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IL MONDO NEL 2025

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[ 04 marzo 2010 ]

Analisi dell’ultimo Rapporto della CIA
Come gli americani immaginano gli scenari futuri dopo il crollo finanziario del 2007-08

di Samir Amin

La lettura dell’ultimo rapporto della CIA su «Il mondo nel 2025» non fornisce molte informazioni che un osservatore ordinario dell’economia e della politica avrebbe ignorato. Essa ci permette però di conoscere meglio il modo di pensare della classe dirigente statunitense e di identificarne i limiti.

Le mie conclusioni dopo la lettura del documento sono riassunte nei punti seguenti:

1. La capacità di previsione di Washington stupisce per la sua debolezza; si ha l’impressione che i rapporti della CIA siano sempre «in ritardo» rispetto agli avvenimenti, mai in anticipo;

2. Questa classe dirigente ignora il ruolo che i «popoli» giocano talvolta nella storia; essa ci dà l’impressione che le sue opinioni e le sue scelte contino da sole e che i popoli le seguano sempre, adattandosi, senza mai riuscire a metterle in discussione e ancora meno a imporre alternative diverse;

3. Nessuno degli «esperti» la cui opinione viene presa in considerazione immagina possibile (e ancor meno «accettabile») un modo di gestione dell’economia diverso rispetto a quello di cui l’economia tradizionale riconosce il supposto carattere «scientifico» (l’economia capitalista «liberale» e «mondializzata»), e non ci sarebbe dunque alternativa credibile (e possibile) al «capitalismo liberale»;

4. L’impressione che si ricava da questa lettura è che, oltretutto, l’establishment statunitense conserva solidi pregiudizi, soprattutto verso i popoli dell’Africa e dell’America Latina.

Il rapporto precedente – Il mondo nel 2015 – non aveva previsto che il modello di finanziarizzazione del capitalismo degli oligopoli doveva necessariamente condurre a un crollo, come è successo nel 2008, ed era stato previsto e descritto anni prima dagli analisti (François Morin, John Bellamy Foster oltre a me), critiche che gli esperti dell’establishment statunitense non lessero mai. Allo stesso modo, il fallimento militare in Afghanistan non era stato immaginato ed è dunque solo in quest’ultimo rapporto che è stata considerata l’idea di un parziale abbandono della strategia di Washington di controllo militare del pianeta – evidentemente a seguito del suo fallimento!

Ancora oggi quindi (in prospettiva del 2025) il rapporto afferma senza esitazione «che un crollo della mondializzazione» resta impensabile. La nostra ipotesi è al contrario che ci sia una forte probabilità di «de-globalizzazione» attraverso la costituzione di regionalizzazioni robuste e slegate (nel senso che i rapporti che queste regioni intenderanno allacciare tra loro non comprometteranno la loro autonomia).

«L’egemonia» degli Stati Uniti è ormai percepita come «intaccata»
 

In generale «l’egemonia» degli Stati Uniti, il cui declino è visibile da molti anni, ritenuta tuttavia «definitiva» nel rapporto precedente, è ormai percepita come «intaccata», ma sempre robusta.

È consuetudine che le classi dirigenti non immaginino la possibile fine di un sistema che assicura il perpetuarsi del loro dominio. Le «rivoluzioni» sono perciò sempre, per loro, non solo delle «catastrofi» ma anche degli incidenti imprevedibili, inaspettati e «irrazionali». Questa miopia fatale impedisce loro di uscire dal quadro di una pretesa «real-politik»(molto poco realista in realtà!) il cui percorso è delineato esclusivamente dagli effetti dei calcoli, delle alleanze e dei conflitti riguardanti le sole classi dirigenti. La geopolitica e la geostrategia sono allora strettamente racchiuse nell’orizzonte delle possibilità conformi a questi giochi. I ragionamenti sviluppati dagli analisti della CIA sulle differenti opzioni possibili per la classe dominante statunitense (e dei suoi alleati subalterni europei e giapponesi), in risposta a quelli dei loro avversari (i paesi emergenti, in primo luogo la Cina) e alle oscillazioni caotiche possibili degli altri, sono certamente fondati.

