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E SE NON MI SENTISSI RESPONSABILE?!? di Filippo Dellepiane

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E se non mi sentissi responsabile?
Il grido di questi giorni è l’invito a riflettere sui propri comportamenti presuntamente sessisti e a domandarsi se si possa essere dei potenziali Filippo Turetta. Sarà che la mia risposta è chiara, ed è no, ma non mi sento responsabile in alcun modo. Dispiaciuto, arrabbiato certamente. Il lavoro che andrebbe fatto non è sulla persona (in questo caso consiglierei lo psicologo e non le bacheche instagram), ma sul sistema di soggezione che esiste a livello generalizzato, vale a dire la struttura di potere e di violenza sulla quale quasi tutta la società poggia.
È difficile parlare di questi temi, soprattutto dopo la fatwa che i gruppi femministi hanno fatto in questi giorni: gli uomini, i maschi, devono stare zitti e ascoltare le donne. Benissimo, un po’ di tempo è passato e si deve/si può finalmente prendere la parola, soprattutto prima che lo stesso sistema cancelli questa tragedia dalle tv. In questo mondo spietato, in questa società dello spettacolo dal continuo bombardamento di notizie senza però un concreto e genuino interesse di fondo, voglio dire la mia a costo di urtare animi e amicizie anche con ragazze dichiaratamente femministe.

Perché la colpa è sempre personale in questi casi
Io non mi sento responsabile e mai mi ci sentirò, a meno che non sia io stesso a commettere direttamente il crimine. Allo stesso modo dovrei sentirmi responsabile per la fame in Africa ma, nonostante la combatta nell’ambito di quel largo spettro di battaglie compreso sotto l’ombrello dell’antimperialismo, non mi sento di avere nessuna colpa. La colpa personale è cosa da tribunali, da processi burocratici o da confessionali coi preti. Essa non mi appartiene come categoria dell’anima a meno che non mi coinvolga direttamente. È la stessa responsabilità che ci attribuiva il potere durante il securitarismo sanitario, di essere cioè degli untori. In questo caso saremmo dei portatori, sani o malati, di un’intima tara patriarcale perché maschi. Come in quel caso piace guardare il dito e non la luna ovvero il sistema stesso di prevaricazione che è quello capitalista e neoliberista.
La cosa che mi fa più ridere è come il femminismo appiccichi tale etichetta su tutti i maschi, dimenticando comunque che un elemento di psicopatia in questi crimini efferati esista accanto ad elementi culturali. Tuttavia, se domani un immigrato clandestino stuprasse una ragazza italiana, esse (le femministe) giustamente contesterebbero la generalizzazione di prendersela con gli immigrati in toto, perché fallace e pericolosa. Possibile che per alcuni, così attenti alle corde più profonde e sottili dell’essere umano, non risulti altrettanto evidente il rischio di condannare gli uomini in quanto tale? Ma forse questa condanna è quella che si sta volontariamente perseguendo.
Non solo. L’idea della colpevolezza di una parte della popolazione, può essere applicata in ogni campo con risultati e fini estremamente diversi all’interno della storia. Un esempio? Se presupponiamo una colpa perdurante e resistente, i tedeschi ancora oggi dovrebbero essere nazisti e non avrebbero diritto ad uno stato. Gli ebrei sarebbero colpevoli, come sono stati additati per secoli, di una colpa trascendente, o ancora di aver ucciso Cristo. È come se dicessi a Moni Ovadia che, pur urlando oggi not in my name sulla questione israeliana, egli porta comunque una colpa addosso. Può darsi che egli la senta tale colpa, ma perché quando si distingue dalle azioni omicide del suo governo viene applaudito e considerato, mentre un uomo, legittimamente, non può discostarsi dall’azione di un suo fratello maschio? Dovrei sentirmi colpevole perché il mio presidente del consiglio invia armi all’Ucraina? C’è un grado di responsabilizzazione della società, insomma, di una parte di essa per lo meno, che gradirei vedere anche in tante altre cose.

