Quando ho letto il contributo di Fabio Petri, docente di economia politica presso l’Università di Siena, caricato nel blog di Sergio Cesaratto, mi è venuta in mente la scena del film di Nanni Moretti “Aprile” quando scopre i benefici dell’anestesia epidurale somministrata alla moglie durante il parto “ tutti devono sapere, bisogna informare,…mi hanno bloccato mentre facevo un Tazebao”
Il linguaggio è semplice e comprensibile anche per chi non ha nozioni economiche, ma ho pensato che la lunghezza avrebbe scoraggiato i più, quindi questo contributo altro non è che una sintesi del suo lavoro datato 1995, e passi avanti non se ne sono fatti (e per favore no, non venite a parlarmi dell’economia solidale, se non intesa come bon ton del consumatore), con qualche commento sparso qua e là.
I punti che si affronteranno: teoria classica (Smith, Ricardo, Marx e Keynes) Vs teoria marginalista (Marshall, Walras, Edgeworth e Pareto per citarne alcuni), disoccupazione e crescita economica. Storicamente per teoria classica si intende quella corrente di pensiero economico che prende il via da Adam Smith messa in cantina per una serie di motivi che riguardano, come ci ricorda sempre Petri in quest’altro contributo[1], l’opera incompiuta di Marx, alcuni difetti e difficoltà a comprenderne l’impostazione e che verranno poi risolti nei lavori di Sraffa, periodi storici dove la sinistra (intesa in senso antico ehh!) aveva poca voce in capitolo, e che andrà invece a farsi sentire negli anni 60.
Secondo questa teoria il livello dei salari è determinato dalla lotta di classe (conosciamo gli esiti della lotta!), influenzati da elementi quali la disoccupazione, politiche statali a favore dei datori di lavoro (fortuna che noi abbiamo Renzi e un sindacato forte e unitario con i lavoratori, soprattutto con gli atipici, come dimenticare le feroci lotte portate avanti per il reddito di cittadinanza!) e dal livello dei consumi compatibile con il comune senso di umanità, ovvero il livello di consumi al di sotto del quale non vale la pena vivere. Concetto che, alla luce dei bisogni (dis)indotti meriterebbe una trattazione a parte e potrebbe essere materia di analisi da parte dell’elemento sociale per una scienza socio-economica realmente integrata, purtroppo in molti casi oggi si assiste alla sostituzione terminologica e concettuale del sociale all’economico nel tentare di improntare un nuovo modello economico che di economico ha solo la parola. Avete presente quella proiezione retrò del nostalgico tornare indietro per andare avanti? No, capisco, sono stata volutamente vaga per non aprire in questa sede polemiche e rimanere concentrati sul pezzo!
La teoria marginalista o neoclassica è quella che va per la maggiore, ossia che si studia nelle Università più “prestigiose”, avete presente? quella classe privilegiata figli di papà che possono permettersi rette universitarie esorbitanti e che una volta chiusi i libri poi facevano festini insieme a Cameron. Ed è la stessa applicata dai consulenti di governi e considerata valida dal mondo accademico che certo non si va a dare la zappa sui piedi promuovendo teorie che poco piacciono alla classe dirigente e imprenditoriale e forniscono poi i finanziamenti alla “ricerca”. In questo caso si elimina il concetto di lotta di classe e parliamo invece di domanda di lavoro (quella da parte delle imprese) e offerta di lavoro (lavoratori): la domanda di lavoro aumenta se diminuiscono i salari, una sorta di, banalizzando il concetto, pagare meno e lavorare tutti. Come un qualsiasi bene di mercato concorrenziale un “bravo” lavoratore, in periodi di disoccupazione, dovrebbe accettare un salario ridotto, a questa maniera la domanda di lavoro delle imprese aumenterebbe portando ad una situazione di equilibrio di piena occupazione.
Ma a questo ragionamento si contrappone quello dei classici secondo cui diminuendo i salari gli imprenditori vendono meno beni e diminuisce così la domanda di beni. Quale di questi ragionamenti è quello giusto? Petri ci spiega che, secondo l’economia neocalissica, un’impresa arriva ad un limite di convenienza nell’aumentare, a salari ridotti, il numero dei lavoratori determinato dalla differenza del costo del lavoratore con il ricavo ottenuto dalla produzione in più prodotta dallo stesso lavoratore. Questo perchè, ad un livello di capitale dato (cioè di impianti dati), ogni nuovo lavoratore impiegato fa aumentare la produzione, ma questo aumento è gradualmente sempre minore per ogni lavoratore in più.
Chiariamoci le idee con l’esempio che viene fatto: in una data falegnameria con uno stabilimento di cento metri quadri, se comincio ad aumentare i lavoratori impiegati, il prodotto cresce, ma per ogni lavoratore in più diminuisce lo spazio a disposizione; ad un certo punto, aumentando ancora i lavoratori, nessuno potrà più lavorare!
Riguardo la diminuzione dei beni comprati cui facevano riferimento i classici, i marginalisti confutano il ragionamento affermando che in realtà gli imprenditori, in maniera simmetrica, acquisteranno i beni in avanzo come investimento per aumentare il capitale fintanto che il saggio d’interesse (che rappresenta il prezzo della domanda e offerta di capitale), determinato dalla concorrenza, faccia coincidere domanda e offerta di capitale.