Resta il fatto che il ventaglio di obiettivi e di strategie messe in campo dagli Stati, le nazioni e i popoli alla periferia del sistema mondiale (si tratta dei paesi emergenti o di quelli che sono marginalizzati) è gravemente ristretto dal pregiudizio «liberale». La contraddizione fondamentale con la quale devono confrontarsi le classi dirigenti dei paesi in questione è ignorata. Che queste classi siano «pro-capitaliste», nel senso ampio del termine, non è discutibile, ma evidente. È chiaro che i loro progetti capitalistici non possano spiegarsi se non nella misura in cui le strategie intraprese costringano allora, e con successo, i centri imperialisti a fare marcia indietro. Il rapporto sottostima largamente questa contraddizione per accontentarsi di quello che ancora oggi pare corretto, cioè che i poteri in carica (in Cina, in India, in Brasile, in Russia e altrove) non mettono in causa (ancora?) i pilastri dell’assetto internazionale. Questo perché nella fase precedente del dispiegamento della mondializzazione, quella che è stata qualificata come «belle époque» (1980-2008), i paesi emergenti erano effettivamente arrivati a «trarre profitto» dal loro inserimento nella mondializzazione in atto. Ma questa fase è ormai conclusa e le classi dirigenti dei paesi coinvolti dovranno constatarlo e, pertanto, adottare delle strategie sempre meno «complementari» a quelle sviluppate dagli oligopoli dei centri imperialisti, e di fatto sempre più conflittuali con essi. Un fattore decisivo – ignorato dagli analisti della CIA – accelererà probabilmente tale evoluzione: la difficoltà di conciliare una crescita «capitalista» forte con risposte accettabili ai problemi sociali associati ad essa, con la quale si scontrano i poteri in carica nelle periferie del sistema.

Nessuna distinzione tra le classi dirigenti e quelle delle periferie

Gli esperti della CIA non fanno distinzione tra le classi dirigenti del centro imperialista e quelle delle periferie, dal momento che sono tutte «pro-capitaliste». Tuttavia, a mio avviso, questa distinzione è importante. Le classi dirigenti della triade imperialista – i servitori fedeli degli oligopoli – non sono effettivamente «minacciate», almeno nell’immediato futuro. Esse si occuperanno della gestione della crisi, fornendo se necessario qualche concessione alle rivendicazioni sociali. Al contrario le classi dirigenti delle periferie si trovano in una posizione più scomoda. I limiti di quello che può produrre la via capitalista sono tali che la loro relazione con le classi popolari resti ambigua. Delle evoluzioni nei rapporti di forza sociali, favorevoli per gradi diversi alle classi popolari, sono possibili e anche probabili. La convergenza tra il conflitto che oppone l’imperialismo alle nazioni e ai popoli periferici da un lato e quella che oppone il capitalismo alla prospettiva socialista dall’altro è all’origine della posizione difficile delle classi dirigenti pro-capitaliste al potere nel Sud del mondo.

Senza cogliere la natura di questa fondamentale contraddizione, gli esperti dell’establishment statunitense hanno considerato che l’opzione del «capitalismo di stato» (della Cina e della Russia) non sia valida e condurrà necessariamente prima o poi al capitalismo liberale. L’altra possibilità, che a loro sfugge, è che il capitalismo di stato evolva «a sinistra», sotto la pressione vincente delle classi popolari.

L’immaginario di Washington non va oltre il pregiudizio

Gli scenari delineati nel rapporto sono quindi poco realistici. L’immaginario di Washington non va oltre il pregiudizio secondo cui il successo stesso della forte crescita dei paesi emergenti rafforzerà le classi medie che aspireranno a loro volta al capitalismo liberale e alla «democrazia», definita, sia ben inteso, secondo la formula occidentale (pluripartitismo e sistema elettorale proprio della democrazia rappresentativa), la sola forma di democrazia riconosciuta dall’establishment in occidente. Che le classi medie in questione non aspirino alla democrazia poiché esse sanno che il mantenimento dei loro privilegi esige la repressione delle rivendicazioni popolari non viene in mente ai nostri «esperti». Di conseguenza, che la democratizzazione, associata al progresso sociale e non dissociata dallo stesso, come nel caso del modello di «democrazia rappresentativa» raccomandato, debba imboccare altre vie, è ugualmente estraneo al loro modo di pensare.