I rischi e il non-sense di questo capro espiatorio
I luoghi del presupposto potere patriarcale sono occupati sia da uomini che da donne. Certo, si potrebbe semplicemente replicare che esistono leadership femminili e femministe come obiettò la Schlein qualche tempo fa sulla Meloni. Tuttavia due cose segnaliamo: anzitutto che se è guerra fra i sessi, allora che lo sia fino in fondo! Gli uomini stiano da una parte e le donne dall’altro. Secondariamente, nessuno dei due schieramenti è esente da problematiche. Buono a sapersi, in questi tempi di caccia al maschio. E comunque, dicevo, tale fatto è acclarato. Quando scoppia un incendio, diceva Rosa Luxemburg, è sempre meglio spegnere anzitutto quello che si ha in casa. E soprattutto quello che divampa fra le proprie fila. Parlo anzitutto di quei settori femministi che legittimano la mercificazione del corpo femminile giorno dopo giorno. A chi mi riferisco? A chi spende parole, frasi, tempo e libri interi proteso al riconoscimento dell’empowerment femminile sotto forma di sexworking, di onlyfans, cioè mezzi di estrema sessualizzazione femminile. La pornografia viene riconosciuta come un settore potenzialmente emancipatorio della donna quando invece non è che la riproposizione di un patto garantito da un medium alienante come il denaro, spacciato per una forma di consenso valida a tutti gli effetti. Si badi bene che in questa casistica non rientrano coloro le quali sono costrette a questo tipo di lavoro.
Il pensiero abolizionista è scomparso dall’orizzonte del pensiero femminista a partire dagli anni ’90 mentre nel loro schieramento sono stati inseriti quelli che possiedono sul proprio corpo il segno della presupposta prevaricazione della società fallocentrica, ovvero le persone transessuali, oggi le più sottoposte al traffico della prostituzione.
Ma i rischi sono anche altri. Ne cito alcuni. Anzitutto è ricomparsa in maniera preponderante l’idea di dover addestrare o addomesticare gli uomini. Un’idea che perlomeno adombra una natura maligna del maschio (prendiamoci confidenza con questo termine). Ma, si dice, è solo una questione culturale, non naturale e biologica. Beh se lo è, vale ancora meno l’argomentazione della colpevolezza; in senso stretto non si può essere colpevoli di qualcosa che non si è scelto. Si è colpevoli di ciò che si sceglie di fare, giusto?
Cosa comporta, però, tale idea di dover addomesticare gli uomini? I rischi, sinceramente, li vedo. Anzitutto la criminalizzazione dell’istinto sessuale in quanto tale. In una società in cui si incoraggia la sessualità liquida, ciò che è diverso dal diverso, piace poco. Non vorrei che fosse l’ennesimo tentativo di scardinare alcuni dati di ordinarietà della società (non si parla di qualcosa di “naturale” come fanno i naturalisti bigotti cattolici). Sfruttare, cioè, cinicamente una terribile tragedia per inserire un piede di porco nella porta e smontare pezzo per pezzo altri bastioni della società. Anzitutto, la famiglia.
Le transfemministe non ne fanno mistero, né l’hanno mai fatto. Eh sì, perché se è patriarcato lo è sino in fondo! In una certa lettura marxiana, principalmente di natura engelsiana e che il sottoscritto non ha mai amato particolarmente, questi passaggi esistono ed eccome. Ed esistono anche dentro alle ultime ondate (si chiamano così) del femminismo trans a partire dagli anni ’90, come la Butler ed altri.
Ma dicevo, mi immagino che cosa possa significare per un giovane ragazzo di 14/15 anni di sesso maschile sentire avanzare dalla parte delle sue coetanee l’odio per il maschile proprio come concetto. Il concetto stesso di maschile e femminile sono cardini all’interno dell’identità di una persona. Alcuni, con certo molte criticità e zone d’ombra su come raggiungano tale decisione, decidono di superare tale binarismo ma proprio in nome di una diade che esiste.
Se monta, dicevo, in maniera PRETESTUOSA, una più generale ed ingiustificata castrazione dell’uomo, si rischia di prendere una china pericolosa. Qua non è il solito trappolone dell’ideologia gender, termine da buttare via per l’uso sconsiderato e schizofrenico che se n’è fatto. Si parla, più direttamente, dei rischi concreti che si correrebbero nel processo evolutivo maschile ma anzitutto di una persona. Altrettanto sbagliato, perché ritardante, sul processo di crescita di una ragazza era, ed è ancora adesso per certi versi, interdirle di toccarsi in nome della promessa dell’uomo giusto a cui donare il proprio fiore.
Cosa comporta questo? Bollare come violento qualsiasi approccio, un po’ impacciato ma teneramente ingenuo, all’altro sesso inibendo così le persone in un’età dove tutto è più gentile, volatile e semplice sebbene possa non apparirlo quando lo si attraversa. Si fa così di tutta l’erba un fascio, del luna park delle emozioni umane un campo ancora più minato di quanto già la vita faccia. Si avvicina lo stupratore a chi non c’entra niente, quando il primo potrebbe meritare senza problemi spedizioni punitive stile anni ’70 contro chi spaccia.

