi detto e scritto. Della matrice spirituale (o essenza umana) – di cui ora ci occuperemo nello specifico – sono tre i topos che analizzeremo in profondità con due prerequisiti indispensabili da chiarire come premessa. Lo spirito ha infatti due qualità totalmente assenti nella materia e nei semplici corpi biologici: la libertà e la coscienza.

Con libertà (primo prerequisito fondamentale) intendiamo quell’esclusiva predisposizione che possiede l’essere umano (e la sua Natura) quando fondamentalmente riconosce – intuitivamente – una dualità etica intorno alla coppia irriducibile e alternativa di bene e male. Come corollario immediato a questa prima intuizione, la libertà è il riconoscimento della possibilità di scelta tra questi due poli assolutamente inconciliabili e alternativi. Il bene è la conservazione nella vita comunitaria storico-sociale dei valori espressi da sette Idee innate reali (vedremo poco oltre) e cioè l’amore, l’unità, l’ordine, l’armonia, la misura, la bellezza e la giustizia. Per male, s’intende la negazione nella Realtà storico-sociale comunitaria dei valori espressi da queste sette Idee innate reali. La libertà è il riconoscimento che lo spirito è dimensionato dal mondo dei fenomeni retti dalla necessità. Lo spirito, inoltre – incarnato nel corpo – sperimenta la finitudine. La libertà è – kantianamente – l’indipendenza della volontà dal mondo dei fenomeni. Nel mondo delle relazioni storico-sociali, però, la volontà è libera quando c’è il riconoscimento che la possibilità è potenzialità e dunque creazione.

Per coscienza (secondo prerequisito fondamentale) intendiamo fondamentalmente quattro cose: la prima è che il pensiero umano coglie se stesso come atto puro dello spirito. In questa prima fase, la coscienza – rientrando dall’attraversamento degli oggetti da essa posti – diviene autocoscienza. La seconda è che il pensiero libero muove la volontà creativa e trasformativa della realtà secondo gli essenziali dettami della matrice spirituale. La terza è che il pensiero riconosce se stesso come potenzialità. Tanto è maggiore il grado di questo riconoscimento, tanto maggiore è la coscienza e quindi maggiore è – per una persona, una comunità o un popolo – il potere creativo di plasmare, costruire, produrre, edificare Realtà storico-sociali secondo Natura e cioè secondo il Bene. La quarta è che la coscienza è sinonimo di consapevolezza di discernere liberamente tra Bene e Male e indirizzare il senso dell’esistenza (personale e comunitaria) in opposte direzioni. Soddisfatta la disamina sui due prerequisiti fondamentali dell’essenza umana, anticipiamo in sintesi i tre topos di cui è animata la matrice spirituale.

Primo topos: Idee innate come nucleo della Matrice spirituale

Il primo topos riguarda un ambito che è radicalmente atemporale e metastorico e costituisce il nucleo profondo della matrice spirituale quale essenza dell’Essere umano. Questo nucleo racchiude le Leggi universali che governano il tutto e rappresentano la radicalità dell’Essere. Queste Leggi costituiscono l’essenza della nostra matrice e precedono sia il corpo che – soprattutto – la Storia.

Queste Leggi universali che governano il Tutto, la totalità, il cosmo, sono presenti nella nostra matrice spirituale nella forma di archetipi, in qualità di modelli formali intorno ai quali – in libertà e coscienza – l’essere umano può plasmare e creare la Realtà. Questi archetipi – incontrando il corpo – si presentano come energia (secondo topos) e come parola, verbo, logos (terzo topos). La distinzione tra i tre topos non è però assolutamente da intendersi nei termini di un’inesistente tappa cronologica scandita da diversi momenti, ma solo di diversi livelli dello stesso Spirito in movimento simultaneo (sono, esisto, creo) nel potenziale percorso evolutivo all’interno dell’Essere. Questi archetipi hanno dunque il dono dell’eternità, dell’a-temporalità e dell’a-spazialità. Entrano nel tempo, nella Storia, nello spazio, nella materia e nel nostro corpo attraverso lo Spirito e – in particolare – nel singolo spirito di ogni singola persona. In sé, ogni archetipo non è corruttibile né riducibile al nulla in quanto – fondamentalmente – non è Storia né – tantomeno – un prodotto storico.

Quando a suo tempo parleremo di nichilismo, tratteremo del nulla in quanto risultato terminale di un’Epoca che si allontana radicalmente da esse, ma non parleremo della distruzione (impossibile) di esse. Se l’Essere (Dio, Principio, Uno, Tutto,..) rappresenta la totalità perfetta in cui esse sono espresse e manifestate, dimostreremo che il nichilismo è la sublimazione del non-Essere. Ma in quanto tale, L’Essere esiste e sempre esisterà. Tormentato o separato dalla molteplicità. Ma esiste sempre. Semmai è l’umanità che deve decidere se vuole esistere oppure no. A suo tempo, però, completeremo questo discorso (qui per sommi capi solo anticipato) e che complessivamente è inquadrato in un’analisi economico-politica.

Queste Leggi (archetipi) sono le sette Idee innate reali e si rappresentano come amore, unità, ordine, armonia, misura, bellezza e giustizia. Esse non sono prodotti storici ma sono il potenziale contenuto nella nostra essenza per dare forma alla Storia. Con queste Idee l’essere umano potrebbe potenzialmente creare realmente una comunità umana simile all’universo divino e alla sacralità delle sue Leggi. Potrebbe (e non “deve”), perché la potenzialità è disponibilità in funzione della libera volontà. Queste sette Idee innate reali simboleggiano la carta d’identità dell’essere umano. Queste sette Idee innate sono reali perché l’essere umano che vuole liberamente realizzare se stesso deve concretizzarle storicamente nella creazione di comunità umane secondo la propria Natura, pena l’insorgere di quel fenomeno (di cui ci occuperemo a suo tempo) distruttivo che prende il nome di alienazione. Essa – in una prima definizione generalissima – è l’allontanamento dell’essere umano dalla propria essenza e cioè – fondamentalmente – dalle sette Idee innate reali. Queste sette Idee innate sono il contenuto a-storico portato in dote dalla matrice spirituale e la cui esistenza prescinde dal corpo in cui la matrice s’incarna. Le sette Idee innate reali, che rappresentano il primo topos dell’essenza umana, sono le seguenti:

1 – Amore – L’Idea di Amore è espressa mirabilmente nella metafora della luce, manifestazione del movimento energetico disinteressato, omnidirezionale e propagatore del calore, della passione e della luminosità. La luce – amore – è energia in movimento. L’amore è il movimento di energia verso l’altro, con l’altro e per l’altro, sia esso un essere simile, un essere vivente o un essere non vivente. E’ l’aver cura e il prendersi cura degli altri come altro da me inteso come altro me ma che non è me. L’Amore è la compassione verso l’altro simile in quanto còlto (potenzialmente) nel comune destino evolutivo transitante nella Storia attraverso la gioia e la sofferenza. E’ l’Idea della donazione gratuita, totale e disinteressata di sé rivolta all’altro anche nella comunanza di esperienze, per la crescita e l’evoluzione propria e degli altri.

2 – Unità – E’ l’Idea della consapevolezza dell’appartenenza di ogni singolo ente (essere umano in primis) alla totalità assoluta, all’Uno. Essa è il presupposto del principio olistico ove la parzialità si coniuga alla totalità e la totalità è l’espressione organica delle parzialità. Ove la singola persona si coglie e si completa nel Tutto. Nella sfera politica, l’unità è la condizione del completamento comunitario del singolo nella dimensione storico-sociale. Il principio olistico così inteso nelle sue due diramazioni sta alla base del concetto stesso di persona. Essa è l’espressione della singola matrice spirituale fusa in un corpo che è collegata organicamente – anche nella dimensione del progetto – a tutti i livelli superiori dell’Essere. Una matrice spirituale e un corpo disancorati dall’aggancio ai livelli superiori dell’Essere e quindi preclusi a un percorso evolutivo fanno della (non) persona un semplice individuo dedito esclusivamente alle semplici pulsioni animali e emozioni da “vivere” in una dimensione prettamente materialistica, solipsistica, egoica e monadistica. La fotografia, cioè, di quello che resta dell’attuale essere umano di questa epoca ultima.

3 – Armonia – Essa è l’Idea che manifesta la virtuosa complementarietà delle vocazioni, dei ruoli e dei compiti di ogni ente (e di ogni singola persona) nel quadro della totalità delle relazioni sia tra umani – contesto storico-sociale – che tra umani e universo tutto (ambiente, pianeta, cosmo).

4 – Ordine – E’ l’Idea che indica la costituzione gerarchica spirituale – in un modello organico – della virtuosa complementarietà delle vocazioni, dei ruoli e dei compiti di ogni ente (e di ogni singola persona) nel quadro della totalità delle relazioni sia tra umani – contesto storico-sociale – che tra umani e universo tutto (ambiente, pianeta, cosmo).

5 – Misura – Essa è l’Idea del metron aristotelico. E’ la finitudine etica che costituisce il senso del limite tra sé e l’infinito attraverso la mediazione, l’incontro e il confronto con l’altro. Quell’altro nostro simile o essere vivente, oppure non vivente, o anche il pianeta nostra casa. E’ il limite da imporre al nostro ruolo, al senso della nostra vocazione. Nella dimensione storico-sociale è anche il limite etico al consumo di beni e al possesso di ricchezze.

6 – Bellezza – E’ l’Idea da cui sorge il piacere; è la fonte che genera il sentimento gioioso financo – kantianamente – allo struggimento del sublime. La bellezza assume le sembianze della prorompente energia erotica emessa da un nostro simile, dalle sottili frequenze, dalle forme sublimi, dai suoni nostalgici, dalla tumultuosa passione, dai colori luminosi e dai profumi inebrianti. E’ l’ebbrezza dell’Uno che dimora nella finitudine della singola persona. E’ lo stupore gioioso che l’altro (persona, paesaggio, opera d’arte,..) muove sul crinale della nostra esistenza tra il finito e l’infinito.

7 – Giustizia – Essa – l’Idea della giustizia – è la sintesi superiore e il riassunto organico delle precedenti sei Idee reali innate nella nostra matrice spirituale. Se vissuta, la giustizia le valorizza alla massima espressione realizzando la stella polare dell’esistenza umana nella dimensione storico-sociale: il Bene. La giustizia è la condizione (Idea reale) per la quale una persona e una comunità non patiscano impedimento, sopraffazione, ostacolo, preclusione, sfruttamento, parassitismo e alienazione nelle attività tese al proprio percorso evolutivo mosso dal bene comune e personale.

Secondo topos: le strutture energetiche

Il secondo topos dell’essenza umana – principio della nostra matrice spirituale in senso stretto e della nostra Natura umana in generale – riguarda le sette strutture energetiche che sono anch’esse il condizionamento della presenza spirituale sul corpo ma che – a differenza delle sette idee innate reali – non possono e non sono prescindibili – nella loro definizione e riconoscimento – dal corpo in cui lo spirito dimora. Queste sette strutture energetiche sono gerarchicamente distribuite dal basso verso l’alto, dalla più materialmente densa alla più sottilmente spirituale, lungo un simbolico tragitto di ascesa che dal basso della spina dorsale giunge sino alla sommità del capo. Queste sette strutture energetiche sono il carburante vitale della nostra esistenza. Sono particolari centri energetici che – potenzialmente – muovono emotivamente, sentimentalmente, cognitivamente, intuitivamente e spiritualmente la nostra azione in funzione della trasformazione evolutiva dei piani storici e ontologici dell’Essere. Queste sette strutture energetiche sono – dal basso verso l’alto – i sette centri energetici che presiedono al radicamento spazio-temporale, sessualità, l’autodeterminazione, la relazione, l’espressività, l’intuizione e quello dedicato alla pura spiritualità.

Per sviluppare la propria azione trasformatrice (creare Realtà storico-sociali potenzialmente infinite, spazianti tutte tra il bene sommo e il male estremo) attraverso il lavoro in quanto trasformatore energetico, l’essere umano deve preliminarmente ri-conoscere (oltre alle sette Idee innate reali – primo topos – e alle sette declinazioni del Logos in quanto Attività spirituali creatrici – terzo topos) le fondamentali sette strutture energetiche – secondo topos – di cui è fondamentalmente dotato nel momento stesso in cui la fusione corpo-spirito lo cali nel contesto storico-sociale della propria Epoca.

Il ri-conoscimento di esse è necessario al fine di definire come seria e rigorosa l’azione veramente rivoluzionaria (e con essa intendiamo un’azione volta al superamento epocale odierno caratterizzato dallo stradominio del Capitale, di cui cominceremo a parlare nel quarto saggio di questa collana, intitolato COSA E’ IL CAPITALISMO) del militante politico ed equipaggiarlo dei giusti abiti con i quali affrontare la conoscenza, la valutazione etica e la proposta di trasformazione storico-sociale per la fuoriuscita dall’attuale stagione epocale.

Queste sette strutture energetiche – a differenza delle Idee innate, che sono puro atto dello spirito – compaiono quando lo spirito s’incarna nel corpo, “informando” però quest’ultimo sul senso evolutivo che l’esistenza dell’essere umano potenzialmente ha. Intorno a queste fondamentali strutture, però, il corpo ricopre un ruolo di non secondaria importanza, al pari delle attività spirituali creatrici (Logos incarnato e storicizzato) che rappresentano il terzo grande ambito – di cui poco oltre ci occuperemo – di cui è caratterizzata l’Essenza umana, la carta d’identità della nostra matrice spirituale.

Per parlare delle sette strutture energetiche, dunque, ricordiamo che esse sono di genesi spirituale ma trovano una loro definizione rigorosa solo se delineate dalla simbiosi tra corpo e spirito e che idealmente esse sono simbolicamente distribuite – dal basso, il primo, fino all’alto, il settimo – sulla colonna vertebrale del nostro corpo sino a compiersi alla sommità del capo, idealmente indicate sul perineo, parte inferiore dell’addome, plesso solare, cuore, gola, testa (“terzo occhio”) e sommità del capo,  a ribadire la centralità del tempio in cui la nostra matrice spirituale dimora. Il corpo (il nostro corpo, il tempio da curare..) rappresenta la materialità necessaria per vivere nella terra di mezzo in cui lo spirito dell’essere umano è attualmente situato e presso la quale sperimenta la potenziale evoluzione. Di seguito – sinteticamente – descriveremo le principali caratteristiche delle sette strutture energetiche di cui è universalmente e naturalmente dotato l’essere umano.

Il primo centro energetico è quello deputato al radicamento spazio-temporale. È il centro energetico del qui e ora, della situazione etica da vivere nel mondo e nella sua quotidianità avendo però un collegamento solido al contesto materiale circostante. E’ la struttura energetica equivalente – per aiutarci con metafore – a quelle esercitate dalle radici di un albero o dalle fondamenta di un edificio abitativo. E’ il centro energetico che ci radica nel tempo, nello spazio e nella materia. E’ il luogo del radicamento alla terra, al suo ancoraggio. È caratterizzato dalle emozioni di sopravvivenza, dalla ricerca di stabilità, sicurezza e dalla ricerca dell’autosufficienza. E’ il centro del riconoscimento  della fusione tra spirito e corpo sulla Terra e nella Storia. E’ il centro energetico a suo modo (siappur parzialmente e in modalità espositiva incompleta) intuito da Kant nell’Estetica trascendentale della sua Critica della Ragion pura, quando in essa scorgeva quella Forma pura riconducibile ai due fondamentali elementi del tempo e dello spazio nei quali trovano la loro realizzazione i fenomeni. L’essere umano centrato in questo prima struttura energetica vive saldamente – con una formula risaputa – con “i piedi per terra, con le giuste ambizioni e non con la testa tra le nuvole”.

Il secondo centro energetico è quello che presiede alla sessualità, creatività (qui intesa come slancio vitale) e autostima, al piacere, alla riproduzione della specie, alle emozioni e alla loro sublimazione in vista di un loro percorso di crescita. È il centro energetico deputato all’elevazione della sessualità e al movimento verticale evolutivo del piacere.

