SE LA GERMANIA UCCIDE L’UNIONE
L’Europa durante la 1. Guerra mondiale |
Moneta unica, banca centrale, inflazione, partite correnti, debito estero, debito pubblico, inflazione, domanda aggregata
di Sergio Cesaratto*
Il compagno Cesaratto compie un’oculata analisi della crisi dell’eurozona e attribuisce alla politica di “mercantilismo monetario” della Germania la causa prima della crisi sistemica dell’Unione. Politiche keynesiane di sostegno alla domanda aggregata e di riequilibrio delle partite correnti potrebbero, per Cesaratto, evitare la fine dell’euro e dell’unione. Egli ritiene tuttavia che oramai sia troppo tardi. Che una cura keynesiana possa far uscire il capitalismo dal marasma, noi dubitiamo. Ma il discorso è serio, ben più che la terapia monetaria miracolosa della MMT.
Il 2 marzo il primo ministro italiano dichiarava al termine di un vertice europeo che la crisi finanziaria era uscita per un po’ di scena “speriamo per sempre.” La battuta, oltre che improvvida, suona persino cinica se si pensa che in quel meeting il primo ministro spagnolo aveva disperatamente chiesto, fra l’ostilità dei suoi colleghi, un allentamento degli obiettivi di rientro del disavanzo pubblico – questo è stato dell’8,5% nel 2011 contro un obiettivo del 6%, mentre il perseguimento dell’obiettivo del 4,4% nel 2012 comporterebbe una manovra aggiuntiva di €44 miliardi tale da distruggere lo stato sociale spagnolo, a detta di Mariano Rajoy, e se questo è troppo persino per un conservatore spagnolo, v’è da crederci (Eurointelligence). Il “successo” del taglio al debito privato greco non tragga in inganno, quel paese è spacciato e il resto del debito è sulle spalle del resto dell’Europa, compreso sui paesi che come l’Italia non hanno responsabilità in merito a differenza della Germania (qui).
1. La situazione europea è in verità drammatica e non s’intravedono vie d’uscita. Non che queste in via di principio non esistano, e questo è il grottesco della situazione. Un percorso di crescita e di riproposizione del modello sociale europeo sarebbe possibilissimo e alla portata. Ad esso si frappongono tuttavia scelte nazionali che solo gli sciocchi definiscono egoistiche. Ho più volte scritto, ricordando gli insegnamenti del realismo politico (che fu anche di Tucidide, di Machiavelli, di Hobbes), che nelle relazioni internazionali non valgono valori morali, tantomeno fra economie capitalistiche.
Queste sono guidate da borghesie nazionali con i propri disegni, e in molti casi attorno a questi si raccoglie il consenso della maggioranza della popolazione, incluse le classi sociali e relative rappresentanze tradizionalmente d’orientamento progressista. Infatti, difficilmente qualcuno saprebbe fornire un esempio di quella che un tempo si definiva “solidarietà internazionalista” (che non siano scelte individuali di partire volontari per qualche nobile causa). Non se ne vede traccia oggi in Europa. Figuriamoci poi evocare solidarietà europee fra paesi capitalistici. Nondimeno i paesi, in particolare quelli più importanti, hanno responsabilità – ne sappiamo qualcosa quando vediamo la Cina non prendersene. La stabilità internazionale, politica ed economica, non può essere garantita che dalle potenze egemoni, come il grande Charles Kindleberger insegnava, il quale alla mancanza di un hegemon attribuiva la responsabilità della prima grande crisi. Quindi il giudizio sui paesi è politico, non morale. Ciò a cui assistiamo oggi in Europa è che se la potenza che dovrebbe assicurare crescita e stabilità non lo fa, essa da soluzione diventa il problema.
Tale potenza non ha certamente tutte le responsabilità nell’aver creato il mostro economico-istituzionale in cui ci troviamo a muovere, l’Unione Monetaria Europea (EMU). Lascio agli storici il giudizio sulla vulgata che l’EMU sia stato il pedaggio che la Germania ha dovuto pagare alla Francia per l’unificazione – per cui, in fondo, esso è frutto di un problema tedesco di natura secolare. Non mi sembra un esercizio ora utile quello di colpevolizzare la Germania sino a questo punto, lasciamo che i morti seppelliscano i morti, e questo valga per tutti.[1] I francesi erano preoccupati che la Germania si rafforzasse in termini relativi e guardasse a Oriente (che va ben oltre l’Europa). Bene, lo sta comunque facendo, anzi, il fallimento acclarato dell’UME rafforza tale forza relativa – come il palese mutamento dei rapporti di forza fra Francia e Germania dimostra – oltre che le spinte a Oriente ed extra-Europee della Germania.
Se quello scambio doveva assicurare l’ancoraggio europeo della Germania, allora esso non solo è fallito, ma ha peggiorato le cose. Non ho dubbi che le scelte economiche siano in primo luogo politiche, ma di lì a violare la legge di gravità ne passa. L’Eurozona non è quello che gli economisti chiamano un’area valutaria ottimale, gli economisti americani ci avevano avvertito, abbiamo gridato al complotto USA per impedire la nascita dell’Euro, dunque ben ci sta). Comunque la Germania non ha obbligato nessuno ad aderire a una UME in cui è stata lei tirata per i capelli.