I maschi : i nuovi mostri
Prendiamo un esempio: il linguaggio inclusivo è molto poco inclusivo ed irenico con chi non la pensa come questi pasdaran del linguaggio. Banalità? Forse, ma il collettivo transfemminista di Ladispoli (città a caso divenuta famosa per il mitico leone Kimba) scriverà sempre i/le/x compagn/compas e mai i/le/x celerin*. Allo stesso modo fanno queste attiviste con gli uomini.
Esse sono veramente imperterrite nell’odio che propagandano: esse non parlano di uomini, esse parlano di maaaschi. I maschi, come nella prospettiva pure della cantante Dua Lipa “will be boys…but girls will be women (i ragazzi rimarranno ragazzi… ma le ragazze diverranno donne)”. Le donne da contrapporre ai maschi, le civili agli incivili, i secondi come prospettiva migliore dei Peter Pan imperituri e, nel caso peggiore, stupratori. Una cosa pericolosa e non poco, un tentativo di dipingere letteralmente il 50% della società mondiale come stupratori. In realtà è proprio come si fa oggi con la Palestina omologando tutti i palestinesi come “terroristi”. Il bello poi che i collettivi femministi e transfemministi sono pieni di bavosi personaggi maaaschi pronti a fare di tutto per avere considerazione e che, a dispetto della loro natura green e intersezionale, si dimostrano a volte i peggiori personaggi e aguzzini nelle coppie.

Patriarcato o questione femminile?
In Italia esiste un problema razziale? È evidente, nel 2016 in italia i reati di matrice razziale erano più di 800. Eppure nessuno si sogna di dire che in Italia oggi vige l’apartheid, semplicemente perché è falso. Uno stato razzista è esistito in Sudafrica ed esiste a danno del popolo palestinese, esso è scolpito nella pietra. Cerchiamo di prendere questi termini in maniera asettica e neutrale, senza accezioni qualitative, per far sì di capirci meglio. Per esempio, in Italia esiste uno stato teocratico? Per quanto la Chiesa abbia molti fedeli e sia ingerente, la risposta è no. Sarebbe nuovamente sbagliato e fuorviante. Eppure, ne sentiamo di persone discriminate per il proprio credo, primi fra tutti gli atei infastiditi dal comportamento di turno del cattolico integralista. E perché mai dovrebbe esistere il patriarcato? Leggiamo cos’è il patriarcato: secondo la treccani esso è «In antropologia, il tipo di sistema sociale in cui vige il ‘diritto paterno’, ossia il controllo esclusivo dell’autorità domestica, pubblica e politica da parte dei maschi più anziani del gruppo». Non mi pare che questa dinamica sussista oggigiorno. Alle donne non è forse permesso su un piano formale di accedere alle elezioni, al cda di un’azienda? Non esistono padrone (al plurale femminile) e padroncine? Sfruttatrici, agenti donne della digos? Ministri donne?
Certamente esiste una componente di discriminazione, a partire dalla questione salariale. Allora perché non parlare piuttosto di questione femminile come fece già a suo tempo Lenin? Esiste una questione femminile? Certo che esiste ed è nostro compito occuparcene come è il compito di ogni militante che si batte per un sistema egualitario combattere per le minoranze senza, tuttavia, inalberarsi in concezioni assurde che fanno risalire a peccati originali il male di tutte le cose. Che del patriarcato esistano sacche, trascinamenti, cadaveri putrescenti pare a tutti evidente. Ma la crociata contro il maschio che c’entra con questo?
Non sono forse, anche loro, sfruttatori e sfruttati? Come si può costruire una lotta di questo tipo con un tessuto sociale così variopinto, in cui esistono diversi rapporti di potere, in cui tutto non è bianco o grigio ma si compenetra? In cui insomma non vi è una classe specifica? Una prassi devota al realismo politico parlerebbe di questione di priorità, visto che nel sistema capitalista non esiste in ogni caso uguaglianza.
Ad ogni modo, le questioni sarebbero davvero tante. Se ne può continuare a parlare, se ne deve forse. Trovo poco interessanti i commenti sulla sorella della vittima, la follia della maglietta cosiddetta satanista della marca trasher che ha mezzo mondo. La verità è che la ricerca da fare è profonda, nei nuovi (dis)modelli e in quelli che ci siamo lasciati alle spalle che forse tutti da buttare non erano. Ed ancora, nella cultura, nei testi delle canzoni, nelle tendenze di Tik Tok che incoraggiano al malessere, cioè alle relazioni tossiche. Insomma, proprio per dirla tutta, io la guerra dei sessi non ho proprio voglia di farla!
Per una volta, giusto per chiudere con una nota un po’ meno dolente, voglio schierarmi per il né né. Preferisco provare a cambiare il mondo veramente, non escludendo nessuno. Ma forse è già troppo tardi per tirarsi indietro dopo questo articolo.