Il terzo centro energetico è quello che presiede all’autodeterminazione, alla volontà e alla trasformazione. E’ il centro energetico che per primo chiama in causa l’ego – l’individualità – quale caratteristica primaria della singola persona in quanto attrice storica e quindi soggetto atto alla decisione e alla scelta che risolva armonicamente la singolarità con la comunità di appartenenza. E’ il luogo della gestione dell’emotività in funzione dell’equilibrata autodeterminazione.

Il quarto centro energetico è quello deputato alla relazione con l’altro, gli altri, la natura ambientale e il mondo. E’ il centro energetico che maggiormente è in connessione con l’Idea innata dell’amore. E’ quello del cuore, centrale sia fisicamente che nelle dinamiche dell’equilibrio psicofisico. Unisce i centri energetici superiori e più spirituali, a quelli inferiori e più materiali. E’ la struttura energetica che media tra il corpo e la mente e presiede agli scambi passionali e movimenti sentimentali, in primis quello della com-passione e del perdono.

Il quinto centro energetico è quello che presiede all’espressività, alla  comunicazione (sia con gli altri che con noi stessi) e alla creatività, quest’ultima qui intesa come realtà da plasmare con progetti personali e comunitari nel profondo legame che unisce la parola alla cosa cui inerisce e riferisce. E’ il centro energetico in cui la creatività (artistica, culturale, politica,..) passa dalla purificazione del linguaggio e in cui l’esercizio d’ascolto (degli altri e di noi stessi) è propedeutico alla costruzione di un’armonica comunità secondo natura umana. E’ il centro energetico deputato alla realizzazione del verbum o logos in cui la magia della parola diviene realtà dei fatti attraverso la chiara elaborazione progettuale di comunità umane tese alla realizzazione massima della propria essenza. E’ intorno alla parola che questo centro gestisce forme sottili di energia.

Il sesto centro energetico è quello che presiede all’intuizione, alla percezione immediata del sapere del mondo inteso quest’ultimo come l’insieme delle leggi universali di cui è costituita anche la nostra essenza. È l’intuizione che le leggi che governano il tutto universale sono le medesime espresse dalle nostre sette Idee innate reali. E’ il centro energetico predisposto all’intuizione dell’intimo legame tra microcosmo e macrocosmo. E’ il centro energetico che permette l’empatia con altre persone che guardano “oltre” le apparenze fenomeniche scorgendo potenzialità evolutive nella realtà quotidiana alienata. In questo centro energetico si collegano tutti gli opposti e tutte le dualità, come il bene e il male, l’elemento maschile e quello femminile, la ragione mondana e la percezione trascendente, la forma e la sostanza, il corpo e lo spirito. In questo particolare centro vi è la comprensione della dialettica storica (indispensabile per chi milita politicamente e milita in un progetto rivoluzionario anticapitalista..) come modalità filosofica da adottare nella terra di mezzo in cui lo spirito umano è incarnato in un corpo situato nella materia, nello spazio e nel tempo cronologico. E’ il centro energetico rappresentato simbolicamente dal “terzo occhio” che vede quello che esiste oltre a queste separazioni dialettiche e storico-sociali, tipiche del nostro livello mondano dell’Essere. E’ il centro energetico che intuisce come il corpo e la Storia sono un banco di prova da attraversare per risalire nel percorso di ricongiungimento con i livelli superiori dell’Essere.

Il settimo centro energetico è quello che presiede al pensiero come atto puro dello spirito. È il centro energetico che presiede all’illuminazione, allo stadio della conoscenza ove abbiamo la coscienza che il pensiero crea. E’ il centro energetico che fa da ponte tra la Storia e la trascendenza, tra l’umano e il divino, tra il corpo e lo spirito. E’ il centro energetico che – opportuno grado di coscienza permettendo – porta a compimento la superiore sintesi tra rivoluzione mondana e evoluzione ontologica, tra giustizia terrena ed elevazione divina.

Il Terzo topos: il Logos in quanto Attività spirituali creatrici

Il terzo topos dell’essenza umana riguarda la manifestazione più diretta dello spirito nel tempio in cui dimora, vale a dire la parola, il verbo, il logos, ovvero il Dio che si fa Uomo, il verbo che si fa carne, il pensiero che si fa azione, la teoria che diviene prassi, lo spirito che diviene Storia, la parola che magicamente diviene Realtà. Per magia non intendiamo la pratica assurda che fungerebbe da illuminazione sulla “vera realtà” rappresentata da quella trappola quale il mito del velo di Maya attraverso il quale vi sarebbe una frattura tra un (presunto) Essere vero noumenico (l’al di là) separato da un (presunto) essere apparente e finto (l’al di qua) in quanto teatro di fenomeni illusori.

Questo falsissimo platonismo (Platone non ha mai detto castronerie del genere) è origine di tutte le filosofie nichiliste e giustificatrici della modernità attuale. La parola è invece il sacro che plasma il tempo e lo spazio. La parola è la conduzione dello spirito che dall’Uno torna all’Uno. La magia della parola è il contenuto dell’intuizione, la sua folgore. Essa (la parola) è il simbolo di tutti i respiri dello Spirito. E’ il pensiero che manifesta se stesso nella Realtà. E’ attività creatrice. La parola è magia. La magia è parola. Per magia intendiamo il meraviglioso passaggio dalla radice archetipica – le sette Idee innate – alle strutture del reale nel quale sono tra loro in relazione gli enti mondani.

La magia è energia che crea – attraverso l’attività dello spirito umano – un mondo attraverso simboli. Essi sono la proiezione degli archetipi quali le idee platoniche che noi associamo alle Idee reali di cui parliamo in questo saggio e che sono la Costituzione della nostra matrice spirituale. L’archetipo non è però solo l’ispirazione della creatività ma è anche il luogo per eccellenza della Parola che si nutre anche di emozioni, sentimenti e della linfa del cuore. In Gustav Jung, l’archetipo non è solo l’immagine innata del singolo. Rappresenta anche il modello ispiratore con il quale creare la Realtà storico-sociale, nella quale inquadrare anche i programmi economici a fini evolutivi. La parola è perciò il punto d’incontro tra cuore e razionalità, tra sentimento e logica. E’ lo spazio magico nel quale lo Spirito si espande. La parola è lo scrigno che emana questa energia e che emette una particolare frequenza. La risonanza di essa con il nostro essere più profondo – ove la matrice spirituale tocca le corde del suo livello più alto, l’Anima – genera il brillamento del cuore e – anche solo per qualche attimo – si delineano i contorni della nostra vocazione che non è mai una figura immediata alla nostra coscienza e per molti – purtroppo – non lo è mai per tutta una vita.

Il logos è la definitiva fusione tra spirito e corpo (fusione anticipata dalle precedenti sette strutture energetiche) e si declina in sette traduzioni pratiche consistenti nelle sette attività spirituali creatrici, vale a dire il linguaggio espressivo, la ragione lineare, la ragione dialettica, la dialogicità, la socialità, l’alterità comunitaria e il calcolo sociale. Il logos è dunque tensione, movimento, creazione. Se le sette strutture elaborate precedentemente sono dei centri energetici d’irradiazione, Il logos è invece un motore energetico che beneficia di quelle irradiazioni articolando la propria azione in sette modalità. Le sette attività spirituali creatrici – attraverso le sette strutture energetiche – lavorano per la trasformazione evolutiva dell’Essere affinché le potenzialità divine delle Leggi universali espresse dalle sette Idee innate inscritte nella nostra matrice spirituale si realizzino divenendo Realtà storico-sociale nella loro massima pienezza e cioè realizzando il Bene comune. Le sette attività spirituali creatrici hanno il compito evolutivo di portare all’atto la potenza inscritta nelle sette Idee innate. Esse – le sette declinazioni del logos – sono un potenziale programma di governo evolutivo che realizza l’umanità alla massima espressione. Le sette attività spirituali creatrici, altrettante traduzioni e declinazioni del logos, sono il (terzo) topos nel quale la Natura umana diviene Natura storica.

Ogni volta che ci avviciniamo al logos quale figura problematica da chiarire, approfondire e oggettivare – e nel definire le sue sette declinazioni quali attività spirituali creatrici siamo all’interno di questa atmosfera -, quattro termini si mettono in fila indiana in attesa della corretta connessione di essi: parola, pensiero, spirito e azione. Parola intesa come verbo, simbolo, segno di un’essenza che vuole essere consistenza, esistenza e realtà. Pensiero che vuole essere ragione di questa parola nella realtà. E per ragione intendiamo il processo discorsivo che riguardi l’origine dei nessi logici che strutturano i fenomeni legati alla necessità quanto ai nessi evolutivi legati al senso che strutturano le relazioni libere tra esseri umani e tra esseri umani e il mondo in cui dimorano. Spirito che è respiro di questa ragione che sta sul crinale tra necessità e libertà avendo come potenziale stella polare l’evoluzione. Azione perché logos – nelle sue sette articolazioni – è al tempo stesso il segnale stradale (il senso), la strada (tra essenza e esistenza), come crearla (senso nell’esistenza) e come percorrerla (avendone e prendendosene cura).

Il logos ha perciò sette fondamentali significati che fondano le sette attività spirituali creatrici che costituiscono il terzo topos dell’essenza umana oggetto del nostro studio.

Il primo significato è quello dato dal linguaggio espressivo in quanto attività spirituale della Natura umana che concilia – nella Tradizione (trasmissione coerente) – l’universalità delle Idee reali (Amore, Unità, Ordine, Armonia, Misura, Bellezza e Giustizia) con la specificità di ognuna delle due vie attraverso le quali agiscono: a) Cultura popolare, Etnodiversità o Etnoidentità. b) Vocazione o attitudine personale. Questo primo significato è intimamente legato all’espressione aristotelica dello zoon logon echon, vale a dire essere umano inteso come animale dotato di linguaggio espressivo.

Il linguaggio espressivo – oltre all’aspetto conciliativo di cui sopra – ha anche un aspetto conservativo. E’ un’attività spirituale preposta alla trasmissione coerente dell’arcaico legame tra nome e cosa, pur comprendendo all’interno di questa trasmissione coerente (tradizione) che la creatività umana predispone questo legame arcaico alla variazione semantica che è origine delle formulazioni di sempre nuovi codici, frequenze, colori, suoni, note, canoni, alfabeti e calcoli. Nei bisogni creativi da soddisfare evolutivamente attraverso il controllo etico della politica e l’organizzazione economica, la cultura occupa lo spazio unico e fondamentale e il suo carattere espansivo rende il bisogno anche come portato storico.

La cultura è dunque libera creazione di codici, canoni, forme e alfabeti con cui rappresentare e istituire la Realtà e – al tempo stesso – Unità della tradizione nella diversità dei paradigmi. Alla luce di ciò, il virtuoso linguaggio espressivo è quella delicata attività spirituale creatrice che armonizza la conservazione del legame arcaico con il progressivo allargamento d’istanze culturali. La Tradizione è il rispetto di questa fondamentale trasmissione coerente, quella del legame arcaico, che garantisce l’intersecazione del piano orizzontale storico-sociale (all’interno del quale il senso delle sette Idee reali si fa Storia) con la verticale trascendente del piano dell’Essere, atemporale e a-spaziale, da cui discendono gli archetipi divini che costituiscono l’essenza della nostra matrice spirituale e – per esteso – della nostra Natura umana.

Il linguaggio espressivo realizzatosi genuinamente nella Storia attraverso la Tradizione garantisce l’ottimale lavoro di sintesi tra natura e cultura. Sintesi nella quale è originata la storicità del bisogno da soddisfare – al di là della contingenza epocale – nei termini evolutivi cari al rispetto genuino di eco-nomia. La Tradizione riconosciuta al linguaggio espressivo è garanzia dell’incontro tra l’universalità della Natura umana realizzata nella bellissima e variegata diversità delle etnodiversità e specificità cultural-popolari e del connubio tra universalità della Natura umana espressa nelle singole vocazioni personali. Il linguaggio espressivo – sia quello concernente la ragione lineare scientifica sia – soprattutto – inerente alla ragione dialettica (vedremo poco oltre) – riconosce le essenze di ogni ente storico mondano sia da un punto di vista scientifico che da un punto di vista etico.

Anticipando qui temi che svilupperemo nel quarto saggio di questa collana (4 – COSA E’ IL CAPITALISMO), premettiamo che l’attuale Epoca capitalista – che indagheremo approfonditamente in quello scritto – necessita – al fine di giungere alla realizzazione dei propri scopi e interessi – che l’essere umano si allontani dall’arcaicità del legame tradizionale e magico tra nome e cosa. L’uomo moderno è disconnesso tra l’espressione verbale di un nome e l’ancestrale significato della cosa cui – oggi – artificialmente si riferisce dopo la destrutturazione e ri-programmazione dell’umano. Questa disconnessione è la base di tutti i processi di mistificazione e manipolazione attraverso la quale il sistema capitalista controlla – direttamente o indirettamente – codici, frequenze, alfabeti, canoni, paradigmi di tutti gli ambiti riferiti alla conoscenza, sia essa quella adibita ai contesti storico-sociali (economia, politica, geopolitica,..) sia essa quella riferita alle sovrastrutture culturali (arte, filosofia, diritto, religione,..), al fine di perseguire i propri scopi di infinita accumulazione di capitale.

Il secondo significato del logos e la sua traduzione nella relativa attività spirituale creatrice è quello della ragione lineare. Essa è quella versione del logos che inerisce fondamentalmente al sapere basato sulla logica aristotelica e allargato alle scienze sperimentali ed è conosciuta come la ragione della mente. E’ la Ragione della necessità (verstand, ovvero l’intelletto). Qui dobbiamo fermarci e chiarire una distinzione fondamentale che in generale riguarda quella facoltà del pensiero umano denominata ragione. Essa è di due tipi. Da un tipo di vista teorico è ben riassunta nella distinzione kantiano-hegeliana tra intelletto (che qui definiamo ragione lineare) e ragione in senso stretto (che qui definiamo ragione dialettica, vernunft, la ragione del cuore quale terzo significato di logos, di cui ci occuperemo a seguire).

La distinzione sta nel diverso modo in cui il pensiero si rapporta alla Realtà. Se esso si rapporta nella dimensione della necessità, ovvero quando tratta gli enti all’interno di protocolli fenomenici tali per cui i loro rapporti hanno una valenza matematico-quantitativa regolata dal loro situarsi nella dimensione spazio-temporale rispettando la logica aristotelica del principio d’identità, quello di non contraddizione e quello del terzo escluso, siamo in presenza dell’intelletto. Esso – nella definizione degli enti e della loro posizione nello spazio e nel tempo – astrae questi dalla totalità e li definisce nei termini matematico-quantitativi rispettando i protocolli che presuppongo un particolare sapere denominato scienza sperimentale (fisica, biologia, ottica, astronomia, chimica,..).

Il logos declinato in questo primo significato è dunque il logos sinonimo di ragione lineare e la sua missione è definire la certezza e l’esattezza dei distinti campi d’indagine tipici dell’intelletto astratto dalla totalità quantunque situato in una parzialità universale, tipica di quei protocolli legati alle scienze sperimentali quali – ad esempio – fisica, biologia, ottica, astronomia e chimica. Nella ragione lineare non c’è alcuna libertà del volere umano. La fotosintesi clorofilliana e la forza di gravità – per portare due tra innumerevoli esempi – sono fenomeni biologici e fisici che prescindono dalla volontà del biologo e del fisico, i quali necessariamente hanno il compito di ri-costruire i rapporti matematico-quantitativi che ruotano intorno a nessi logici che legano il rapporto causa-effetto che necessariamente presiedono allo svolgimento della fotosintesi clorofilliana e alla forza di gravità.