In generale, gli «esperti» del liberalismo ignorano la possibilità di un coinvolgimento dei popoli nella storia. Invece sopravvalutano il ruolo di «individui eccezionali» (come Lenin e Mao, ai quali sono attribuite le rivoluzioni russa e cinese, come se non ci fosse stata nessuna situazione oggettiva a rendere prevedibili tali rivoluzioni, qualunque sia stato il ruolo dei loro dirigenti!).

Quello che si può dedurre dagli «scenari», concepiti con un modo di pensare limitato degli esperti liberali, è ben poco. Molti dettagli interessanti (e senza dubbio correttamente inseriti), nessuna visione di insieme che convinca, visto che le contraddizioni fondamentali che danno senso e peso alle lotte e ai conflitti vengono ignorate.

Per esempio dalla lunga lista delle innovazioni tecnologiche che potrebbero imporsi non si impara granché. A meno che – ma lo sappiamo già – i paesi emergenti (la Cina e l’India in particolare) siano capaci di prenderne il controllo. La vera questione che qui si pone per questi paesi come per i paesi «benestanti» della triade riguarda l’uso di queste tecnologie, gli interessi sociali al servizio dei quali esse saranno messe in campo, i «problemi» per la cui soluzione possono contribuire e parallelamente i «problemi» sociali supplementari che questi usi generano. Nessuno di questi aspetti fondamentali è analizzato nel rapporto.

Gli esperti dell’establishment statunitense si interessano solo alle scelte «possibili» delle classi dirigenti dei «paesi che contano» (in primo luogo la Cina, quindi la Russia e l’India, poi l’Iran e i paesi del Golfo e infine il Brasile). L’Europa, a loro avviso, non esiste (e su questo punto hanno certamente ragione) e quindi resterà necessariamente allineata alle scelte di Washington. L’illusione che essi si possono fare sui paesi del Golfo è istruttiva: «ricchi», questi paesi devono «contare», il fatto che si possa essere ricchi e insignificanti non sembra loro «immaginabile» (credo che sia questo ciò che pensano le classi dirigenti). Avevo tuttavia scritto una critica divertente del progetto di Dubai, prima del suo prevedibile fallimento. La loro paura verso l’Iran, non dovuta al suo «regime islamista», ma al fatto che questa nazione non intende arrendersi, è invece fondata.

Un pizzico di razzismo

Permane certamente un pizzico di razzismo nel giudizio dato da questi esperti sul futuro dell’Africa e dell’America Latina.

L’Africa non conterà mai, resterà disponibile al saccheggio delle sue risorse. Il solo problema per loro è che nel continente nero gli Stati Uniti (e i loro subalterni alleati europei) si troveranno in una difficile concorrenza con gli appetiti della Cina, dell’India e del Brasile. Questo timore non è senza fondamenti. Ma la possibilità di un rapporto Sud/Sud che leghi i «paesi emergenti» (Cina, India e Brasile) e l’Africa, di una natura un po’ differente dal rapporto imperialista classico di saccheggio delle risorse e che possa contribuire a far uscire l’Africa dalla posizione di regione «marginalizzata» («esclusione programmata») per entrare infine nell’era dell’industrializzazione, non sembra a loro un elemento degno di riflessione.

L’America Latina non preoccupa ancora Washington. Il solo paese «emergente» – il Brasile – resterà «buono». Il modello di integrazione irreversibile nello spazio dominato dagli Stati Uniti, come il Messico dimostra, gli sembra col tempo il destino inevitabile del continente. I movimenti rivoluzionari (Cuba, il Venezuela, la Bolivia) sono considerati come destinati a fallire.

Gli «scenari» mostrano i limiti del pensiero dominante

Gli «scenari» delineati nel rapporto, in queste condizioni, informano più sui limiti del pensiero dominante negli Stati Uniti che sulle probabilità della loro realizzazione.

Primo scenario: una vittoria eclatante della Cina

La Cina si impone come nuova «potenza egemonica», trascinando nella sua scia una Russia rinnovata (vale a dire una Russia che è riuscita a diversificare e modernizzare la sua industria e in particolare le sue industrie di punta fondate sulle prestazioni del proprio sistema educativo; uscita dunque dalla sola posizione di esportatore di petrolio e gas), un’India autonoma ma rassegnata e un Iran («islamista» o no) divenuto attore dominante nel Medio Oriente. La «conferenza di Shanghai» vittoriosa, riduce la NATO allo stato di alleanza impotente – e perfino ridicola – costretta a rinunciare definitivamente al suo progetto di «controllo militare del pianeta» e ai suoi interventi militari con il pretesto di «guerra al terrorismo». L’alleanza di Shanghai garantisce l’accesso della Cina e dell’India al 70% della produzione di petrolio e gas nel Medio Oriente.