2 pensieri su “E SE NON MI SENTISSI RESPONSABILE?!? di Filippo Dellepiane”

  1. Pugacev dice:

    Integrerei questo articolo interessante con quello sullo stesso tema del filosofo Andrea Zhok, reperibile ad esempio qui:

    https://infosannio.com/2023/11/22/in-attesa-delle-lezioni-di-educazione-sentimentale-di-sfera-ebbasta/

    Nel corso della sua argomentazione, il filosofo utilizza i dati di Eurostat per una comparazione europea sul fenomeno di omicidio volontario di donne:
    “Per un confronto numerico (2019), l’Italia presenta un dato di 0,36 “femminicidi” ogni 100.000 abitanti, la Norvegia 0,61, la Germania 0,66, la Francia 0,82, la Danimarca 0,91, la Finlandia 0,93, la Lituania 1,24.”
    Come si vede, gli ultraprogressisti ed emancipati scandinavi si contendono il primato con i baltici, mentre i piigs arretrati ed oscurantisti sono in fondo (Italia, Grecia, Irlanda), limitando a scambiarsi di posto anno per anno.

    Un dato ulteriore, che aggiungo io, è la tendenza Italiana, sempre da Eurostat: in 20 anni è andata calando, dallo 0,64 allo 0,36 ogni 100000 abitanti.

    Di converso, l’enfasi sui “femminicidi”, ma soprattutto sulla sua spiegazione mainstream è andata schizzando verso l’altro nei media mainstream, e di conseguenza nelle coscienze dei giovani globalisti, che si abbeverano a questi pozzi avvelenati.

    Cito questo passo di Zhok, che fornisce una spiegazione un po’ più plausibile del fenomeno:
    “Ecco, una volta messi giù questi dati, per quanto sommari, io credo che un’intepretazione molto più sensata delle eventuali radici culturali della violenza e dell’omicidio per futili motivi di donne sia rintracciabile nell’esatto opposto del “patriarcato”.
    Lungi dall’aver a che fare con ordinamenti famigliari estesi, vincolanti, con elevata normatività, tipici del patriarcato, ci troviamo di fronte a contesti dove le forme famigliari sono dissolte o in via di dissoluzione, dove i giovani crescono educati più da tik-tok e dai video trap che dalle famiglie, società dove peraltro da tempo la figura del padre latita ed è spesso definita dagli psicologi come effimera. In questi contesti, “modernizzati ed emancipati” si allevano in maggior misura identità fragili, disorientate, anaffettive, che si sentono costantemente sopraffatte dalle circostanze, e che perciò, occasionalmente, possono più facilmente ricorrere alla violenza, che è il tipico modo di reagire a situazioni di sofferenza che non si è in grado di comprendere né affrontare”

    Il mio parere è che la narrazione sul “femminicidio” è un tassello dell’immensa pressione ideologica globalista che vuole l’abbattimento di tutte le identità, le comunità e le forme tradizionali di solidarietà orizzontale, famiglia inclusa, per proiettarci meglio verso una società liquida, in cui i fattori indifesi possono fluttuare liberamente sulla sfera liscia del mercato.