La ragione lineare scientifica – quella amata dai galileiani o dalla nostra quotidianità quando guidiamo la macchina, quando calcoliamo le spese delle bollette o quando misuriamo i grammi di vitamina C che assorbiamo per rinforzare l’apparato immunitario – ha un rapporto statico con la parola. Non ne intercetta la magia ma si limita al suo uso precettistico. Come anticipato, la ragione lineare – tutt’al più – gestisce la superficie della parola (il suo involucro) all’interno di griglie interpretative che trovano il loro scopo nel raggiungimento dell’esattezza, della validità e della certezza. Dell’esattezza, della validità e della certezza in merito al funzionamento dell’anestesia prima dell’estrazione di un dente, in merito al funzionamento della tenuta dei pilastri come sostegno a una soletta e in merito al funzionamento dell’accensione di una lampadina quando schiacciamo l’interruttore.

Anche se la sua rigidità – soprattutto dopo il 1900 – è stata messa in discussione da una certificata e dimostrata reciproca contaminazione e influenza tra l’osservatore scientifico e il fenomeno studiato (soprattutto nelle dimensioni dell’infinitamente grande o in quelle dell’infinitamente piccolo), – e di cui qui non possiamo ampliarne l’indagine per ovvie ragioni di spazio e di perimetro argomentativo – la ragione lineare è normalmente deputata a leggere e rispecchiare il mondo dei fenomeni naturali, quelli ascrivibili – ad esempio – alle cosiddette scienze sperimentali, cioè a quei saperi fenomenici che potenzialmente possono essere riprodotti artificialmente in laboratorio.

La ragione lineare ri-costruisce in termini matematico-quantitativi gruppi di paradigmi che ineriscono la realtà materiale (ove per materia s’intende il contenuto empirico, sia quello solido-concreto che quello concettuale) in cui esprimono le proprie dinamiche le realtà cosiddette naturali (regno minerale, vegetale e animale) avendo come obiettivo non la Verità ma la certezza o l’esattezza dei giudizi comprendenti quei singoli paradigmi interpretativi. In essi non esiste – a differenza del mondo etico – alcuna libertà. La ragione lineare, dunque, rispecchia le leggi di questi paradigmi regionali entro le quali le relative dinamiche sono rigidamente subordinate alla necessità.

Il terzo significato dell’attività spirituale creatrice è quello della ragione dialettica. Essa è il pensiero della coscienza, cioè il pensiero del cuore, di quell’attività spirituale della Natura umana che indaga sulla dicotomia Bene-male attraverso la quale esprime una valutazione etica sulla Realtà storico-sociale in cui l’Umanità agisce. La ragione dialettica, a differenza di quella lineare, non risponde al presupposto del principio di non contraddizione, in quanto il male riconosciuto in un’indagine dell’epoca ha dialetticamente una funzione evolutiva in quanto ha il compito di ricordare che dialetticamente il Bene è la base progettuale per la realizzazione delle divine potenzialità contenute nelle sette Idee reali inscritte nell’essenza umana e dunque stimola e incita l’essere umano alla trasformazione politica della Realtà storico-sociale in quel senso (bene).

Quindi, la valutazione etica è operata su una dicotomia strutturalmente contraddittoria, pur ponendosi – la ragione dialettica – il compito del suo superamento a un livello superiore di coscienza prima e di coniugazione tra teoria e prassi dopo. Il male, il dolore e la sofferenza acquisiscono (di contro la necessità escludente del principio di non contraddizione) il motore per l’evoluzione dell’Umanità verso la realizzazione della propria enorme e immensa potenzialità divina che – a scanso di equivoci – passa anche attraverso la prova della dimensione storico-sociale. L’aumento del grado di coscienza intorno alle potenzialità della nostra Natura umana avviene attraverso la libera volontà. La ragione dialettica non è mossa dalla necessità, come la ragione lineare. Lo sfruttamento e il parassitismo (due dei tre crimini del sistema capitalista. Lo vedremo a suo tempo) sono opera – purtroppo – di un’Umanità libera e consapevole, mentre la forza di gravità – fenomeno fisico – e la fotosintesi – fenomeno biologico – sono necessari e inconsapevoli.

La ragione dialettica ha il compito di riconoscere e sentire la profondità del Reale cercando in esso la presenza delle sette Idee, degli archetipi che definiscono la genuina essenza dell’Umanità. La ragione dialettica è quella del cuore, quella della volontà che liberamente sceglie di aderire nella concretezza della quotidianità storico-sociale attraverso le sette Idee reali (vedi primo topos) che riflettono luce, bene e verità, oppure di non aderire a esse e riscontrare oscurità, male e menzogna. Nella sostanza – anticipando un lavoro successivo (4 – COSA E’ IL CAPITALISMO) riconosciamo alla ragione dialettica hegelo-marxiana di matrice idealistica (e non materialistica!) una convergenza con la descritta ragione dialettica in quanto logos espresso in questa particolare attività spirituale creatrice.

La ragione dialettica di matrice idealista ha una strettissima consonanza con la valutazione delle dualità bene/male, spirito/materia, luce/oscurità che – come archetipi -, si riverberano nella dimensione storico-sociale e rappresentano le opposte possibilità per la libera volontà umana. Abbiamo visto che il logos è la parola che s’incarna nella Storia. La ragione lineare – quella predisposta alla codificazione dei protocolli scientifici –, che abbiamo trattato nel significato precedente, si rapporta alla parola percependola statica e cogliendone solo l’aspetto superficiale del suo involucro, fungibile quantitativamente alle materie matematiche.

La ragione dialettica è invece quella facoltà del pensiero e del cuore che si rapporta alla parola intuendola come dinamica, cogliendo il nucleo profondo di essa come naturalmente disposta ai legami relazionali, sia essa la luce di un essere vivente (di cui aver cura), sia essa la luce di un essere non vivente (di cui prendersi cura). L’essenza della parola è dunque la qualità, espressa dal suo nucleo profondo. Quello intimamente legato ai sette fondamentali archetipi di cui le sette Idee innate ne sono la testimonianza diretta presso l’Essere.

La parola è creativa perché la sua magia è la qualità che attraversa le orizzontalità storiche innalzandosi alle verticalità celesti. Il recettore umano della parola è dunque la coscienza. Solo essa può riconoscerla. La ragione dialettica ha il delicato compito di sondare il legame – nella parola – tra quel nucleo profondo e gli archetipi divini che regolano l’universo e la Totalità. In questo riconoscimento, ci sarà la valutazione etica di un’epoca e la diagnosi sul suo stato di salute, di quanto – cioè – una comunità umana vive secondo la natura della propria essenza e che rapporto essa ha con l’amore, con l’unità, con l’armonia, con l’ordine, con la misura, con la bellezza e – soprattutto – con la giustizia.

Come introduzione al quarto, quinto e sesto significato di logos, è necessaria una premessa che ha come oggetto di ricerca il concetto che collega e riassume i tre significati che andremo a definire. Stiamo parlando del concetto aristotelico di zoon politikon. Così come zoon logon echon introduceva il primo significato delle sette possibili traduzioni di logos (linguaggio espressivo), lo zoon politikon è il denominatore comune alla dialogicità, socialità e alterità comunitaria.

E’ noto che zoon politikon è un concetto elaborato da Aristotele e indicava – con questo termine – la peculiarità dell’essere umano in quanto animale naturalmente portato alla socievolezza, quindi un essere comunitario e sociale. Questo animale politico abbiamo visto essere anche dotato di linguaggio espressivo (zoon logon echon). Ecco dunque che l’essere umano è un animale che naturalmente è predisposto a ricercare senso – attraverso il linguaggio – per socializzare con i suoi simili e edificare con loro una comunità. Per agganciarci al discorso del precedente saggio di questa collana (1 – COSA E’ L’ECONOMIA), lo zoon politikon può essere declinato anche come l’esercizio sociale di un monos dotato di bisogni che interagisce con un altro (e altri) monos dotato di bisogni, formando socialmente una solidale Polis orientata da un Bene che è Comune a entrambi. Quel bene è l’adesione storica – nelle strutture sociali – delle sette Idee innate e per comune s’intende l’eguaglianza di tutti i membri dell’umanità di agire in modo che nella libertà essi possano elevarsi spiritualmente anche attraverso il soddisfacimento evolutivo dei bisogni di cui sono naturalmente portatori, presupponendo un potenziale condivisivo destino per tutti i membri della comunità politica. Questa condizione di zoon politikon (coniugato allo zoon logon echon) pone l’umanità in uno stato di propensione alla relazione evolutiva tra i membri e alla creazione di una Comunità di destino potenzialmente identica alla diversissime e moltissime varietà etnoculturali che rendono ricco il nostro Pianeta.

Il quarto significato dell’attività spirituale creatrice è quello della dialogicità. Essa è  il libero confronto comunitario che due o più soggetti (persone, comunità, popoli, federazione di popoli) intrattengono intorno a argomenti posti dalla ragione lineare o quella dialettica, avendo come presupposto condiviso il Dialogo veritativo. Questa condivisione deve necessariamente presumere due condizioni: l’amore sincero per la verità e cioè l’idea che ogni risultato – anche al termine di un acceso confronto – deve assumere l’adesione di esso a ognuna delle sette Idee innate di modo che esso (il risultato) armonizzi finalmente l’iniziale contesa ed elevi i due poli del dialogo. La seconda è quella che il punto finale raggiunto non determini né vincitori né vinti, ma donne e uomini evoluti.

Il quinto significato dell’attività spirituale creatrice è quello della socialità. Il logos diviene Comunità. Qui lo zoon politikon ricorda la naturale propensione dell’umano a “stare insieme”, ma non per necessità. Se così fosse, infatti, l’uomo avrebbe dato vita a una sola forma di aggregazione sociale, esattamente come i lupi, le api, i leoni e via discorrendo. Nella realtà storica, invece, stante le diverse forme sociali, politiche e comunitarie sperimentate nella Storia è facilmente deducibile (ce ne fosse bisogno..) che l’essere umano è promotore di libera socialità. Se la libertà è però la prerogativa fondamentale nella scelta tra bene e male ecco che la scelta di creare un tipo di comunità piuttosto che la sua opposta è una scelta fondamentalmente etica. La socialità è dunque un fattore relazionale ad alto tasso evolutivo. Il generale concetto di zoon politikon è stato aggiornato dal rilevante concetto marxiano del gattungwesen, ovvero Essere Naturale Generico, in quanto l’essere umano può costruire e dar vita ad innumerevoli tipologie di comunità. La socialità orientata al bene – dal nostro punto di vista – non ha il solo scopo etico dell’emancipazione orizzontale storico-sociale della persona che vive in comunità (come già indicavano lo zoon politikon e il senso del gattungwesen in tutte le speculazioni aristotelico-marxiane), ma anche – in verticale – l’evoluzione dello spirito da un punto di vista ontologico. A suo tempo e in diversi punti dei prossimi saggi di questa collana avremo modo di riprendere la spinosa questione.

Il sesto significato dell’attività spirituale creatrice è quello dell’alterità comunitaria. Essa è la precondizione per la quale viene definita l’identità di ogni persona e di ogni comunita’. L’identità di ognuno (persona o comunità) è definibile solo ed esclusivamente nell’incontro con l’altro. La dialogicità e la socialità – orientate potenzialmente al bene – sono i prerequisiti per definire l’identità di una persona che risolve se stessa sempre e comunque nella comunità, ovvero riflettendo se stesso nell’altro nel momento della costituzione storico-sociale della Polis. Esiste l’individualità – anche forte e spiccata, energica e carismatica – solo nella maglia di una relazione comunitaria. Al di fuori di essa non vi è alcuna identità singola se non quella dell’atomo isolato o della monade egoista e chiusa nelle proprie pareti.

Il settimo significato dell’attività spirituale creatrice è quello del calcolo sociale. Questa settima e ultima traduzione del significato di logos è debitrice – e noi con lei – del lavoro certosino e approfondito di Costanzo Preve, filosofo politico tra i più arguti del secondo ‘900 e inizio di questo ventunesimo secolo, nonché fondatore della scuola torinese del marxismo idealista. Nella declinazione del logos in questi termini, il calcolo sociale comunitario – ripreso da una lettura della geometria pitagorico-platonica applicata alla sfera sociale – è strettamente legato all’Idea innata della misura che riprende il concetto aristotelico del metron (sottolineiamo qui, ce ne fosse ancora bisogno, di quanto la grecità antica sia per noi un faro illuminante..) qui previanamente declinato con il significato di limite etico. Esso è il parametro per almeno tre ambiti storico-sociali in cui il logos respira. Il primo è il senso della misura da applicare al possesso di ricchezze e al consumo di merci e servizi, questi ultimi soddisfatti possibilmente in un quadro evolutivo. Il secondo è il parametro per determinare la giustizia distributiva, ovvero evitare che in una comunità vi siano da un lato persone che muoiono di fame e altre che abbondano nel lusso. Il terzo è il criterio che valuta l’impatto ambientale rispetto alle attività umane monitorando il livello della simbiosi tra i diversi regni e – di quest’ultimo ambito – ne parleremo diffusamente nel sesto saggio ECONOMIA/ECOLOGIA.

A conclusione dell’analisi sui tre topos della matrice spirituale incarnata nel corpo dell’essere umano, riassumiamo brevemente gli aspetti salienti dei livelli con cui lo spirito presenta se stesso nel mondo storico attraverso l’umanità. Il primo livello è quello della sua essenza, determinata fondamentalmente dal contenuto ereditato dall’Essere a cui partecipa e che fonda le Leggi della totalità. Il contenuto inscritto nell’essenza umana sono le sette Idee innate reali, vale a dire amore, unità, ordine, armonia, misura, bellezza e giustizia. Il secondo livello – quello dell’energia – è determinato dal “primo incontro” tra spirito e corpo – da cui è originata la Natura umana – in cui si sedimentano sette strutture energetiche ubicate lungo la verticale del corpo. Esse presiedono al radicamento spazio-temporale, alla sessualità, all’autodeterminazione, alla relazione, all’espressività, all’intuizione e quello dedicato alla pura spiritualità. Il terzo livello è quello dell’attività. Esso è il luogo delle sette declinazioni del logos inteso come respiro spirituale atto al governo dell’azione concreta. Queste sette traduzioni indicano sette attività spirituali creatrici. Creatrici di realtà storico-sociale. Quest’ultimo livello – oltre a essere l’approfondimento del “primo incontro” tra spirito e corpo – ha il compito di realizzare concretamente tutte le meravigliose potenzialità insite nell’essenza affidandosi all’energia del secondo livello.

Il soggetto politico – appartenendo alla Natura umana – è strutturalmente portatore di una contraddizione operativa irrisolvibile, che lo accompagna lungo l’arco dell’intera esistenza. La Natura umana, infatti, essendo composta da due elementi eterogenei (spirito e corpo) è fondamentalmente soggetta a tensione. Essa è provocata dallo scontro tra la perfezione trascendente della dimensione spirituale e l’imperfezione immanente, caratteristica della dimensione biologico-corporea. Questa differenza di potenziale è il Motore dell’Energia che dà movimento alla creatività storica. Motore energetico che dà luogo al cammino rivoluzionario-evolutivo.

Il soggetto politico comprende gli ambiti della singolarità personale (bisogni, vocazione, individualità) ma non è assolutamente da intendersi – viste le premesse dello zoon politikon aristotelico – come un io atomizzato, solipsistico, individualistico, egoista, egoico e monadistico. Il soggetto politico è un io personale che diviene un noi comunitario che realizza la propria libertà nello Stato, massima espressione della suprema attività spirituale umana qual è la politica. E’ evidente – dunque – che la libertà è la responsabilità personale di evolvere comunitariamente avendo diritto a esprimere la propria singola vocazione senza impedimenti alcuni, nel quadro di un percorso educativo che porti all’evoluzione propria e al Popolo di appartenenza. Non esistono altre definizioni di libertà. La libertà del soggetto politico è interna e compiuta al bene comune. L’io che si risolve comunitariamente nel noi è il raddoppiamento metaforico emblematico della scintilla spirituale che anela a risolversi liberamente nell’Uno a cui desidera ricongiungersi.

