Bancocentrismo. Tutti sappiamo che il modello pre-crisi era focalizzato principalmente sull’ erogazione dei prestiti – anche dovuto alla scarsa dotazione di mezzi propri di buona parte delle imprese italiane (circostanza alla quale non è estraneo un regime fiscale che tende a favorire l’indebitamento rispetto al capitale di rischio).
Effetti devastanti della crisi sull’attività delle imprese. Le istituzioni dell’eurozona sono in buona parte responsabili dell’avvitamento verificatosi nell’attività economica del Paese: se fossero intervenute prontamente e concretamente ai primi segni del precipitare della cosiddetta “crisi del debito sovrano” (cioè sin dal 2010) con quel “whatever it takes” pronunciato da Draghi due anni dopo e compiutamente implementato solo nel 2015, è plausibile ritenere che la crisi non sarebbe stata così grave e prolungata. L’Italia è stata invece costretta a praticare una politica di restrizione fiscale mentre era ancora in corso una stretta creditizia dovuta al prosciugarsi del canale di finanziamento interbancario; la conseguente, inevitabile recessione ha prodotto il concomitante ingigantirsi dei crediti deteriorati (alla perdita di circa un quarto del patrimonio industriale corrisponde grosso modo una pari incidenza dei crediti inesigibili sul totale dei prestiti) nei bilanci delle banche commerciali.
A loro volta, le politiche di allentamento monetario (QE e tassi a zero o negativi), messe in pratica con cinque anni di ritardo e quando ormai gli attivi bancari erano oberati dall’enorme macigno dei crediti ammalorati, hanno privato le banche dell’unico modo che hanno di assorbire le perdite accumulate, la possibilità di realizzare sull’intermediazione creditizia profitti sufficienti ad effettuare i necessari congrui accantonamenti.
Enter il fatidico “nuovo modello di business” predicato in primis dalla BCE ** (Draghi in testa). Le banche dovrebbero fare minore (anzi, per niente) affidamento sulla tradizionale erogazione di prestiti e diventare attori nei mercati finanziari, dovrebbero in altre parole adottare un modello più affine a quello delle investment banks, adoperandosi per accompagnare le imprese nella raccolta di fondi sul mercato in forma di equity e bonds (più o meno mini), facendo consulenza nelle operazioni di mergers and aquisitions e altre simili piacevolezze.
Tutto chiaro quindi? Tutto chiaro un corno! Tanto per cominciare si parla di modello di business delle banche come se questo non implicasse un analogo shift nel comportamento delle imprese, le quali ultime, lato passività, si portano dietro da sempre un atteggiamento bancocentrico. Ebbene, di punto in bianco, quando le banche non sanno che pesci pigliare per alleggerirsi dei fatidici NPL,voilà, si cambiano le carte in tavola e quello che poteva essere un percorso virtuoso se intrapreso gradualmente e di comune accordo diventa improvvisamente una procedura d’urgenza perché si è scoperto che il prestito bancario è diventato un frutto avvelenato (salvo poi lamentarsi che i fondi affluiti gratuitamente alle banche non traspirano all’economia reale).
In altre parole, dopo aver dato un contributo determinante alla demolizione del sistema bancario italiano, le stesse ineffabili istituzioni (quelle europee in testa – Commissione Europea, BCE, EFSF, ESM e così via acronimando – seguite dai loro mansueti esecutori italiani) ora invitano le banche superstiti a cambiare “modello di business”!
Invece di esortare le banche a “cambiare discorso” sarebbe opportuno mettere in pratica tutte le misure di politica economica idonee a sostenere la crescita (che non significa necessariamente mantenere indefinitamente tassi a zero), così da riportare in bonis l’attività creditizia e consentire alle banche di risanare progressivamente i propri bilanci.
Ho lasciato l’altro stakeholder, il risparmiatore, per ultimo perché pare proprio che i suoi interessi non stiano a cuore a nessuno. Sicuramente non alle autorità europee che non si sono fatte scrupolo di gettarlo nelle fauci dei bail in, né a quelle italiane (a partire da Bankitalia) che non hanno “visto” il danno che la normativa europea avrebbe inflitto alla tutela del risparmio (vide art. 47 Costituzione).
Risultato? I risparmiatori, comprensibilmente terrorizzati dal monito che ora le banche possono fallire, si stanno trasferendo in massa (un vero e proprio esodo biblico) verso i campioni del risparmio gestito. Tutto bene? Tutto bene un corno! Le masse enormi di fondi riposizionate sui mercati finanziari vanno ad alimentare l’acquisto di attività che si trovano a livelli grotteschi di sopravvalutazione, livelli determinati in buona parte dalle misure di allentamento monetario di cui parlavo. Sarebbe veramente paradossale che i milioni di ignari risparmiatori portatisi in salvo dalla Scilla del bail in bancario si trovassero fra un anno o due a schiantarsi su Cariddi per il crollo dei mercati finanziari (dove cali del 50% si sono verificati meno di dieci anni fa)!
I risparmiatori sono perfettamente informati (i “campioni del risparmio gestito” in questo hanno fatto veramente un buon lavoro) dei rischi di bail in; quanto siano consapevoli di quello che rischiano coi prodotti finanziari che vengono loro dispensati è tutto da vedere…
** Occorre dare atto ai regolatori di una certa coerenza fra inviti pronunciati e normative realizzate. Agli attivi delle Investment Banks, anche quelli meno liquidi, viene assicurato un trattamento più favorevole rispetto agli NPL delle banche commerciali in termini di assorbimento di capitale di vigilanza.