2. Meno ossessionata dal pericolo tedesco, la decisione italiana di aderire all’UME è stata frutto del disegno di portare a compimento il cosiddetto processo di “risanamento” dei conti pubblici e della dinamica dei prezzi intrapreso negli anni 1990 – e a ben vedere sul finire degli anni ’70 con l’adesione al sistema monetario europeo (SME) e il golpe bianco con cui nel 1981 la Banca Centrale assunse indipendenza dal Tesoro. Il combinato disposto di SME e “divorzio” fu alla base dell’esplosione del debito pubblico e del debito estero,[2] e ciò doveva indurre cautela circa l’opportunità di aderire all’UME. Si preferì invece attribuire la causa della crescita del debito alle malefatte dei cosiddetti governi del CAF (Craxi-Andreotti-Forlani), piuttosto che agli sprovveduti consigli del prof. Monti assai influente nell’ispirare il “divorzio” (e che a buon diritto può essere accostato ad Andreatta e Ciampi nella sua paternità). Nei primissimi anni ’90 fu spazzata via la Prima Repubblica e con essa, si ritenne, il partito della spesa facile.
Cancellato ogni residuo di scala mobile e riequilibrati i conti esteri con una cospicua svalutazione, si ritenne dunque di poter riprendere il percorso di risanamento guidato, per giunta, da ben più affidabili governi di Centro-Sinistra.[3] Il perseguimento tenace dell’ingresso nella moneta unica va dunque ascritto a un disegno che prevedeva l’importazione della stabilità tedesca sia con riguardo a bassi tassi d’interesse sul debito pubblico, condizione essenziale per la sua riduzione, che al contenimento delle rivendicazioni salariali. Mentre sul primo obiettivo la scommessa fu vinta, ed anzi si generò un circolo virtuoso fra aspettative di ingresso e riduzione dei tassi, forse si sbagliarono i conti e obiettivi sul secondo punto.
In verità già dalla sconfitta alla Fiat del 1980 i sindacati dei lavoratori non avevano più rialzato la testa, come la progressiva abolizione della scala mobile e l’accettazione della concertazione nel 1993 volta al solo contenimento dei salari reali dimostrano (Stirati e Levrero qui). Se la disciplina tedesca andava importata allo scopo di abbattere il gap inflazionistico nei confronti di quel paese, questo non riguardava certo l’andamento dei salari reali – da tempo mortificante in Italia. Fattori strutturali incidono su di esso, e sono così altre le istituzioni tedesche meritevoli di importazione come l’atteggiamento meno ostile del padronato verso i lavoratori e l’attenzione dei politici al benessere della popolazione, la formazione, la dedizione della politica al successo commerciale e al consenso e benessere sociale diffusi (tutte caratteristiche, a ben vedere, di un mercantilismo che criticheremo, ma non per questi aspetti).
Il governo Monti – e gran parte del centro-sinistra – si limita invece a ritenere che le liberalizzazioni e, ahimè, le privatizzazioni dei servizi pubblici, siano la via maestra per abbattere lo zoccolo inflazionistico, una strategia che ci appare assai modesta se non in molti casi sbagliata. [4]
La scommessa ‘disciplinante’ dell’UME è stata comunque di nuovo perduta, come fu per lo SME (da cui si poté però fuggire). Quando i mercati hanno cominciato ad accorgersi che nonostante anni di stagnazione – una delle cause della mancata crescita della produttività nel paese – i dati mostravano un andamento progressivamente negativo delle partite correnti e crescente del debito estero, a cui simmetricamente si accompagnava una crescente incapacità del risparmio privato domestico di finanziare il disavanzo pubblico, gli spread sovrani sono esplosi.[5]
Certo, governi imbelli non hanno aiutato, ma la vicenda era scritta nei fondamentali, come li si usa chiamare. E Monti o mari, 300 punti di spread, il livello di agosto giudicato insostenibile, sono ancora lì. Scommettiamo che sotto non scenderanno, e perché dovrebbero?
Questa è, tuttavia, una storia italiana, come recita la pubblicità della banca senese. Tutto questo per dire che non si può certo imputare la Germania dell’esistenza dell’UME a cui, anzi, ha aderito in maniera riluttante. Che poi essa abbia aderito cercando di trarne il maggior vantaggio possibile, dettando i termini del patto, neanche glielo si può addossare: perché mai avrebbe dovuto fare altrimenti? D’altronde è la sua la disciplina che si voleva importare.