Se dunque il soggetto politico è l’emersione del contenuto che sostanzia la sua essenza – e questo è il compito dell’educazione quale momento propedeutico all’azione politica – egli è infatti la risultante anche di un processo educativo lungo, faticoso e tortuoso, che coincide in larga parte con l’azione politica protesa alla disalienazione del genere umano. L’educazione è la via obbligatoria per realizzare integralmente l’Essere potenziale (e meraviglioso) della Natura umana. Il livello storico-mondano dell’Essere è l’Essere politico e comunitario (l’Essere sociale coincidente con il soggetto politico) che si sviluppa in quattro momenti ed è intorno ad essi che si costituisce una Polis che possa umanamente e veramente realizzare le sette sovranità.

L’Essere sociale (estensione politica della Natura umana che veritativamente esprime se stessa alla massima potenzialità) si articola in quattro livelli espressivi.

1) L’Essere personale, dotato di bisogni singolari, sobri e creativi. E’ l’essere che si connota con una precisa vocazione da spendere nell’esistenza in funzione della sua potenziale crescita e quella della comunità d’appartenenza. La vocazione è la predisposizione a un lavoro, un’arte, una missione in cui il proprio ruolo è di armonizzare i propri talenti in vista di un’evoluzione propria e comunitaria.

2) L’Essere famigliare, espressione della naturale e tradizionale fusione di genitori (madre femmina e donna, padre maschio e uomo) con figli. Rappresenta il primo momento etico che media il rapporto tra il singolo e la Comunità, declinando i bisogni essenziali, sobri e creativi al fine di promuovere la realizzazione delle vocazioni personali sia nell’interesse dell’evoluzione del singolo che, simultaneamente, nell’interesse della crescita della Comunità.

3) L’Essere culturale e professionale, che si forma e si sviluppa attraverso l’opera dei corpi sociali intermedi, siano essi interni alle unità produttive, siano essi legati all’associazionismo delle espressioni e delle passioni. E’ il momento etico della solidarietà comunitaria. E’ il momento in cui i bisogni essenziali, creativi, personali e sociali trovano la loro compiutezza – a misura della Natura umana – nella dimensione comunitaria.

4) Infine, l’Essere sociale politico e comunitario integrale, costituente lo Stato etico-politico, sintesi e garante comunitario dei Valori (amore, unità, ordine, armonia, misura, bellezza e giustizia) fondanti la Comunità popolare e nazionale, caratterizzata da una propria identità culturale storica.

Al termine dell’esposizione del corpo, dei due prerequisiti fondamentali dello spirito umano, delle sette idee innate reali (primo topos), delle sette strutture energetiche (secondo topos) e delle sette attività spirituali creatrici del Logos (terzo topos) e della conclusiva definizione del soggetto politico come un noi comunitario, rileviamo necessariamente un nesso specifico ineludibile e insormontabile che caratterizza l’azione del soggetto politico che voglia storicamente perseguire con serietà e sincerità il bene comune.

Questa correlazione è il legame che unisce la rivoluzione e l’evoluzione. La rivoluzione è il percorso di emancipazione sociale anticapitalista e comunitaria che in orizzontale caratterizza l’azione storico-sociale di un’umanità cosciente nell’intraprendere un cammino che interrompa il progetto di suicidio di specie quale stadio terminale dell’alienazione e – al contrario – realizzi alla massima espressione il contenuto delle sette Idee innate.

La rivoluzione è il percorso storico in cui è realizzato il ristabilimento del primato ontologico dell’essenza umana di contro alla sua alienazione ed è quindi compiuta interiormente (su di sé) e esteriormente (sulle istituzioni storico-sociali). L’evoluzione è la contemporanea risalita all’Uno – il ritorno a casa – che progressivamente l’umanità compie anche attraverso la rivoluzione storico-sociale (banco di prova ineludibile e ineliminabile) in cui lo spirito si congeda – dopo averli ringraziati – dal corpo biologico e dal corpo storico e sociale.

*Fronte del Dissenso Lombardia




IL PAPA È COMUNISTA? di Gi.Bi

«Per me è un onore se gli americani mi attaccano»

Papa Bergoglio, 3 settembre 2019

Contrariamente a quanto urlano certi scimuniti (gli stessi che bollano come comunisti addirittura Klaus Schwab e la sua setta mondialista) Bergoglio non lo è. Tra questi scimuniti c’è un importante e controverso connazionale di Bergoglio, tale Javier Milei [a destra nella foto sopra]. Qui da noi nessuno lo conosce perché di quanto accade in Argentina i media, provinciali come sono, non si occupano.

Javier Milei è un uomo politico e parlamentare, nonché economista, nonché ultra-liberista; egli si qualifica anzi come anarco-capitalista — segnalo un vostro vecchio articolo su Trump e i suoi legami con l’ideologia anarco-capitalista e la molto ben fatta relativa voce su wikipedia.

Il tipo in questione ha fondato il partito personale La Libertà Avanza. Non va sottovalutato, non fosse perché in Argentina è molto popolare (oltreché spudoratamente populista) e sarà candidato alla Presidenza della Repubblica in opposizione frontale al composito movimento peronista.

52 anni, Javier Milei, è un “personaggione”. “Gesù non pagava le tasse”, ha twittato una volta Milei, taggando l’account ufficiale del Papa. Di Bergoglio ha detto testualmente che è “uno stronzo  comunista, un pezzo di merda … un rappresentante del maligno sulla Terra” perché promuove “la dottrina della giustizia sociale a favore dei poveri”. Promette di trasformare l’Argentina in un “paradiso libertario” dove l’efficienza capitalista sostituirà l’assistenzialismo sociale, le tasse saranno ridotte al minimo e gli “individui a corto di soldi potranno vendere i propri organi liberamente”. In un discorso del 14 agosto in Argentina, Milei ha promesso la fine di tutti gli aiuti  statali perché sono “basati su quell’atrocità che dice che dove c’è un bisogno nasce un diritto. Questa è l’espressione massima di quell’aberrazione chiamata giustizia sociale”. Oltre a legalizzare la vendita di organi, la sua agenda propone di chiudere la Banca Centrale e di abolire il sistema educativo statale argentino e smantellare i servizi sanitari pubblici gratuiti. Milei ha quindi promesso che ripristinerà il divieto di aborto (legalizzato nel 2020), che chiuderà il ministero delle donne, nonché quello del genere e della diversità, così come i ministeri della sanità, dell’istruzione, del lavoro e dei lavori pubblici ed infine quello della scienza — ha detto che  “il cambiamento climatico è una bugia socialista”. Deciso infine a legalizzare la vendita di armi da fuoco. Nota di colore: il tipo si vanta pubblicamente di essere istruttore di sesso tantrico e si è si vantato in diretta della sua resistenza sessuale e della sua preferenza per il sesso a tre.

A quelli che gli dicono che se applicherà queste politiche folli avverranno violente proteste di strada ha risposto che darà più poteri all’Esercito ed ai servizi segreti ed ha aggiunto: “Metterò in galera i capi di coloro che lanciano pietre e se circondano la Casa Rosada [il palazzo presidenziale] dovranno portarmi fuori morto”.

A chi ha chiesto cosa pensasse di Milei, il Papa ha risposto: “So che dicono cose su di me ma le ignoro per la mia salute mentale. Pregherò per loro”; ed ha aggiunto: “Sono terrorizzato dai salvatori della nazione senza una storia di partito politico” (frase che alcuni hanno interpretato come un appoggio al candidato peronista).

Mia personale morale della favola. Nel movimento contro la dittatura sanitaria c’era di tutto. C’erano anche, a causa del sostegno della Chiesa all’operazione covid-19, accaniti antibergogliani. Spero che costoro non siano della stessa pasta del reazionario ultraliberista argentino.




IL MISTERO DI MARIO TRONTI di Carlo Formenti*

Volentieri pubblichiamo questa densa e brillante riflessione di Formenti sul pensiero dell’appena scomparso Mario Tronti. Nel messaggio con cui Formenti ce lo segnala leggiamo: «rendo omaggio a quello che considero il reale contributo di Tronti al pensiero anticapitalista contemporaneo (contributo che prescinde a mio avviso da certe sue quasi inspiegabili scelte politiche)». Già… Per questo ci siamo permessi cambiare il titolo — Che cosa ho imparato da Mario Tronti è quello originale.

*   *   *

Questo non è un necrologio. Odio questo genere letterario perché, avendo a lungo lavorato nella redazione cultura di un grande quotidiano, lo associo a quelli che in gergo giornalistico si definiscono “coccodrilli”, vale dire gli articoli “precotti” che ogni redazione conserva nel proprio data base, in attesa di sfoderarli per celebrare la morte di questo o quel personaggio famoso. Sono scritti che raramente si sottraggono alla retorica, all’abuso di luoghi comuni e al mix di distacco e artificialità che caratterizza un testo costruito “a tavolino”, privo cioè delle emozioni suscitate dall’evento reale della morte. Quello che segue è invece il tributo che sento di dovere al pensiero di un autore che ha contribuito non poco a indirizzare il mio lavoro teorico recente. Un tributo che non ha pretese di “oggettività” accademica, nella misura in cui ricostruisce il pensiero di Tronti enucleandone gli aspetti che più si avvicinano al mio punto di vista sul mondo attuale, mentre trascura quelli che sento meno affini. 

  1. Operai e capitale. Ovvero la difficoltà di sbarazzarsi di una eredità ingombrante

La biografia teorica e politica di Tronti è caratterizzata da un paradosso: benché l’avesse “rinnegata” non molti anni dopo averla scritta, Operai e capitale (1) è rimasta la sua opera di gran lunga più conosciuta, e ha continuato a esercitare una profonda influenza anche dopo che l’autore ne aveva preso le distanze, segnando il punto di vista che intere generazioni di militanti hanno avuto, e hanno tuttora, in merito alle chance di superare il modo di produzione capitalistico. Dato che non mi interessa fare storia della teoria marxista degli anni Sessanta in Italia, mi limito qui di seguito a richiamare sinteticamente quelle che considero le tesi fondamentali contenute nel libro in questione: 1) le lotte operaie sono il motore dello sviluppo capitalistico e ne determinano in misura sostanziale i tempi e le modalità; 2) il cosiddetto “operaio massa”, vale a dire la figura che il proletariato di fabbrica ha assunto nella fase fordista dell’organizzazione capitalistica del lavoro, sviluppa obiettivi, pratiche e metodi di lotta che esprimono una coscienza politica spontaneamente anticapitalista, rivoluzionaria. In altre parole, in questa fase storica il lavoro vivo incarna una politicità immediata; 3) le tradizionali organizzazioni operaie, a partire dal PCI, ignorano questa realtà per cui, invece di riconoscere le potenzialità rivoluzionarie della coscienza di parte inscritta nella propria base sociale, imboccano la via del “nazional popolare”, neutralizzano cioè la parzialità operaia per imbrigliarla in una strategia che riduce la parte al tutto e la subordina a un progetto di “democrazia progressiva”; 4) viceversa Tronti – al contrario di Gramsci e dei suoi successori – non vedeva più il Principe nel partito ma lo identificava direttamente con la classe, l’unico vero soggetto rivoluzionario; 5) corollario di tale visione non era la negazione di qualsiasi ruolo del partito rivoluzionario, bensì la sua trasformazione: da coscienza “esterna” alla classe a strumento deputato a coordinare e organizzare sul piano tattico la lotta spontaneamente rivoluzionaria del proletariato.

  1. La “conversione” di Tronti. Ovvero il riconoscimento della autonomia del politico

La presa di distanza dalle tesi appena descritte avviene, come si è detto, non molti anni dopo la pubblicazione di Operai e capitale. Pur non ripudiando il principio secondo cui sarebbero le lotte operaie a determinare lo sviluppo capitalistico, Tronti ammette che, nella misura in cui tale determinazione non esita in un processo rivoluzionario guidato e organizzato (come si vede, l’idea di un partito ridotto a svolgere mansioni puramente tattiche inizia a vacillare), il capitale è perfettamente in grado di sfruttare le stesse lotte operaie ai propri fini (Tronti non si è convertito alle tesi di Gramsci, ma qui è difficile non riconoscere le analogie con la categoria gramsciana di “rivoluzione passiva”). Questo iniziale riconoscimento della autonomia del politico si rafforzerà a mano a mano che la ristrutturazione capitalistica e la transizione al modo di produzione postfordista evidenzieranno il  nodo problematico che si annida nella teoria marxista: nella misura in cui la lotta di classe viene ricondotta a contraddizione immanente al modo di produzione, non esiste alcuna via di uscita dal processo di riduzione dell’operaio collettivo a capitale variabile; la forza lavoro, essa stessa capitale, non riesce a divenire autonoma, per cui la teoria che vede nello sviluppo capitalistico una variabile dipendente delle lotte operaie mostra la corda. La via d’uscita va quindi  ricercata nella rivalutazione del ruolo del politico. Ma qui sorge un altro nodo problematico, visto che Tronti conserva una visione squisitamente novecentesca del politico. Per lui, come argomenta Franco Milanesi in un bel libro (2), il politico conserva il senso di visione strategica e organizzazione, capacità tattica e densità di cultura, ceti dirigenti e popolo attorno a un comune progetto di trasformazione. La politica è tensione affermativa di volontà, decisione e governo in opposizione alle forze dell’ordine economico. Nel solco tracciato da Marx, Lenin e Schmitt, occorre riconoscere cha la politica è forzatura, invenzione, volontà di sconvolgere il flusso temporale; non è continuità nel progresso bensì successione di fratture, interruzioni, ribaltamenti, è anche, infine e soprattutto, capacità di tracciare il confine fra amico e nemico. Come inquadrare questa visione nel contesto delle disastrose sconfitte della classe operaia negli anni Ottanta e successivi?

Nell’ultimo Tronti (3) le implicazioni di questa svolta assumono toni tragici: negli anni Ottanta, argomenta, il movimento operaio non ha perso una battaglia, ha perso la guerra e, a seguito di tale sconfitta, è stata la politica stessa a tramontare, riducendosi a mera gestione amministrativa per conto del capitale. I governi sono sempre più tecnici e meno politici e le maggioranze parlamentari hanno il compito esclusivo di eleggere dei consigli di amministrazione dell’azienda-paese. I partiti non hanno semplicemente cambiato forma, hanno rinunciato alle ragioni stesse della propria esistenza, riducendosi a collettori di voti e ad agenzie di comunicazione. Questa visione radicalmente pessimista si estende all’intera realtà contemporanea e il suo innesco catastrofico coincide con il crollo del sistema socialista: è a partire da allora che nelle sinistre si diffondono sentimenti di condanna e di rifiuto nei confronti non solo delle rivoluzioni ispirate al modello bolscevico del 1917, ma dell’intero “secolo breve”, descritto come una sorta di museo degli orrori macchiato da guerre e totalitarismi (4). Viceversa per Tronti il Novecento è piuttosto un secolo “tragico” che imponeva decisioni e scelte di vita radicali, senza alternative, il secolo dell’aut aut, dello slogan socialismo o barbarie. L’ideologia postmoderna che emerge dal suo naufragio si sbarazza di questo spirito con le parole che annunciano la “fine delle grandi narrazioni” (5) o addirittura la “fine della storia”(6). Sparita la grande politica novecentesca che lacerava la continuità del flusso temporale costringendolo a procedere per fratture, ribaltamenti e catastrofi, la storia assume la forma d’un eterno presente in cui tutto cambia senza che nulla cambi veramente.