    E’ chiaro infatti, che se la spiegazione delle pulsioni omicide del Turetta è dovuta al “patriarcato” (vedere Zhok per la distruzione di questa fiaba ideologica), la matrice del gesto risiede nel brodo culturale in cui è vissuto, e in particolare dell’educazione ricevuta del padre. Attendiamo che le femministe alla Judy Butler o le lezioni di Valditara sull’“educazione alle relazioni” innalzino il maschio italiano ad un livello scandinavo.

    Intanto l’Italia, alla faccia dell’indottrinamento di massa sui casi di omicidio volontario di donne, continua ad essere tra i paesi al mondo con minori tassi di questi delitti. Ma per quanto ancora?

  2. Ares dice:

    ->“Dovrei sentirmi colpevole perché il mio presidente del consiglio invia armi all’Ucraina?”

    Si se politicamente lo sostengo o quantomeno non mostro il mio non-supporto per le sue azioni visto e considerato che il presidente del consiglio è inteso rappresentarmi. Perché il male trionfi è sufficiente che il bene rinunci ad agire; possono quindi esservi responsabilità anche solo come omissioni (la ricerca della colpa individuale potrebbe quindi avere una qualche rilevanza politica oltre che essere “roba da preti”).
    Se nonostante le mie opposizioni (effettive e il più efficaci possibile) il presidente del consiglio persiste nelle sue scelte allora io posso essere dispiaciuto per tali scelte ma la colpa è del presidente del consiglio o soggetto terzo che nonostante le mie opposizioni o la mia contrarietà o il mio dispiacere continua a fare l’azione alla quale mi sono opposto.
    Se non riconosciamo le colpe anche magari più recondite dove vi sono rischiamo per fare come ai processi dei nazisti dove chi sta in basso dice che ha ricevuto ordini dall’alto e non immaginava di poter far obiezione di coscienza, chi sta in alto dice che lui dava ordini dall’alto che solo chi sta in basso eseguiva (vedendo questi le atrocità) e nessuno sarebbe mai responsabile di nulla.
    Dove però le colpe non ci sono non possono essere riconosciute.
    Ritenermi responsabile per l’atto soggettivo personale di una persona che non ho mai visto, non ha mai chiesto la mia opinione e non è collegata in nessun modo a me (se non per condividere magari sesso e grosso modo area geografica di appartenenza, aspetti che comunque non bastano a renderlo dipendente da me) è illogico. E, se mai ne avessi delle colpe a livello sociale, allora tali colpe (salvo rilevanti e analizzabili motivi di fare distinguo) sarebbero condivise da tutta la società , femmine, femministe e femmini-omicidi inclusi.

    ->“I luoghi del presupposto potere patriarcale sono occupati sia da uomini che da donne. ”