Naturalmente quei vantaggi che la Germania ha ritenuto di poter trarre si sono alla lunga rivelati, come spiegheremo poi, di carta (letteralmente). Quel paese ha oggi una scelta davanti: fra la speranza di cavarsela da sola con un’Europa che va in malora, o l’assunzione di una leadership progressista (chiamiamola così). Ho pochi dubbi sulla scelta: forze potenti si oppongono in Germania alla seconda scelta: per esempio attraverso il controllo di mass media come la Bild (10 milioni di lettori) o la “autorevole” Frankfurter Allgemeine Zeitung (FAZ); l’accademia degli economisti tedeschi è quanto di più conservatore sia immaginabile (torneremo su questo), e così la Bundesbank – che è politicamente assai controllata (v. De Cecco qui).[6]
All’opinione pubblica tedesca sono stati propinati, probabilmente con anni di martellanti campagne, moltissimi stereotipi – uno fra tutti il timore dell’inflazione, secondo alcuni (qui: pag. 16) una invenzione della Buba. Ad essa non viene invece raccontato che il nazismo, lungi dall’essere un risultato dell’iper-inflazione del principio degli anni ’20, fu il frutto di assurde politiche francesi verso la Germania la cui natura non è dissimile da quelle che quest’ultimo paese sta imponendo ai suoi partner europei. Keynes, che questo vide nel 1919 e contro cui si batté, dovrebbe essere un idolo in Germania, fa tristezza che invece questo paese sia storicamente anti-keynesiano.
Il Terzo Reich nel 1942 3. Ma è l’opinione prevalente in Germania, in particolare nella sua classe dirigente, frutto di mera ignoranza o c’è dell’altro?[7] Come scrisse Kalecki – il grande economista polacco che anticipò Keynes – dietro l’ignoranza c’è sempre un interesse (“obstinate ignorance is usually a manifestation of underlying political motives”). E allora andiamo a questi interessi che possono giustificare il tenace attaccamento dell’establishment tedesco a un modello, che definiremo mercantilista, palesemente incompatibile se perseguito dalla quarta economia mondiale con la stabilità e la crescita economica non solo europea ma mondiale.[8] |
Per mercantilismo si intende, com’è noto, una strategia volta a perseguire avanzi commerciali. Seguendo di nuovo la lezione di Kalecki, si può dimostrare che questa è una strategia perfettamente razionale da parte dei capitalisti. Essi hanno, infatti, convenienza a comprimere quanto possibile i salari domestici allo scopo di massimizzare i propri profitti; così facendo, tuttavia, restringono il mercato interno per le loro produzioni. Ecco che i mercati esterni diventano uno sbocco naturale per quella parte del sovrappiù (la parte del prodotto sociale che non va ai lavoratori bensì ai capitalisti sotto forma di profitti) che non è possibile vendere all’interno sotto forma di consumi di lusso dei capitalisti medesimi o acquisti dallo Stato con la spesa in disavanzo (quest’ultimo mercato Kalecki chiamava esportazioni interne).
Per vendere nei mercati esteri si deve essere tuttavia competitivi. Parte di questo problema è risolto dalla premessa medesima del mercantilismo, i bassi salari.[9] Se a ciò si aggiunge un adeguato livello tecnologico, frutto anch’esso di una lontana ispirazione mercantilista volta ad assegnare priorità nazionale all’efficienza produttiva, il gioco è quasi fatto. Il gioco è perfetto se poi esso si svolge in un quadro di cambi fissi, come Bretton Woods, lo SME, l’UME.
In questo caso i paesi non-mercantilisti perdono l’unico strumento di difesa che hanno per tutelare la propria competitività: la svalutazione della moneta nazionale. Rimane un ultimo problema: i paesi mercantilisti devono essere disponibili a finanziare illimitatamente i paesi non-mercantilisti. In tal modo questi ultimi potranno continuare ad acquistare le merci dei primi. Per giunta, il flusso di capitali sosterrà le valute dei paesi non-mercantilisti impedendo la svalutazione. Questo è quello che fa la Cina nei confronti degli Stati Uniti. Questo è quello che ha fatto la Germania nei confronti dei famigerati PIGS (una sola i) e che, a quanto pare, non intende continuare a fare.
Secondo alcuni la Germania si era ben preparata a vincere la battaglia dei mercati dell’UME attraverso una decisa riforma del mercato del lavoro sotto il governatorato Schroeder, la quale aveva impresso un deciso orientamento moderato alla dinamica dei salari e dei consumi interni. Si è tentati di vedere qui una riedizione di ciò che un importante storico economico tedesco ha definito, per giunta su una pubblicazione della Bundesbank, “mercantilismo monetario”, una strategia inaugurata al principio degli anni ’50 con la benedizione del potente ministro delle finanze Erhard, il padre del miracolo economico tedesco. L’allora governatore della banca centrale tedesca (chiamata Bank Deutscher Lander sino al 1957) Wilhelm Vocke così riassumeva tale strategia:
«We have consistently remained below [the competitors’ inflation rate]. And this is our chance, that is decisive, for our currency and especially for our exports. Raising exports is vital for us, and this in turn depends on maintaining a relative low price level and wage level … As I have said, keeping the price level below that in other countries is the focal point of our efforts at the central bank, and it is a success of those efforts. That should be born in mind by those who say to us: your restrictive measures are too tight, are no longer necessary». (citato da Holtfrerich 1999: 345).