Tronti indica nella coppia amico/nemico il bersaglio preferito di questa reazione antinovecentesca che accomuna destre e sinistre, conservatori e progressisti: assistiamo una mobilitazione totale contro la visione dicotomica della società che conduce alla condanna senza appello del punto di vista antagonista che era stato a fondamento di un secolo di storia del movimento operaio. Il risultato è la mutazione della tragedia in farsa: la lotta politica scade a reality show, il che non neutralizza la ferocia della lotta di classe (basti pensare alla macelleria sociale perpetrata dalla rivoluzione neoliberale) né, tantomeno, quella dei conflitti internazionali: nelle nuove guerre che le potenze occidentali scatenano contro le nazioni e i popoli che si ribellano al loro dominio l’inimicizia non viene civilizzata, al contrario diviene assoluta, le “guerre umanitarie” contro gli “stati canaglia” ne trasformano i leader locali in altrettanti “mostri”. Saddam Hussein, Milosevic, Gheddafi, Assad (oggi Putin) vengono tutti rappresentati, sfidando il senso del ridicolo, come altrettanti Hitler. Che ne è della politica in questo contesto? Provo a rispondere riprendendo le riflessioni critiche di Tronti: 1) sul fallimento del 68 e dei movimenti che ne hanno ereditato lo spirito (postoperaisti, femministe ecc.); 2) sulla necessità di rivendicare la tradizione rivoluzionaria novecentesca come “rivoluzione conservatrice”; 3) sulla necessità di ricostruire una prospettiva dicotomica, antagonista, nell’era dell’eclissi del soggetto di classe. Svolgerò infine alcune considerazioni in merito alle ragioni della paradossale fedeltà del Tronti militante al PCI, pur in presenza delle degenerazioni in senso neoliberale di quel partito e dei suoi eredi.

  1. La deriva neoliberale del 68

I giovani del 68, argomenta Tronti, erano radicalmente anti autoritari, ma ignoravano che abbattere l’autorità non significa automaticamente liberare le potenzialità dell’essere umano: poteva voler dire, e questo è ciò che in effetti ha voluto dire, liberare gli spiriti animali del capitalismo che scalpitavano dentro quella gabbia di acciaio che il sistema politico aveva costruito come rimedio della lunga crisi dei decenni centrali del Novecento, punteggiati da guerre e rivoluzioni scatenate dall’utopia del libero mercato. Negli anni Settanta può così trionfare quello che autori come Boltanski e Chiapello hanno definito “il nuovo spirito del capitalismo” (7): l’esaltazione della soggettività “desiderante” da parte dei nuovi movimenti, che si allontanano progressivamente dall’impegno per la difesa dei bisogni proletari, diviene adesione inconsapevole a una nuova cultura capitalista che fa leva sulle pulsioni consumiste, sull’edonismo individualista “emancipato” da ogni legame sociale e sulla critica radicale della razionalità del limite in qualsiasi campo dell’esistenza e dell’agire umani.

Nel 68 Tronti non vede una svolta epocale, un grande inizio, bensì la fine, la conclusione del Novecento. Più che di un grande balzo trasformativo, si è trattato, alla fine dei conti, di un banale cambio di ceto politico, in seguito al quale la storia si è progressivamente convertita nello scorrere di “un tempo senza epoca”, nel quale ogni increspatura viene scambiata per una svolta epocale, mentre nessuna vera svolta è più possibile a fronte di una realtà caratterizzata dalla dittatura del presente, un presente che ignora passato e futuro. Se il grande Novecento è stato l’epoca delle grandi rivoluzioni – grandi anche nel loro tragico fallimento – la sua parte terminale è invece il tempo delle rivoluzioni immaginarie, fallite prima ancora di iniziare. Paradigmatico, in tal senso, il destino del femminismo, movimento nei confronti del quale Tronti confessa di avere inizialmente nutrito simpatia e interesse, almeno finché il “femminismo della differenza” è stato neutralizzato dal prevalere del proprio lato emancipatorio. Nel momento in cui l’emancipazione vince, la rivoluzione perde: avanzando verso l’uguaglianza fra generi le donne non sono salite ma scese sulla scala delle libertà; hanno acquisito nuovi diritti, ma i diritti qualsiasi società moderna è più che disposta a concederli, perché è consapevole che si tratta di un altro modo per assicurare il potere a chi comanda. Nella misura in cui l’emancipazione si è sviluppata in senso contrario alla differenza di genere, la politica della differenza si è piegata alla logica borghese di neutralizzazione e depoliticizzazione; la vittoria dell’emancipazione sancisce l’inclusione senza residui del femminile nel sistema. Si tratta un  destino condiviso da tutti i nuovi movimenti, i quali hanno finito per soccombere, più che di fronte alla repressione o a minacce totalitarie, al trionfo di una democrazia intesa esclusivamente come emancipazione individuale, di un progetto che mira a isolare l’individuo e a impedirgli di entrare in rapporto con altri individui, a costruire una massa atomizzata agevolmente manipolabile.

Giudizi analoghi, tanto più amari in quanto implicano una dura autocritica delle sue antiche tesi, Tronti esprime nei confronti della deriva postoperaista. Si potrebbe dire, argomenta, che il “peccato originale” dell’operaismo è la sua concezione immanente del processo rivoluzionario, vale a dire l’idea secondo cui il principio del superamento è inscritto nelle dinamiche stesse del modo di produzione capitalistico. Si tratta di un principio di immanenza che si rovescia perversamente in principio di cattura, sintetizzato nello slogan secondo cui occorre essere dentro-contro il rapporto di capitale, dopodiché, non essendoci più alcun fuori, non c’è alcuna possibilità di fuoriuscita. Da qui  l’illusione di poter battere il capitale sul suo stesso terreno, che è quello dell’accelerazione-intensificazione dello sviluppo (sociale, politico e culturale, oltre che economico). Illusione, argomenta Tronti, perché “nessuno può essere più moderno del capitale”, nessuno può batterlo a un gioco di cui controlla ogni mossa e ogni regola. La critica di Tronti affonda fino al nocciolo duro della teoria operaista (e tocca qui i più espliciti accenti autocritici), vale a dire fino all’idea secondo cui la soggettività operaia rappresenta, al tempo stesso, l’unico vero motore dello sviluppo capitalistico e il principio immanente del suo rovesciamento. “Abbiamo forse caricato gli operai di un progetto eccessivo”, ammette (8), e la nostra illusione è svanita nel momento in cui è apparso chiaro che “la rude razza pagana” non ce l’avrebbe fatta a rovesciare il capitale. Né avrebbe potuto farcela, perché gli operai rappresentano sì una parte, ma una parte interna al capitale (si potrebbe dire che la scoperta trontiana dell’autonomia del politico, è stata la scoperta che aveva ragione Lenin: la coscienza spontanea degli operai non supera la coscienza tradeunionista e può divenire rivoluzionaria solo attraverso l’organizzazione politica).

Il pessimismo tragico di Mario Tronti si oppone  all’ottimismo euforico di Antonio Negri, l’altro grande vecchio dell’operaismo italiano. Incapace di prendere atto della natura contingente del ciclo di lotte dell’operaio massa, e tantomeno disposto a rinunciare al dogma secondo cui è sempre la forza lavoro a determinare lo sviluppo del capitale, Negri cerca di proiettare il carattere spontaneamente antagonista dell’operaio massa su una successione di figure prive di consistenza reale: dall’operaio sociale alla moltitudine. Tronti liquida la metafora dell’ “operaio sociale” come un tentativo di “fabbrichizzare” il sociale, di estendere la qualità dell’antagonismo di fabbrica al sociale diffuso, che viene sovraccaricato di coscienza anticapitalista per compensare il declino di potenza dell’operaio tradizionale. Quanto alla moltitudine, più che rappresentare una nuova forma di soggettività di classe, rispecchia il processo di atomizzazione sociale generato dalla ristrutturazione capitalistica. Negri e altri tentano di negare l’evidenza proponendo una lettura “biopolitica” dell’antagonismo fra capitalismo immateriale e lavoratori della conoscenza: visto che il capitale mette oggi al lavoro la vita stessa, il conflitto non è più fra capitale e lavoro, bensì fra capitale e umanità intera. Ma questa visione si regge su uno sfrenato ottimismo tecnologico che attribuisce al capitalismo immateriale il merito di avere realizzato la profezia dei Grundrisse: fine della legge del valore e transizione immediata al comunismo, resa possibile dal fatto che i lavoratori della conoscenza sono in grado di assumere il controllo di un processo lavorativo già compiutamente socializzato grazie alla loro cooperazione spontanea. Un discorso  che ignora il fatto che i mezzi di produzione e i prodotti immateriali sono in grado di confiscare più di ogni altro l’attività lavorativa umana e di egemonizzare le coscienze di lavoratori e consumatori (9). Contro  l’imperativo che impone di essere ipermoderni, celebrando ogni accelerazione nell’evoluzione tecnologica come un balzo in avanti verso il comunismo, si erge la diffidenza trontiana nei confronti della natura demonica della tecnologia, nonché l’invito a riconoscere il lato conservatore delle rivoluzioni novecentesche, la loro resistenza nei confronti dell’innovazione come arma di colonizzazione del sociale da parte  del capitale.

  1. Un rivoluzionario conservatore

La visione trontiana della rivoluzione presenta notevoli analogie (del resto rivendicate in più occasioni) con quella di Benjamin (10). Al pari del grande eretico della Scuola di Francoforte, Tronti considera le rivoluzioni novecentesche come altrettanti tentativi di opporsi all’invasione della società da parte dei barbarici istinti animali del capitalismo. Il peccato originale di larga parte della cultura marxista è consistito nel descrivere la rivoluzione socialista come  il compimento della rivoluzione borghese, come un’accelerazione verso la modernità. Questo punto di vista era profondamente radicato nella Seconda Internazionale e nella Socialdemocrazia tedesca che ne costituiva il nerbo teorico e organizzativo, un punto di vista sintetizzabile nella convinzione che il progresso tecnologico, lo sviluppo delle forze produttive, avrebbe automaticamente determinato la transizione a una forma sociale più avanzata di quella capitalistica. Criticando questa illusione, Benjamin, citato da Tronti, diceva che “non c’è nulla che abbia corrotto i lavoratori tedeschi quanto la persuasione di nuotare con la corrente”. Lo stesso Tronti aggiunge che, a partire da un determinato momento storico, l’imperativo a essere moderni (che per i postoperaisti diviene l’imperativo a essere assolutamente moderni) coincide di fatto con l’essere per lo sviluppo della società capitalista. Contro questa concezione continuista del progresso umano, secondo cui l’innovazione capitalistica è necessariamente destinata convertirsi nell’innovazione socialista, si contrappone il punto di vista discontinuista della rivoluzione d’ottobre guidata da Lenin, l’idea di una volontà rivoluzionaria che interrompe bruscamente il flusso “normale” degli eventi storici, una  brusca interruzione che impone con la forza le ragioni della riproduzione sociale contro quelle del progresso economico e che fa sì, secondo Tronti, che la rivoluzione del 17 somigli più alle rivoluzioni conservatrici che a quelle borghesi. Questa auto rappresentazione del proprio pensiero come “rivoluzionario conservatore” si fonda oltretutto su un radicale pessimismo antropologico: diversamente da Rousseau e dai suoi emuli contemporanei di sinistra, Tronti non crede a una umanità che nasce “buona” ma poi viene corrotta dalla società (per cui basterebbe riformare quest’ultima per eliminare il male dal mondo), ma è convinto che il male sia radicato nella natura stessa dell’uomo, il che rende ancora più fondamentale la missione civilizzatrice del politico.

Purtroppo, come si è visto, per Tronti l’appello alla centralità del politico non può che suonare nostalgico dopo la catastrofe antipolitica di fine Novecento. A venir meno, infatti, è stato lo spirito rivoluzionario di una classe che non si fondava sulla sua capacità di incarnare l’interesse generale di un popolo, di una nazione o dell’umanità intera bensì, al contrario, sulla natura costitutivamente di parte dei suoi interessi. Che ne è di questo punto di vista irriducibilmente di parte in un mondo in cui il soggetto operaio sembra essersi dissolto nella massa individualizzata? La risposta di Tronti suona decisamente spiazzante se non addirittura enigmatica laddove scrive che “il punto di vista operaio non esiste più, rimane il punto di vista” o, con parole ancora più radicali che “l’odio di classe non esiste più, resta l’odio”. Con queste due affermazioni, Tronti sembra dirci che, mentre la parte non dispone più di un soggetto, né di un progetto, che la rappresentino, esistono ancora la possibilità e la volontà di opporsi al tutto, all’ordine complessivo, alla “forma di vita” dominante così come essa si esprime in politica, in economia, nella cultura, nell’agire quotidiano.

In altre parole, per sopravvivere a se stessa la politica dovrebbe transitare dalla contestazione dei rapporti di produzione alla contestazione di un’intera civiltà, lo spirito dell’inimicizia  non dovrebbe più rivolgersi solo contro il capitale, bensì contro l’intera civiltà occidentale. Così, dopo avere ironizzato sulla retorica dei principi e dei valori occidentali che accompagna le reazioni agli attentati degli integralisti islamici, Tronti afferma che quei valori e quei principi non sono i suoi e, benché non ritenga giusto attaccarli in quel modo, ciò non lo induce a difenderli in nome della difesa di uno stato di cose che considera turpe. Insomma: l’ultimo Tronti non è divenuto un pensatore pacifista, al punto che, ricordando le sue conversazioni con Miglio e Bobbio ai tempi in cui erano tutti e tre in parlamento, racconta come Miglio – con grande scandalo di Bobbio – avesse affermato di considerare la vendetta come la categoria politica più importante, e che lui, al contrario di Bobbio, si era riconosciuto in quell’affermazione, associandola al detto di Benjamin secondo cui non si combatte per le generazioni a venire, bensì per vendicare le sofferenze e i soprusi degli antenati asserviti. Questa postura vale anche per il tema della guerra, rispetto al quale Tronti dichiara  di non avere mai condiviso l’utopia di un mondo pacificato: meglio riconoscere che la dimensione della guerra fa parte della natura umana e che, più che esorcizzarla, occorrerebbe “civilizzarla” (tema squisitamente schmittiano). Una funzione venuta meno dopo la caduta del Muro e la fine della guerra fredda, eventi che hanno inaugurato l’era delle “guerre umanitarie” in cui il nemico è stato ridotto a criminale, legittimando qualsiasi mezzo per annientarlo. Donde il monito a una classe politica che, avendo smarrito la capacità di interpretare la geopolitica, non sa riconoscere, né tantomeno governare, le trasformazioni di un mondo che minaccia di innescare conflitti distruttivi non più fra nazioni ma fra interi continenti. A questo punto si fa pressante l’interrogativo sulle ragioni di quella che ho sopra definito la paradossale fedeltà del Tronti militante al PCI, pur in presenza delle degenerazioni in senso neoliberale di quel partito e dei suoi eredi.

  1. Perché questo “vecchio bolscevico” è rimasto con gli aborti politici partoriti dal PCI?

Sarò sincero: questa domanda per me resta a tutt’oggi priva di una risposta accettabile, per cui mi limito a elencare qui di seguito le motivazioni che lo stesso Tronti mi ha fornito nel lungo dialogo che  abbiamo avuto qualche anno fa (11), motivazioni che considero a dir poco inconsistenti, dopodiché  proverò a formulare una ipotesi sul vero errore di prospettiva che sta alla base di una scelta apparentemente inspiegabile. Le motivazioni addotte nell’occasione appena accennata sono sintetizzabili in quattro punti che ruotano attorno al concetto che Tronti sintetizza con la necessità di “essere bolscevichi”.

Uno. Essere bolscevichi, argomenta, significa essere maggioritari, scegliere di operare laddove si concentra la forza necessaria per cambiare le cose. E’ per questo motivo, sostiene che ha fondato la rivista Classe Operaia, prendendo le distanze dall’esperienza minoritaria di Quaderni Rossi, e quando anche Classe Operaia divenne una setta, ha deciso di rientrare nel PCI, perché convinto “che occorra sempre stare nel grosso della forza anche se non corrisponde alla mia idea”.