    Dovrebbe quindi essere evidente che il sistema patriarcale non è quindi il principale responsabile delle problematiche femminili. In passato se alcuni aspetti, ruoli, cariche, … non venivono concessi alle donne perché ritenuti meglio occupati da maschi potevamo supporre che la visione “patriarcale” fosse il problema. Oggi vi sono perfino casi di “quote rosa” dove dei posti sono esplicitamente riservati a donne invece che essergli impediti; ma non per questo tutti i problemi sono considerati “risolti”. (Se poi per gentilezza gratuita si è “naturalisti bigotti cattolici” nel sostenere alcune posizioni per motivi presumibilmente non condivisi dall’uomo gentile, che vi possa essere altrettanta gentilezza nel parimenti non indicare come determinanti come cause, o non richiamate come motivo determinante dell’ agire posto in essere, le medesime cause se non condivise dall’autore e da gran parte della popolazione e ritenute in genere non valide). Chi anche commette femminicidi in genere non inneggia nel momento in cui li compie al ripristino di uno stato patriarcale (ma presumibilmente ha un’ atten zione più incentrata alle reazioni con il corpo della vittima, ad esempio). Come ulteriore riprova, se provenissimo da una società “matriarcale” invece che “patriarcale” i femminicidi potrebbero avvenire lo stesso. E’ vero che alcuni background storici possono favorire una diversa concezione della situazione e agevolare magari alcuni processi, ma il femminicida non è in genere attento ai diritti umani al momento del delitto; potrebbe essere a favore del voto alle donne (cosa in passato non scontata) o per altro motivo favorevole a una qualche forma di pensiero femminista ma, probabilmente, non è questo che guida o non guida principalmente il suo agire al momento dell’omicidio. Diritti delle donne e femminicidi possano avere alcuni fattori a comune, ma nel complesso sono fenomeni potenzialmente diversi ed è possibile immaginare una società con scarso riconoscimento delle possibilità di impiego delle donne ma dove il femminicido è pesantemente represso così come una società dove le donne hanno facilità di accesso a posizioni anche di prestigio ma il femminicidio è più diffuso (un’ invidia fuorviata per il successo della donna potrebbe ad esempio essere motivo o concausa ulteriore in femminicidi). Peraltro l’attenzione mediatica dell’ultimo periodo è ben spesso soffermata sui femminicidi, considerati delitti e stigmatizzati, ma ciò non impedisce che avvengano., anche perché spesso si tratta di squilibri psichici o situazioni ad alto livello emotivo. In media il comune cittadino maschio non è coinvolto in processi di femminicidio per mancata corrispondenza alle ipotesi del delitto collegato; per quanto la società possa invogliare o supportare il femminicidio, evidentemente fornisce modi anche per evitarlo. Peraltro, in una società dove si sottolinea la parità di genere e, anzi, con l’ideologia gender si vuole mettere in discussione l’idea di dar rilevanza al sesso naturale in favore delle decisioni egocentriche del singolo) l’uccidere una donna da parte di un uomo è femminicidio e caso degno di attenzione mediatica, mentre se una donna uccide una donna o se viene ucciso un uomo la copertura mediatica è diversa. Nel rispetto della parità dei sessi, ogni essere umano è un essere umano è un omicidio è un omicidio; l’omicidio anche secondo l’ordinamento giuridico italiano può avere attenuanti aggravanti e l’imputato non è colpevole fino a sentenza a riguardo. Che sia una donna a uccidere un uomo, un uomo a uccidere un uomo, un uomo a uccidere la donna, può essere per legittima difesa o viceversa per efferata volontà criminale magari supportata da aggravanti. Il lavoro di indagine giudiziaria è però svolto dai giudici che si pronunciano a seguito di un processo e non quando la stampa dà notizia della situazione recepita con il presunto colpevole nemmeno disponibile per le pratiche giudiziarie.
    E’ vero che un’ educazione al rispetto reciproco, ad una soluzione congiunta dei problemi, una condivisione preventiva degli scopi e sviluppi attesi in una relazione, un dialogo e consapevolezza di sviluppi tra le parti, … possono migliorare la situazione ed evitare scenari peggiori, ma serve avere attenzione per tale condivisione e dialogo. Pensare al maschio come a un trogolodita antropomorfo non in grado di capire le donne può non essere l’approccio migliore per evitare il femminicidio, così come tenere approcci facili e non coinvolgere l’uomo nelle decisioni per poi rischiare di metterlo tutto insieme davanti ad un contraccolpo emozionale qualora questi individui alcuni elementi può non essere la strategia migliore per aiutarlo a tenere sotto controllo eventuali sregolatezze o pulsioni straordinarie di un momento. Altri approcci possono essere più efficaci invece di dover solo indicare a priori il maschio come chissà quale mostro.
    E anche i maschi non devono considerare “guerra tra i sessi” il vedere riconosciuto l’accesso a pari opportunità per taluni aspetti (mentre ovviamente potranno far valere i loro diritti se risultino discriminati su alcuni aspetti, come possano cercare di far valere i loro diritti le donne se discriminate).
    Episodi di bullismo giovanile poi mostrano che a reprimere le donne, specie in alcune dinamiche e aspetti sociali, non sono solo gli uomini, ma anche le donne stesse; insistere solo sul lato maschile rischia quindi di non cogliere l’interezza delle problematicità possibilmente presenti.