Questa immagine – oltraggiosamente forzata – riveste una funzione ideologica evidente. Si tratta di agitare lo spettro del «pericolo giallo» e mobilitare gli europei, e perfino gli Arabi (in particolare del Golfo) dietro il piano di «resistenza» di Washington. L’immagine è forzata perché la Cina (e il fatto che le sue classi dirigenti siano «pro-capitaliste») non ha l’obiettivo di imporsi come potenza «egemonica» planetaria. Pechino è sufficientemente realista per sapere che sarebbe un obiettivo demenziale per la sua inconsistenza. Perché la Cina sa che i mezzi che può dispiegare per imporsi agli Stati Uniti, all’Europa e al Giappone e per il rispetto dei suoi diritti (oltre l’accesso al petrolio) sono limitati. Pechino potrebbe concepire un loro rafforzamento se la Cina riuscisse a portare con sé (e non «dietro») tutto il Sud.
 
Secondo «scenario»: conflitto Cina/India, stagnazione della Russia. I desideri degli USA

Il secondo «scenario» consacra, al contrario, il fallimento clamoroso del «Piano di Shanghai», l’esplosione del gruppo effimero che rappresenta il BRIC, l’affacciarsi del conflitto Cina/India, la stagnazione della Russia e l’aborto del progetto nazionalista dell’Iran. Niente di tutto questo è rigorosamente impossibile. Resta il fatto che questo successo «totale» degli Stati Uniti assomiglia troppo a quello che Washington si augurerebbe per poter essere credibile.

Altri spunti di riflessione

L’analisi che propongo – in disaccordo con le elucubrazioni di Washington (e altre ispirate allo stesso tipo di pensiero) – è fondata su altri principi di riflessione, associando apertamente questa agli obiettivi di «trasformazione» del mondo (cioè dell’ordine sociale nei paesi considerati e congiuntamente degli equilibri internazionali) che ci si augura di promuovere. Il metodo esige che si dia spazio a «un altro punto di vista sociale», quello che risponde agli interessi delle classi popolari e delle nazioni.

Un «mondo migliore» implica sia degli equilibri sociali all’interno di ciascuna delle componenti nazionali del sistema più favorevoli alle classi popolari sia un ordine internazionale più favorevole ai paesi del Sud, «emergenti» o «marginalizzati». Una sola questione che si pone: quali sono gli agenti possibili che possono operare in questa direzione e quali strategie possono condurre a questo risultato? Secondo questo modo di vedere, il «conflitto Nord/Sud» e la lotta per il sorpasso socialista del capitalismo sono indissociabili dal punto di vista dei popoli, anche se restano di fatto «dissociati» dalle strategie messe in atto dalle classi dirigenti ai posti di comando nel Sud.

Tutte le «avanzate», anche se modeste, ancora frammentate e parziali, che vanno nella direzione delle nostre speranze e desideri devono essere sostenute. Per esempio un ri-orientamento dello sviluppo che dia più spazio al rafforzamento delle relazioni di cooperazione Sud/Sud. Ma rimane necessario andare ben oltre quello che si vede già innescato qua e là, in risposta alla crisi, in particolare per quel che riguarda la cooperazione Sud/Sud. Questa avrà un senso se permetterà ai paesi ancora «esclusi» (l’Africa in particolare) di entrare nell’era della imprescindibile industrializzazione.

Associare il rafforzamento del progresso sociale all’interno delle nazioni e quello dell’autonomia nei rapporti internazionali implica necessariamente degli «avanzamenti» democratici. Ma la democratizzazione passa per la lotta di classe, che è il solo mezzo con cui le classi popolari possono imporre la loro partecipazione ai poteri decisionali, e non attraverso il rafforzamento dei poteri della «classe media», ottenuto grazie alla democrazia rappresentativa «all’occidentale», la sola che evidentemente conoscono gli esperti dell’establishment statunitense.

16 febbraio 2010
(Tratto da: da www.michelcollon.info)

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