Due. Essere bolscevichi, aggiunge, vuol dire comprendere la necessità del professionismo in politica. Non la politica come mestiere, bensì la politica come beruf, il termine weberiano che compendia in sé i significati di professione e vocazione. Tronti considera necessaria la professione politica perché non crede nell’ottimismo democratico che attribuisce a tutti i cittadini la capacità di decidere, per cui rifiuta la retorica sulla democrazia partecipativa.

Tre. Essere bolscevichi significa inoltre diffidare dell’estremismo: “La politica cammina su due gambe, il conflitto e la mediazione, se cammina solo sulla prima abbiamo l’estremismo, se cammina solo sulla seconda abbiamo l’opportunismo” (evidentemente non ha saputo/voluto prendere atto che la politica delle formazioni in cui ha militato per decenni camminava solo su quest’ultima gamba)

Quattro. Essere bolscevichi significa infine essere realisti: ”Il realismo”, dice, “si misura sulla durata delle conseguenze che tu attribuisci al tuo agire”, per cui, se vuoi che tali conseguenze durino, a volte devi rinunciare a determinati principi e valori, perché è più probabile che tu riesca a realizzarli se il tuo progetto dura nel tempo, mentre, se ti intestardisci a volerli mettere in atto qui, subito e a qualsiasi costo, andrai quasi certamente incontro al fallimento.

La mia ipotesi è che il vero motivo dell’abbaglio trontiano risieda nella quarta motivazione. Tronti ci dice di avere scelto di collocarsi laddove si concentra la forza per il cambiamento, sacrificando valori e principi ai vincoli dettati dalla contingenza storica in vista di una loro possibile, futura ripresa e realizzazione. Ma a quali vincoli “oggettivi” si riferisce? Mi pare evidente che qui entra in campo, in barba a molte delle intuizioni critiche formulate dallo stesso Tronti, una visione rimasta costantemente maggioritaria nel marxismo occidentale, vale a dire quella secondo cui nessuna volontà rivoluzionaria può avere ragione delle “leggi” economiche dello sviluppo capitalistico, nonché degli scenari geopolitici “sovradeterminati” da tali leggi. Così il “realismo” trontiano ricade però in una visione della storia come processo lineare, unidirezionale, animato da una necessità immanente, “naturale”, in palese contraddizione con le sue riflessioni sul politico come rottura del flusso “normale” degli eventi storici.

Se qualcosa ho potuto imparare da Tronti è quindi solo grazie alle lezioni di altri maestri che, come Gyorgy Lukacs (12), mi avevano vaccinato contro le insidie del determinismo e del meccanicismo. Ecco perché, malgrado questa pur grave debolezza del Tronti “realista” – che gli amici delle sinistre radicali non gli hanno mai perdonato –, resto convinto che nessun progetto di ricostruzione di un punto di vista rivoluzionario possa prescindere dal suo contributo teorico su temi quali l’autonomia del politico, i disastrosi effetti dell’infatuazione del marxismo occidentale per il progresso tecnologico e lo sviluppo economico; la critica della svolta individualista delle culture di movimento (e la loro conseguente cattura da parte del campo liberale); la rivendicazione della tradizione novecentesca della logica amico/nemico e del punto di vista di parte associato alla lotta di classe. Per quanto riguarda in particolare quest’ultimo punto, mi preme citare tre frasi estratte da altrettanti scritti recenti: “il cemento dell’amicizia politica è una ben specifica e determinata e consaputa inimicizia sociale, non uno stare con ma uno stare contro”; “compito del partito è oggi semplificare politicamente la complessità sociale. Tornare a dividere l’uno in due al di là di tutte le apparenze sistemiche”; “che una parte va ricostruita è indubbio, altrimenti non c’è partito né politica, ma quale parte parte, strutturata come, riferita a cosa, in quale forma organizzata”. Rispondere agli ultimi quattro quesiti è il compito di qualsiasi forza politica intenzionata a rilanciare una prospettiva anticapitalista.

* Fonte: PER UN SOCIALISMO DEL XXI SECOLO

Note

(1) M. Tronti, Operai e capitale, Einaudi, Torino 1966.

(2) F. Milanesi, Nel Novecento. Storia, teoria, politica nel pensiero di Mario Tronti, Mimesis, Milano 2014

(3) In questo scritto farò riferimento soprattutto alle seguenti opere di Tronti: Noi operaisti, DeriveApprodi, Roma 2009; Dall’estremo possibile, Ediesse, Roma 2011; Dello spirito libero, il Saggiatore, Milano 2015.

(4) Vedi, in particolare, M. Revelli, Oltre il Novecento. La politica, le ideologie e le insidie del lavoro, Einaudi, Torino 2001.

(5) Cfr. J-F. Lyotard, La condizione postmoderna. Rapporto sul sapere, Feltrinelli, Milano 1981.

(6) F. Fukuyama, La fine della storia e l’ultimo uomo, Rizzoli, Milano 2003.

(7) L. Boltanski, E. Chiapello, Il nuovo spirito del capitalismo, Mimesis, Milano-Udine 2014.

(8) Cfr. M. Tronti (a cura di C. Formenti), Abecedario ( con due Dvd); DeriveApprodi, Roma 2016.

(9) Sulla capacità del neocapitalismo digitale di plasmare l’identità e la cultura di lavoratori e consumatori cfr. P. Dardot, C. Laval, La nuova ragione del mondo. Critica della razionalità neoliberista, DeriveApprodi, Roma 2013. Vedi anche il mio Felici e sfruttati, Egea, Milano 2011.

(10) Per una ricostruzione del pensiero “antimoderno” di Benjamin vedi A. Visalli, Classe e partito, Meltemi, Milano 2023.

(11) Vedi Abecedario, op. cit.

(12) Cfr. La mia Prefazione a G. Lukacs, Ontologia dell’essere sociale (4 voll.), Meltemi, Milano 2023. vedi anche C. Formenti, Ombre rosse. Saggi sull’ultimo Lukacs e altre eresie, Meltemi, Milano 2022.

 

 




UN BILANCIO DELLE ELEZIONI IN SPAGNA di Manolo Monereo

Bisogna partire dalla cosa più importante: il sistema elettorale, ancora una volta, ha penalizzato le forze minoritarie, continua a erodere gravemente il reale pluralismo del Paese e sta svilendo la democrazia costituzionale. Come ha validamente sostenuto Javier Pérez Royo, le norme che regolano il diritto di partecipazione politica sono precostituzionali e materialmente incostituzionali; favoriscono il bipartitismo e, fondamentalmente, assicurano il potere di chi governa ma non si candida. La prima condizione per ridare il mandato a Pedro Sánchez sarebbe dovuta essere cambiare il sistema elettorale, tutto il resto è secondario; insisto, secondario. Alla fine questa sarebbe stata la prova del nove che si fa sul serio, che si vuole davvero cambiare le cose e sconfiggere le destre.

Torniamo alle elezioni del 23 luglio. I sondaggi disegnavano almeno due scenari: a) un ritorno al 1996, cioè una maggioranza di destra precaria e debole e un Psoe che in ripresa, come sempre, trasformando le proprie debolezze in punti di forza. Era, ricordiamolo, il tempo in cui Aznar parlava catalano e negoziava con il “movimento di liberazione nazionale basco”; b) il quadro del 1977, cioè un ritorno a un “bipartitismo imperfetto”, dove Vox avrebbe occupato il ruolo di Alianza Popular e Sumar quello di un PCE rafforzato. Mi interessa questa formulazione di Iván Redondo perché ci consente di introdurre un’idea — che lui tuttavia non sviluppa — che mi sembra centrale, e cioè che queste elezioni hanno avuto per le destre unificate il carattere di una “sbarramento di regime”, di chiusura del ciclo (quello del 15M), di restaurazione su nuove condizioni del quadro politico-costituzionale. I risultati, lo sappiamo tutti, non sono stati quelli previsti dai sondaggi. Alla fine, quello che c’è è un pareggio strategico tra due blocchi, uno guidato dal PP e l’altro egemonizzato dal PSOE; Il fatto che detto pareggio sia o meno “catastrofico” dipenderà dalle soluzioni politiche in contesti, non va dimenticato, di mutamenti sostanziali nei rapporti di forza nel sistema-mondo e, per quanto ci riguarda, nell’Unione Europea.

Le strategie elettorali sono state abbastanza simili a quelle applicate nelle elezioni regionali e comunali, ma con mutata posizione degli attori. Il “tutti contro Sánchez” è stato sostituito da un “tutti contro il governo di coalizione PP/Vox” facendo della paura l’asse di una campagna che il PSOE è andato trasformando in una “coalizione difensiva” che alla fine ha raggiunto il suo obiettivo: impedire il governo delle destre unificate. Il Partito Popolare, spinto da sondaggi troppo favorevoli, ha messo in atto una strategia che minimizzava i rischi e lasciava ai propri media il grosso delle munizioni offensive. Dopo il dibattito con Sánchez, Feijoo pensava di aver vinto la partita e che l’importante fosse mantenere il vantaggio e non perdere; grande errore, soprattutto nel caso di Sánchez. PSOE e Sumar, apparsi per la prima volta in campagna, sono passati all’offensiva e si sono dedicati, con successo, a smantellare la figura del candidato Núñez Feijoo e a svelare i contenuti degli accordi tra PP/Vox in diverse comunità autonome.

La campagna di Sumar è stata chiara fin dall’inizio: essere la sinistra complementare del PSOE. La complicità mostrata tra Sánchez e Yolanda Díaz è stata fatta al servizio del governo di coalizione da un chiaro impegno a favore della sua riedizione. Non c’è mai stato spazio per la differenziazione e per l’esercizio di una strategia autonoma. Non entro in tema di liste, veti o fuoco incrociato tra diverse formazioni politiche. Né mi addentrerò in un aspetto che ritengo decisivo, la mancanza di un’analisi seria e dettagliata del motivo della debacle elettorale nelle passate elezioni autonome e comunali. Quello che si può dire è che Sumar non è riuscita a invertire la tendenza al declino di Unidas Podemos, in un contesto dominato da un’aggregazione di forze senza precedenti (più di 15) e da un sostegno mediatico sconosciuto per quello che viene chiamato lo spazio a sinistra del PSOE. I dilemmi strategici della formazione di Yolanda Díaz sono ancora tutti lì nella speranza di restare al governo. Sumar è stato progettato per accompagnare Pedro Sánchez e rendere praticabile la riedizione di una nuova maggioranza parlamentare con le forze sovraniste e indipendentiste.

La realtà politica ha diverse facce che non sempre si manifestano. Si parla ancora di polarizzazione e bipartitismo politico come cose diverse. Non si tiene conto del grande consenso esistente tra le forze politiche più significative. I poteri costituiti sono riusciti a strappar via al dibattito pubblico, niente di più e niente di meno, la guerra in Ucraina, l’indiscusso e indiscutibile sostegno alla politica militare della NATO, il massiccio invio di armi nella zona del conflitto o il sostanziale aumento del budget delle spese militari. La sinistra, in pratica, come mezzo di consenso per governare, è diventata atlantista e ha finito per assumere la politica estera statunitense, che mira a organizzare la sconfitta politico-militare, economica e tecnologica della Cina. Parlare della politica di difesa e sicurezza della Spagna come se fosse un problema più paragonabile al dibattito sul reddito minimo vitale equivale al non sapere bene dove si sta e quali rischi corrono le nostre popolazioni.

È sorprendente che forze che ostentano un europeismo rigoroso ed esclusivo accettino, senza discussione e senza dibattito pubblico, le mutazioni in atto nell’Unione Europea. L’asse franco-tedesco non funziona più, la leadership politica è esercitata con forza crescente dalla Nato e il centro di gravità del potere continua a spostarsi fortemente verso est. L’Ue vive, in pratica, in uno Stato di eccezione permanente che sta sostanzialmente modificando la sua “costituzione materiale”. Il rialzo dei tassi di interesse, la lotta all’inflazione riconvertita in obiettivo fondamentale, il ritorno alle regole del risanamento fiscale [Patto di Stabilità, NdR] sono dati di una realtà, di una correlazione di forze politico-sociali che puntano al predominio di un liberismo conservatore e fortemente autoritario. Meloni non fa eccezione. All’orizzonte la deindustrializzazione dell’Europa, una crescente dipendenza energetica e tecnologica dagli USA e la riduzione delle libertà pubbliche e dei diritti sociali.

L’estrema polarizzazione, come denunciano con insistenza i media, funziona nascondendo il consenso di fondo e si esercita in uno spazio colonizzato dal pensiero liberal-conservatore. La polarizzazione avviene tra una destra sempre più dura e vendicativa e una sinistra debole, senza progetto e — va sottolineato — sulla difensiva. L’unica cosa che fa la differenza, per ora, è la difesa dei diritti sociali. Si dice che non ci sia stata sconfitta politico-culturale proprio quando la Spagna conosce un pareggio strategico tra blocchi e la destra è stata sull’orlo della maggioranza assoluta. Rifiutarsi di vedere la realtà così com’è e confondere le voci con gli echi è sempre un preludio alla sconfitta. Questa polarizzazione (asimmetrica) favorisce il bipartitismo e spinge a destra il sistema politico. La restaurazione ha fatto molta strada.

Quali le via d’uscita? Fondamentalmente due: governo di grande coalizione o elezioni anticipate. Entrambi sono correlate e saranno pilotate con mano ferma da Pedro Sánchez. Il candidato del PSOE cercherà, prima di tutto, di dimostrare l’isolamento di Feijoo e la sua incapacità di stringere alleanze con forze diverse da Vox. Sánchez non ha fretta e stabilirà bene il ritmo; in secondo luogo, eserciterà una forte pressione su Junts [indipendentisti catalani, NdR], rendendoli responsabili di un’eventuale ritorno alla urne. Non bisogna dimenticare che i migliori risultati del PSOE sono stati in Euskadi e in Catalogna. Ripeto, entrambe le soluzioni —  chiedere nuove elezioni o la possibile formazione di un nuovo governo di grande coalizione — sono correlate e fanno parte di un unico gioco strategico. Ogni atto, ogni iniziativa sarà pensata in chiave elettorale. Presto i media di destra — e non solo loro –+— passeranno all’offensiva; le parole chiave saranno stabilità e governabilità.

La sinistra a sinistra del PSOE (la subalternità è epistemica) è obbligata a un dibattito strategico. Sono scettico che accadrà e che l’opzione di governare con il PSOE sia già predeterminata. Temo che il dibattito programmatico sarà debole come nella fase precedente e che le questioni decisive continueranno ad essere eluse; tuttavia, insisto, il dibattito strategico è assolutamente necessario. Se Sumar ha mostrato qualcosa, è la sua debolezza organica, la sua eterogeneità e la mancanza di un progetto credibile. Non è una novità e viene dai tempi di Unidos Podemos. Ad ogni elezione, più progressi del bipartitismo, meno voti ed erosione della base militante e dei legami organizzati nei territori. Sumar gioca nel territorio e con le regole dei partiti sistemici e questo ha un grande peso. Far parte di un governo come quello che sta arrivando potrebbe finire per essere la fine di una sinistra alternativa spagnola con l’ambizione di trasformare davvero il Paese. I venti stanno cambiando in peggio ei margini di manovra si stanno restringendo sempre di più.

La sinistra, a mio avviso, dovrebbe porre l’accento sulla sua ricostruzione programmatica, politica e organica, avviando un processo costituente. Le invenzioni, le scorciatoie, le mosse mediatiche hanno vita breve, soprattutto quando stiamo vivendo momenti di eccezione, di transizioni geopolitiche accelerate, cambiamenti storici. Si può favorire un governo senza esserci, riorganizzandosi nella società e costruendo un’alternativa autonoma dal punto di vista delle classi subalterne. La condizione preliminare è rompere con il politicismo e avere un proprio pensiero all’altezza delle sfide dei tempi. Il nostro non è mai stato facile.