    ->“esistono leadership femminili e femministe ” al comando:
    parlando di questioni femminili si giunge al problema (sollevato almeno anche da parte femminile) se al comando vi sia una “femminista”; si parla di mancanza di parità di sessi e poi viene fuori che si guarda non se vi è possibilità di pari opportunità e se una femmina può essere al comando come un maschio, ma se una femminista è al comando: la ricerca di pari opportunità diventa una rivendicazione di ristrutturazione della società secondo non meglio specificati criteri ipotizzati essere “femministi”. Il problema è che le posizioni femministe, in passato più unite e rivolte ad obbiettivi concreti, sono in realtà discordi tra loro; facilmente l’uccisione di una donna suscita motivi di riprovazione e viene condannata da più gruppi, ma poi le considerazioni dei gruppi femministi si dividono; diversi sono i valori a cui si ispirano e gli scopi supportati o promossi. Come anche riportato nell’articolo, diverse sono le posizioni rispetto all’ideologia gender o anche rispetto al ruolo della donna, con il femminismo lipstick che sostiene che la donna ha il diritto di essere provocatrice anche sessualmente mentre femministe “della seconda ondata” sostenevano ad esempio che una donna che sia costretta a ricorrere al corpo per farsi apprezzare fosse svalutata (“sono una donna, non un corpo”, “se vuoi la carne vai dal macellaio” erano alcuni slogan di donne che protestavano in America nel 1968, mentre da queste parti forse qualcosa di analogo ma più noto potrebbe forse essere un certo ritornello “oltre le gambe c’ è di più”). Dietro alla questione “femminista” vi sono in realtà vari sistemi di valori e modi di vedere la società ciascuno con proprie indicazioni e, come sostiene l’articolo, alcune recepite più problematiche rispetto ad altre in certi sistemi di valori (la diversità di posizioni delle diverse correnti femministe evidentemente interseca in modi diversi idee di religioni o sviluppi sociali o civili, con conseguente maggiore o minore compatibilità di principi e quindi più o meno supportabili da certe ideologie o sistemi di pensiero).
    Parlare della questione femminile quindi rischia facilmente di disperdersi in vari approfondimenti di revisione della società, dei valori ad essa sottostanti, dei diritti intesi essere riconosciuti; solo restringendo l’orizzonte a campi di trattazione più isolati (ad esempio, l’ evitare che vi siano delitti compiuti solo a causa della diversità di sesso o l’assicurare parità di accesso a posizioni indipendentemente dai sessi) si possono affrontare argomenti più specifici. Altrimenti ovviamente i troverebbe a mettere a confronto sistemi di valori, ideologie, visioni del mondo, diverse e quindi si coinvolgerebbero ulteriormente dettagli civili, religiosi, sociali,…. con la necessità di dover allargare la discussione a interi sistemi. Ma , come sottolinea l’ autore, per una trattazione più neutrale delle questioni e non scendere in posizioni più specifiche dell’una o altra corrente femminista (anche per non doverle raffrontare con altri tipi di pensiero magari anche non femminista o strettamente femminista, alcuni dei quali potrebbero essere avvertiti come “naturalisti e bigotti”) occorre distaccarsi da pregiudizi e stigma sociale e soffermarsi sui singoli obbiettivi.
    Del resto anche da un punto di vista politico varie donne attivatesi in favore del femminismo hanno fatto richiami affinché al di là degli schieramenti politici possano mostrarsi e recepirsi necessità indicate legate alla questione femminile; ai fini di mantenere una condivisibilità più generale e meno legata agli sviluppi di una singola ideologia occorre soffermarsi sui singoli risultati intesi essere raggiunti ed evitare eccessi di stigma sociale o altre articolazioni ideologiche che più facilmente possono scontrarsi con alcuni (o molti) principi altrui.

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