COSTANZO PREVE: A DIECI ANNI DALLA SCOMPARSA di Federico Roberti*

Chi nega la natura umana, e lo fa da “sinistra” convinto che si tratti di un concetto conservatore e reazionario  (confondendo così l’uso ideologico del concetto, con la sua pertinenza filosofica e ontologica), non capisce purtroppo che proprio il carattere generico della natura umana stessa è il principale fattore di impedimento alla stabilizzazione di una dittatura manipolatrice, non importa se ispirata al materialismo dialettico di Stalin o al fondamentalismo sionista-protestante di Bush. Se l’uomo non fosse un ente naturale generico, in cui la creatività e la reazione all’oppressione sono elementi non solo storici ma radicati nella più intima struttura antropologica, non scommetterei neppure dieci euro sulle possibilità dei movimenti di resistenza.

Costanzo Preve [1]

In Italia la classe dirigente è sottomessa ai poteri forti. E prospera servendoli, fingendo di governare e amministrare la cosa pubblica autonomamente. Forte del fatto che il popolo non ha neppure il coraggio di ammettere chi è che comanda davvero. Va vista come una nobiltà, che è fedele al re, eseguendone gli ordini; è solo divisa in due fazioni che si scontrano per la supremazia a corte:“destra” e “sinistra”, questa includendo anche buona parte della magistratura.

Si scontrano due concezioni dell’essere subalterni e venduti a danno dei cittadini. I “baroni”, la destra, vogliono fare i feudatari, in modo che come vassalli possano avere una certa autonomia sui loro feudi, e taglieggiare il popolo anche per loro vantaggio, oltre che per conto del re. I “mandarini”, la sinistra e i magistrati, vogliono eseguire i voleri predatori dei poteri forti come “saggi” funzionari e ottenere con questo di campare riveriti e forti, senza sporcarsi troppo le mani con ruberie personali. Non si sa quale fazione sia peggio per le persone comuni; che farebbero bene a non parteggiare per nessuna delle due. Il Covid, e in generale le frodi biomediche strutturali, mostrano come in alcuni casi i mandarini possano essere ancora più zelanti e quindi ancora più nocivi, nello stracciare la Costituzione e il diritto e opprimere il popolo, dei baroni che vogliono stabilire un diritto di predazione anche per loro stessi mentre predano per il re.

Francesco Pansera [2]

Per Costanzo Preve l’essere quale metafora della comunità è comprensibile solo attraverso la pratica filosofica e ciò rappresenta l’indispensabile premessa per ogni prassi politica. La prassi va coniugata con la teoria per superare il nichilismo della tecnocrazia, mentre dal canto suo il circo mediatico fornisce risalto solamente alle filosofie innocue per le oligarchie dominanti. Vi è dunque filosofia dove ci si congeda dalle mode, smarcandosi dai semplicismi per fondare la verità. Verità che non si fabbrica e non si possiede, ma alla quale ci si può accostare senza mai renderla proprietà personale.

Allontanarsi volontariamente dagli stereotipi e dalle false verità propalate dal circo mediatico fa in modo che la filosofia diventi attività veritativa di una comunità umana che si pone finalità ontologiche. In Costanzo Preve vi è la compresenza di più registri linguistici poiché la filosofia non deve rinchiudersi in nicchie specialistiche; essa è il viaggio intorno all’essere umano e pertanto i filosofi devono insegnare l’ascolto e che le critiche sono mezzi per umanizzarsi e ritrovarsi tra persone affini.

La politica esiste solo se l’essere umano pensa e definisce la propria natura, in un lavoro della spirito che può essere inibito dalla destrutturazione dei corpi medi della democrazia. Il nichilismo tecnocratico, ideologicamente ateo ed anticomunitario, eleva il proprio peana all’individualismo come mezzo per smantellare la politica e le sue pratiche comunitarie e ridurre l’essere umano ad un atomo consumante che non percepisce la necessità della comunità nelle sue forme plurali.

IL DIALOGO

La politica è possibile solo mediante un percorso di ricerca comune nel quale la dialettica non sia considerata divisoria ma una pratica comunitaria ed in quanto tale già pratica politica.Viceversa, la chiacchiera è il sintomo di una mancanza dell’essere, quindi non costituisce semplicemente un’operazione mediatica ma l’espressione della patologia che ammorba il corpo sociale. La chiacchiera consolida l’irrilevanza della parola ed insegna che se il pensiero è impotente, il Potere può tutto. Le sue parole sono riproduzione del sistema dominante che governa a mezzo di un perpetuo chiacchiericcio, la cui infondatezza non è un impedimento per la sua diffusione ma anzi un fattore determinante che la favorisce. In fin dei conti, “la chiacchiera è la possibilità di comprendere tutto senza alcuna appropriazione preliminare della cosa da comprendere” (cit. Martin Heidegger, “Essere e tempo. L’essenza del fondamento”).

La chiacchiera forma personalità indifferenti e docili armenti, plebi le quali si disperdono tra i significanti che circolano nel sistema diventando oggetto del Potere . Essa riduce la vità in comunità a mera comunanza, peculiarità tipicamente degli animali, mentre il dialogo è comunità ed è solamente degli esseri umani. Il circo mediatico addestra i popoli all’esercizio della chiacchiera per privarli del pensiero e della prassi politica utopico-rivoluzionaria; esso, senza alcuna distinzione fra destra e sinistra, è oggi sostanzialmente unificato nel suo ruolo di istupidimento passivizzante del corpo sociale. Agenti di influenza (influencers) vengono ingaggiati per deviare l’attenzione dal presente e dalle sue mostruose contraddizioni verso il vuoto della chiacchiera. La regressione verso di essa è strumento massimamente efficace per spingere singoli e gruppi nell’immaginazione pubblicitaria del consumo e del desiderio di consumo illimitato; il disimpegno dal pensiero diviene disimpegno dalla politica, con l’effetto non casuale di legittimare il concentrarsi di ricchezze in oligarchie che gestiscono il discorso pubblico, mentre i popoli plebeizzati rimangono sudditi e precari, in attesa che le briciole cadano dal tavolo dei privilegiati.

L’operazione per giungere alla verità attraverso il dialogo è difficile e provoca resistenze a cui è connessa, oggi, la censura perpetrata dagli agenti di influenza per spingere i dissenzienti politicamente scorretti verso una posizione di invisibilità sociale. Tuttavia, la verità resta e si rivela nel tempo.

Il dialogo non è semplice scambio di significati, ma un incontro integrale dall’esito non prevedibile purché i soggetti che vi partecipano siano disponibili al parlare con franchezza e si dispongano alla possibilità che le loro tesi possono essere contraddette e persino negate. L’esperienza dialogica può avvenire se i soggetti si orientano a lasciare gli ormeggi delle proprie opinioni e, attraversando il mare instabile del confronto, giungere a nuovi porti, a nuove solidità concettuali. L’attività dialogante è comunicazione nell’ascolto che prevede temporalità lunghe e si opera in una cornice amicale. Il dialogo è formazione poiché dinanzi alle resistenze che interiormente possono emergere non si sfugge ma ci si predispone ad ascoltarle con l’intento di conoscere e conoscersi; il dialogo è campo di battaglia, non solo con l’interlocutore ma soprattutto con sé stessi.

DESTRA/SINISTRA

L’irrilevanza della destra e della sinistra è la condizione della commedia politica nell’epoca del capitalismo assoluto. Esso, resosi autonomo da ogni vincolo etico, dissimula dietro immagini, slogan e frasi ad effetto il vuoto progettuale di entrambe gli schieramenti. Il suo fine ultimo, improcratinabile è riformulare la verità sulla natura umana, la quale deve perdere la capacità di calcolare con il pensiero e dunque di tracciare il limite.

La dicotomia fittizia e politicamente corretta destra/sinistra serve ad occultare la dicotomia reale tra oligarchia dominante e democrazia declinante; la realtà va celata neutralizzando le domande che possano far emergere collettivamente la consapevolezza di questa nuova dicotomia. La dicotomia destra/sinistra serve non solo a nascondere l’arroganza oligarchica ma anche l’impossibilità effettiva, da parte dei professionisti della politica, di assumere decisioni sovrane e strategiche. L’unico elemento di empatia che ormai si può riscontrare in loro è l’infantile esibizionismo col quale cercano di conquistare la simpatia e l’approvazione del popolo plebeizzato.

Se la politica è il luogo in cui le opposizioni sono create ad arte per normalizzare il male, destra e sinistra interpretano il ruolo di vestali della tragedia della globalizzazione. L’omologazione tra i due schieramenti favorisce la desertificazione dell’immaginario culturale, poiché il pensiero si muove entro confini angusti che confermano il modello di società attuale. Dinanzi all’impossibilità di sospettare che il presente non sia tutto, si rafforzano comportamenti consumistici e nichilisti, per cui la possibilità di scelta, il libero arbitrio riguarda le merci e le esperienze “consumabili” ma non il destino proprio e della comunità di riferimento; si possono scegliere solo i mezzi per conseguire le finalità consentite dal Potere, compensando con forme di narcisismo esasperato la minaccia confusamente avvertita del nulla che incombe.

Destra e sinistra sono il mezzo mediante il quale il capitalismo assoluto vince ogni liturgia elettorale a prescindere dai risultati dei partiti in competizione, in una perenne opera di riduzione della democrazia a ritualità formale senza sostanza dove si afferma una sorta di dittatura del Centro. Il meno-peggismo ed il male-minorismo, spacciate come teorie politiche, sono in realtà semplici strumenti volti a scongiurare la disoccupazone di ceti politici professionali. Tale omologazione, sintomo di un pensiero stagnante che ha necrotizzato la dialettica, dovrà confrontarsi (e in alcuni casi, già si confronta) con le contraddizioni delle gabbia d’acciaio entro la quale vuole rinchiudere i popoli; presto non sarà possibile aggirare il declino del Pianeta, la proletarizzazione dei ceti medi, lo squallore antropologico e soprattutto l’inaudita concentrazione del potere e delle ricchezze. Mano a mano che le contraddizioni sopite verranno al pettine, l’elaborazione di una alternativa politica, dotata di memoria storica, non sarà rimandabile; salvare la memoria non è infatti un atto neutro ma una scelta che denuncia l’anomia del presente e l’urgenza di una rinnovata progettualità.

Perché la globalizzazione liberalcapitalista non è l’ultima parola della storia e il pensare liberamente è nell’essenza naturale umana.

OLTRE DESTRA/SINISTRA

Oltre destra/sinistra vi è la comunità, dove si afferma il valore d’uso e non quello di scambio. Una rivoluzione che sia metafisica ed ontologica deve partire da una visione integrale dell’essere umano, in modo che ogni possibile riforma economica e politica non divenga preda di regressioni.  Solo con l’individuazione del problema primo dell’Occidente liberale, cioé la dimenticanza della sua fondazione ontologica, si può comprendere che la tragedia etica dell’oggi, presuntamente irreversibile secondo i cantori del capitale, esige il coraggio di una metafisica all’altezza dei tempi.

Oltre destra/sinistra va smascherato il ruolo di “puparo” del gioco delle contrapposizioni che il capitalismo assoluto svolge affinché la conflittualità sia orizzontale e non verticale e la vera contrapposizione tra democrazia ed oligarchia sia celata. Se il demos detiene il solo diritto formale al voto, esso non decide ma è vittima delle manovre oligarchiche che neutralizzano la sua capacità decisionale mediante la manipolazione dell’informazione e riducendo la sua educazione a formazione professionale. Le oligarchie dominanti svuotano la democrazia consentendo solo la sopravvivenza dell’istituto giuridico formale in modo da evitare l’emergere del conflitto. Il demos deve agire intervenendo nelle lotte intestine dei dominanti per aprire una breccia che può diventare l’inizio della trasformazione se i dominati hanno gli strumenti per decodificare tali lotte e se ci sono progetti politici alternativi.

Oltre destra/sinistra vi è quello che Costanzo Preve denomina “comunitarismo democratico”, nel quale il soggetto umano non è negato nella sua individualità ma vive lo spirito comunitario nella consapevolezza della sua essenza sociale. Di fronte alla società dei bisogni indotti che non riconosce alcun fondamento comune e atomizza l’individuo nella solitudine, il soggetto umano del comunitarismo democratico definisce i propri bisogni autentici con la mediazione del logos e si emancipa perché scopre che la realtà storica è posta dall’uomo e può quindi essere trasformata. In questo quadro l’economia risponde ai bisogni autentici delle persone liberamente associate e non ha come fine la soddisfazione degli appettiti del Mercato.

Oltre destra/sinistra la religione non è una malformazione della cultura umana ma esprime il bisogno profondo di partecipare ad un comune destino. Se Dio è metafora della comunità, l’ateismo del capitalismo assoluto vorrebbe banalizzare la religione in quanto essa è un residuo di resistenza all’individualismo economicistico. In ambito cristiano Gesù è stato condannato a morte perché voleva riportare misura e giustizia dove vigeva concentrazione oligarchica della ricchezza, rappresentando egli il simbolo all’aspirazione mai sopita all’uguaglianza solidale. Oggi la Chiesa, dopo aver tacitato la portata rivoluzionaria della figura di Gesù, ha visibilità solo se contribuisce alla pacificazione sociale con attività di sostegno agli ultimi. L’avversione al cristianesimo e alle religioni in genere si compie non in nome della libertà ma in quello del capitale, e la secolarizzazione non è il trionfo della razionalità contro l’irrazionalità della fede ma il processo di sostituzione di un clero tradizionale con un nuovo clero mediatico che ha la funzione di legittimare le oligarchie dominanti facendo trionfare i canoni dell’esteriorità e dell’apparenza.

Oltre destra/sinistra il comunitarismo rappresenta una valida alternativa al capitalismo assoluto e globalizzato se non si riduce ad essere un organicismo conformista nel quale la comunità prevale sul soggetto umano a prescindere dal volere e dall’indole di quest’ultimo, con argomenti ambigui che non possono essere accolti da quegli spiriti liberi ai quali bisogna in primo luogo rivolgersi. In questo senso la comunità rappresenta la soglia di interazione tra l’individuo concreto e l’umanità, è il luogo dove si incontrano la libertà e la solidarietà. “Una libertà senza solidarietà è una illusione narcisistica destinata a sparire quando l’umana fragilità materiale costringe anche l’individuo più riluttante a relazionarsi con i suoi simili. Una solidarietà senza libertà è una coazione umanitaria estrinseca…” afferma Costanzo Preve.

Oltre destra/sinistra a fronte dell’uso incontenibile delle reti sociali, il culto dell’immagine e l’idolatria dell’iconico senza contenuto la democrazia comunitaria sostiene il contatto diretto tra i soggetti umani, la tensione tonica degli sguardi e delle parole senza cui la partecipazione è una breve parentesi di scarso significato nello scorrere della quotidianità.  La partecipazione diretta rafforza l’unità e la dialettica mentre la distanza della dimensione virtuale struttura relazioni nelle quali più facilmente i soggetti possono sottrarsi alle tensioni ed ai dubbi, facendo venire meno la responsabilità comunitaria e politica. Politica ed etica comunitarie possono affermarsi solo in relazioni partecipate, dove il dialogo neutralizzi eventuali titanismi, narcisismi e forme di nichilismo.

Oltre destra/sinistra il capitalismo assoluto ottunde le masse popolari con il nuovo oppio dei popoli denominato consumismo, mentre la coscienza infelice e la sofferenza vissuta dalle stesse masse sono imprescindibili fonti di ispirazione e presupposti di una progettualità politica comune. L’alienazione è medicalizzata al fine di renderla condizione permanente che si deve imparare a sopportare, adeguandosi ad uno stato di nichilismo passivo. Se il capitalismo assoluto coltiva l’impotenza del soggetto umano, nel nuovo umanesimo auspicato da Costanzo Preve vi è calcolo del limite di ogni bisogno. Di tale umanesimo filosofia, religione, arte e scienza sono fondamenti disinteressati e sganciati dall’ideologia totalitaria dell’utile e del plusvalore, attività permanenti del soggetto umano in quanto essere ad un tempo naturale e sociale.

Oltre destra/sinistra  il comunitarismo democratico è la risposta alla reificazione che il capitalismo assoluto fa della natura umana ridotta a semplice entità da utilizzare in funzione del Mercato, in un processo trasversale che riguarda tutti i ceti sociali ai quali si applica un potere omologante che non solo omogeneizza i gusti ma anche passivizza le indoli, causando passioni tristi e debilitanti. Dato che l’essere umano si determina nello spazio e nel tempo, l’illimitato spazio geografico della globalizzazione non consente una partecipazione reale. Al contrario la democrazia comunitaria esige spazi razionalmente gestibili di partecipazione fattuale, altrimenti è solo forma senza sostanza. La partecipazione altresì è indissolubilmente legata all’educazione intesa come veicolo, di lungo percorso, per giungere alla capacità di indagare le ragioni di ogni evento; solo un’educazione libera dai condizionamenti del potere dominante, che non sia confusa con un conformismo imposto dall’alto, può formare la persona sviluppando integralmente le capacità di ognuno. Ogni assetto democratico si misura sulla capacità della comunità, non solo quella scolastica e/o accademica, di essere educante nei confronti dei cittadini suoi membri.

Oltre destra/sinistra il comunitarismo democratico di Costanzo Preve non prevede il superamento dialettico marxiano dello Stato ma anzi il suo rafforzamento, in quanto esso deve farsi garante delle forme mediate con le quali il cittadino partecipa alla comunità. Lo Stato è l’istituzione che permette la difesa e la memoria delle identità culturali e linguistiche, dando nutrimento ad una forma di patriottismo dove per patria si intendono le identità di cui sopra, che non devono essere azzerate per farne invece il collante della comunità e della sua libertà, respingendo ogni tentativo di imporre un dominio ideocratico come l’attuale “ombrello protettivo” statunitense sull’Italia e l’Europa intera.

Destra/sinistra è una dicotomia che sopravvive oggi come finzione e tragicommedia, in un interregno contraddistinto da dosi sempre più massicce di violenza pubblica e privata perché ciò che è vecchio non vuole tramontare; l’inizio di un “mondo nuovo” è possibile solo abbandonando le logiche faziose degli schieramenti e disponendosi a comprendere la necessità della libertà dall’asservimento allo stereotipo.

Il grande limite nella contemporaneità è la diffusa indisponibilità all’impegno, ma ciò non deve costituire una giustificazione all’inazione. Bisogna invece uscire dalle pastoie delle lamentele, ognuno impegnandosi nel limite delle proprie possibilità per costruire una alternativa politica credibile. Con i suoi scritti, rivolti a tutti coloro i quali vogliono evadere dalla cappa dell’anomia, Costanzo Preve ha osato riaprire la catena dei “perché”; i destinatari non possono più essere i cosiddetti militanti ma tutte le persone che vogliono riflettere e comprendere, del tutto indipendentemente da come si collocano o non si collocano nel teatrino politico. L’appartenenza è nulla, e la comprensione è tutto.

* Fronte del Dissenso Emilia Romagna

* * Il presente saggio è una libera rielaborazione dei contenuti di “Pratica filosofica e politica in Costanzo Preve”, scritto da Salvatore Bravo e pubblicato dall’Editrice Petite Plaisance nel 2021.

NOTE

  • [1] “Marx inattuale”, Bollati Boringhieri, Torino 2004, p. 161
  • [2] https://menici60d15.wordpress.com/2023/07/10/baruffe-di-corte-i-baroni-della-destra-e-i-mandarini-della-magistratrura/



UNA SEPARAZIONE NECESSARIA

«Il più disgraziato e pernicioso prodotto del fascismo è l’antifascismo»

[Amedeo Bordiga]

Al culmine di una breve controversia interna, alcuni attivisti hanno deciso di abbandonare il Fronte del Dissenso. Di seguito il documento con cui il Direttivo Nazionale espone le vere cause del dissidio e le ragioni che hanno reso la separazione un atto necessario di buon senso.

*   *   *

Tre sono le condizioni che debbono essere soddisfatte per poter convivere in armonia nella medesima comunità politica: condivisione piena del programma e degli scopi, osservanza delle regole interne, massima lealtà e rispetto verso i compagni di partito. Quando queste condizioni vengono a mancare — divergenza sugli scopi, violazione delle regole, disprezzo fino alla diffamazione dei propri compagni anche all’esterno dell’organizzazione —, ogni coesistenza è impossibile e, la separazione, un atto inevitabile.

Nemmeno due mesi e mezzo fa, a coronamento di una fase di crescita e consolidamento, il Fronte del Dissenso ha celebrato la sua Assemblea nazionale Costituente, conclusasi con l’approvazione di un Manifesto che a premessa afferma:

«Oggi l’umanità, alle prese con un passaggio inedito, deve sciogliere il dilemma: accettare o impedire che venga alla luce la creatura che il sistema del capitalismo globalizzato porta in grembo. Al mostro in gestazione abbiamo dato un nome: Cybercapitalismo.

(…)

Chi non prende atto delle incalcolabili conseguenze dei mutamenti in corso, chi non riesce a individuare il nuovo nemico e l’ideologia di cui si serve, chi resta prigioniero del passato, è condannato all’irrilevanza politica. Non c’è possibilità di battere il nuovo nemico accettando i suoi paradigmi, dobbiamo invece opporre un’alternativa visione dell’uomo e del mondo. La ricaviamo attingendo all’immenso deposito spirituale di idee, cultura e di esperienze delle differenti civiltà da cui raccogliamo gli ideali universali di libertà, fratellanza ed eguaglianza sociale. Rivendicare le migliori tradizioni della nostra civiltà non significa tuttavia disconoscerne le responsabilità e i nefasti sviluppi. Per questo condanniamo il colonialismo, l’imperialismo e il razzismo in ogni loro forma.

(…)

Siamo rivoluzionari consapevoli che per poter cambiare il mondo occorre prima di tutto conservare tutto quanto in esso c’è di vitale, di sano, di imprescindibile. Non siamo tuttavia reazionari: il rispetto delle tradizioni non giustifica nessuna nostalgia oscurantista. Difendiamo le conquiste sociali strappate dai lavoratori nel corso della storia. Difendiamo i diritti di libertà ottenuti dalle rivolte giovanili e dei movimenti delle donne degli anni ’60 e ’70 del secolo scorso, diritti che l’élite oligarchica ha cannibalizzato strumentalmente per far passare la sua concezione aberrante di progresso».

Questo Manifesto, che in maniera inequivocabile traccia la nostra direzione di marcia e disegna la nostra identità politica, ha incontrato alcune resistenze interne. Protagonisti di queste resistenze proprio coloro che hanno abbandonato il Fronte. Di che tipo di opposizione si trattava? Di eredi, pur a vario titolo, della tradizione ideologica della sinistra comunista novecentesca. Per costoro non saremmo in presenza di alcun salto di specie del sistema capitalistico, i cui mutamenti sarebbero invece solo di facciata; l’élite dominante è una classe reazionaria, anzi intimamente fascista; di qui la difesa integrale dell’eredità del comunismo novecentesco, ivi comprese le sue nefandezze. Posizioni molto distanti da quelle espresse nel Manifesto.

La speranza che si potesse convivere con questa tendenza si è rivelata vana. Quella che poteva essere una ricchezza per la stessa crescita teorica dell’organizzazione si è purtroppo rivelata un fardello. La resistenza è diventata una vera e propria opposizione con lo scopo recondito di trasformare il Fronte in un ennesimo e inutile gruppo di estrema sinistra.

Tra i diversi modi coi quali questa tendenza poteva venire allo scoperto i fuoriusciti hanno scelto il demagogico camuffamento dell’antifascismo. Ci è stato infatti chiesto di assumere la “discriminante dell’antifascismo democratico e costituzionale” come costitutiva e suprema cifra della nostra identità politica.

Abbiamo respinto con fermezza questa pretesa perché sbagliata sul piano teorico e pratico, in aperto contrasto con lo spirito e la lettera del Manifesto. Sul piano teorico perché l’identità politica dipende dalla visione del mondo e non da una mera dichiarazione oppositiva ad una delle tante forme in cui si manifesta il dominio capitalistico — sotto le insegne dell’antifascismo stanno infatti le più disparate correnti ideali e politiche. E’ così significativo che i fuoriusciti abbiano aggiunto al sostantivo “antifascismo” gli aggettivi “democratico e costituzionale”, segno inequivocabile di subalternità a quello di marca liberal-borghese.

Se “anti” è prefisso che sta per opposizione noi siamo al contempo antimonarchici, antiliberisti, antimperialisti, antiatlantisti, antieuropeisti, antioligarchici. Posto che siamo anzitutto anticapitalisti l’elenco delle “discriminanti” potrebbe astrattamente, ma sterilmente continuare. No quindi ad una concezione oleografica del concetto di “discriminante”, che è invece criterio politico concreto: a seconda del momento storico e politico, del contesto sociale e nazionale, può prevalere questa o quella “discriminante” o possono darsene di nuove.

E’ forse il fascismo reazionario che abbiamo alle porte? Per niente, avanza al contrario, sotto le insegne di un nichilismo materialistico, il Cybercapitalismo, un mostro che si presenta come demiurgo del progresso tecnocratico senza freni, come paladino libertario dei “diritti umani”, come custode di un cosmopolitismo antinazionale, antistatalista e antifascista. Se è sommamente sbagliato scambiare il Cybercapitalismo per una reincarnazione del fascismo, è del tutto sterile invocare l’antifascismo in assenza di fascismo.

Un’etichetta, quella dell’antifascismo, non solo improduttiva ma disfunzionale alla nostra causa poiché invece di aiutare i cittadini a comprendere la nostra differenza con i soggetti politici al servizio del nemico principale, ci fa apparire come collaterali o peggio satelliti. Mentre occorre delimitare le zone semantiche di promiscuità col nemico; mentre si debbono usare concetti, parole e linguaggi per tracciare la linea che ci separa dal nemico; bisogna evitare di appiccicarsi addosso etichette che invece di fare chiarezza aumentano la confusione, la quale aiuta sempre i dominanti mentre disarma le classi subalterne. E’ un fatto che l’élite mondialista e i suoi ideologi squalificano tutti i loro avversari come “fascisti”: lo sarebbero Trump e Putin, Erdogan e Netanyahu, Le Pen e Afd. La Cina sarebbe un paese fascista come l’Iran e tutti gli “stati canaglia”. Una categoria politica è diventata così un marchio d’infamia e un superficiale sinonimo di regime autoritario e violento.

Ogni sforzo per mantenere la discussione politica e teorica su un piano di confronto dialettico razionale è stato vano. “Il mio animo è antifascista, io sono antifascista, è un sentire da cui non posso prescindere”. Si capisce, da questa affermazione di uno dei fuoriusciti, che per essi l’antifascismo è un religioso atto di fede: al posto del male ontologico il fascismo metafisico e imperituro.

Se c’era una residua possibilità di convivenza essa è stata minata alle fondamenta quando i fuoriusciti sono giunti a bollare alcuni nuovi militanti che erano appartenuti a movimenti di “destra sociale”, come “infiltrati fascisti”. Invece di ritrattare questa grave calunnia essi hanno accusato la direzione di “trasformare il Fronte in un movimento di destra” e di aver imboccato una “deriva reazionaria”. Non abbiamo solo considerato un dovere di lealtà difendere i militanti ingiustamente accusati, abbiamo rivendicato come un punto di forza del Fronte del Dissenso la capacità di accogliere cittadini di diversa origine politica e di accettarli come fratelli e sorelle, posto l’accordo sui principi e il non aver commesso crimini politici.

Si doveva difendere il Fronte del Dissenso come un’organizzazione politica, si doveva impedire ai morti di allungare le mani sui vivi, si doveva evitare che diventassimo una setta religiosa di sinistrati psicotici terrorizzati dall’idea di venir “contaminati”.

Si dice che le separazioni siano sempre dolorose ma spesso necessarie. Non sempre è vero che “l’epurazione rafforza l’organizzazione”.

Questa volta lo è.

Il Direttivo Nazionale del Fronte del Dissenso

11 luglio 2023




AUTONOMIA DIFFERENZIATA: IL GRAN RIFIUTO DEI SAGGI… di Nello de Bellis*

Mentre l’agenda politica e l’incalzante attualità  rimuovono continuamente i temi importanti e decisivi, che si sovrappongono gli uni agli altri, lasciando disorientati anche i più attenti lettori di cronaca, e non solo, una notizia ci sembra degna di considerazione: la decisione alcuni giorni fa  (4 luglio) del Comitato per i LEP [Livelli Essenziali delle Prestazioni] di dimettersi.

Le argomentazioni dietro questo gesto significativo sono ben note a chi segue l’iter della complessa vicenda. Le richieste di autonomia regionale differenziata, così come presentate da Veneto, Lombardia ed Emilia-Romagna, se accolte anche in parte, sono in grado di peggiorare significativamente la già precaria e difficile realtà del nostro Paese. I motivi sono quelli che gli osservatori e i critici di tale riforma, voluta dalla Lega, ribadiscono con forza da anni. Il primo è che si creerebbero regioni con poteri statuali a discapito del Governo centrale, il secondo perché tale statuto rimarcherebbe la differenza  tra aree forti e aree economicamente più deboli, privando cittadini e realtà economiche di queste ultime di beni e servizi essenziali per la stessa tenuta civile, il terzo che si avrebbe un indebolimento dello stesso potere legislativo avocato alle commissioni regionali, realizzando una secessione di fatto ( e di diritto).

Tale l’opinione persino della Commissione Europea, cui si è aggiunta quella dell’Ufficio Parlamentare di Bilancio e infine della Banca d’Italia.

Il primo ad esprimere profondi dubbi è stato il Professor Cassese, Presidente del Comitato LEP. A lui si sono aggiunti altri due ex Presidenti della Corte costituzionale, Amato e Gallo. Il Comitato, definito dal proponente del progetto di a.d., Calderoli,  “una mini Costituente”, aveva, com’è noto, il compito, spettante in realtà al Parlamento, di definire i livelli “irrinunciabili” di prestazioni cui si connettono concretamente i diritti  civili e sociali  per evitare evidenti e macroscopiche sperequazioni. Inequivocabile il giudizio dei dimissionari (bontà loro)  che definiscono l’attuale progetto attuativo al di fuori dei “binari definiti dalla Costituzione”. Giudizio forse tardivo ma esatto, non essendo un mistero per nessuno che l’intenzione della bozza Calderoli, neppure dissimulata, è quella di spaccare il Paese ed  attuare la “secessione dei ricchi”.

L’imbarazzo e le divisioni interne del Partito democratico  a riguardo si spiegano non solo con la dialettica interna di quel partito e la posizione autonoma del Governatore della Campania De Luca contro la Segretaria Schleyn, ma col fatto che l’autonomia differenziata è del tutto in linea con  il processo di regionalizzazione dell’Europa perseguito dall’UE e che vede come al solito nell’Italia il suo laboratorio di sperimentazione  avanzata.

Nè stupisce (se non qualche ingenuo digiuno di politica) il fatto che un progetto che costituirebbe “un formidabile colpo di piccone contro ciò che ancora sopravvive del nostro Stato e dell’unità della nazione” (Ernesto Galli della Loggia) sia avallato dal partito al governo che fin dal nome (ma evidentemente solo in quello) si  rifà all’unità e alla “fratellanza” degli Italiani. Esito inevitabile per chi ha cavalcato a spron battuto la retorica europeista degli ultimi 20 anni, che sono stati quelli del declino italiano all’insegna della moneta unica, dell’impoverimento progressivo del Paese, della frattura sempre più profonda e dolorosa tra Nord e Sud.

Il nostro impegno politico dev’essere quello, a partire dai territori, che non siano gli “unitaristi” dell’ultim’ora a tenere la testa del corteo.

* Fronte del Dissenso Campania