Se i mercati concorrenziali vengono lasciati funzionare bene, non c’è mai problema a vendere tutto quanto prodotto. E questa è la teoria dominante nel mondo accademico con due implicazioni fondamentali: i mercati portano alla piena occupazione e la disoccupazione è causa dei lavoratori. La seconda conseguenza importante di questa visione riguarda la remunerazione che va al lavoro come salario e la remunerazione che va al capitale come interessi: esse corrispondono in realtà, in un senso molto profondo, ad un ideale di giustizia. Questo perché il lavoratore viene pagato tanto quanto contribuisce alla produzione secondo la logica di tanto dà e tanto riceve. Lo stesso vale per il capitale dove il saggio d’interesse corrisponde al contributo di ciascuna unità di capitale rinunciando al consumo di quanto risparmiato (e investito in capitale), ebbene sì: anche il capitale si sacrifica, in quanto il risparmio diventa investimento invece di consumo. Un equilibrio perfetto che sicuramente può affascinare.
Nella visione classica, la misura di ciò che va agli interessi o ai profitti, deriva dal semplice fatto che i capitalisti hanno il coltello dalla parte del manico ossia i “mezzi” per produrre. Essi dicono ai lavoratori: un salario talmente alto che vi consenta di appropriarvi di tutto il prodotto, senza che nulla resti a noi come interesse e profitti, semplicemente non lo permetteremo mai; per farvi lavorare con il nostro capitale – e ce l’abbiamo noi il capitale – vogliamo profitti o interessi.
La differenza tra le due teorie non riguarda discussioni astruse tra accademici ma sono due modi completamente differenti di concepire la società. Un marginalista pensa che la disoccupazione è colpa dei lavoratori che non fanno abbassare i salari, un classico afferma che è giusto resistere e lottare per un salario decente, perchè un abbassamento dei salari corrisponde ad un aumento dei profitti. Sarà Keynes a spiegare che le imprese investono quando la domanda di beni è già in crescita, e quindi si aspettano di vendere di più, quindi è più probabile che un abbassamento di salario diminuisca la produzione con conseguente crisi economica.
Riferito ad una implicazione di questo tipo è giusto pensare che anche le imprese recuperate dai lavorati, simbolo di lotta e resistenza, rischiano in realtà di fare il gioco dei marginalisti visto che nella maggior parte dei casi i lavoratori-soci accettano di lavorare, soprattutto all’inizio, ad uno stipendio decisamente ridotto. Inoltre se andiamo a guardare una serie di questioni per valutare come tali imprese rappresentino una nuova forma di impresa anti-capitalista, leggendo la documentazione argentina, dove hanno già un pezzo di storia in merito, ci si rende che alcune criticità dell’impresa capitalista continuano a rimanere in piedi. Anche questo però è argomento che merita ulteriori approfondimenti.
Altra questione illustrata da Petri, e fondamentale in tempi di austerity, per i marginalisti la crescita economica dipende dal risparmio (ossia i beni non consumati), in quanto crea capitale e il capitale in più crea crescita economica. Udite udite signori: se vogliamo crescere di più bisogna risparmiare di più, ecco perché lo Stato dovrebbe comportarsi come un buon padre di famiglia (vi ricorda qualche esternazione?).
Altra implicazione in termini di politica economica: per i marginalisti per poter aumentare l’occupazione devono scendere i salari e lasciare che il mercato funzioni secondo le sue leggi (Thatcher & Co.), per un classico lo Stato deve intervenire e stimolare la domanda.
Ed ecco signori il gran finale delle politiche di austerity su cui tanto si dibatte, o meglio se ne ammette la fragilità come politica di intervento per far tornare i conti, ma si continua ad applicare memorandum.
«Sulla crescita economica, l’implicazione di politica economica della teoria marginalista è: per crescere di più bisogna risparmiare di più, cioè consumare di meno. Per questo è importante diminuire il deficit dello Stato, perché lo stato i soldi li usa per consumi. Noi non siamo abituati a vedere questa attività dello Stato come consumi, però lo sono. I soldi dello Stato vanno in sanità, stipendi dei dipendenti pubblici, pensioni: non sono investimenti. Questi soldi che lo Stato spende in deficit li ottiene da un prestito: si indebita. Ma i soldi che i titolari dei titoli di Stato prestano allo Stato, sono risparmi sottratti all’investimento presso le imprese, che permetterebbero l’acquisto di beni capitali. Lo Stato, dunque, col deficit aumenta i consumi e diminuisce i risparmi e quindi gli investimenti. Rallenta quindi la formazione di nuovo capitale, la crescita economica. Invece, nell’altra prospettiva, quella classica, se lo Stato spende fa bene, perché aumenta la domanda, inducendo le imprese a produrre di più. Le imprese che producono, se osservano che stanno producendo molto, decidono di ampliare l’impianto. Più lo Stato spende e più gli investimenti sono stimolati. Le due visioni non potrebbero essere più diverse».
Il contributo prosegue poi illustrando la validità scientifica delle due teorie[2] e chiudendo con una serie di proposte che preferisco non affrontare in questa sede non per una forma di scetticismo sulla loro validità, quanto piuttosto perché meritano ulteriori approfondimenti alla luce delle (ri)forme di lavoro degli ultimi venti anni, prima parlare di sindacati e imprenditori era in un certo senso più chiaro di oggi, nell’economia bio-cognitiva bisogna dedicare molto più spazio al confine lavoro/vita.
Per chi non volesse rimanere con l’amaro in bocca può fare riferimento direttamente allo studio di Petri.
NOTE
[1] L’economia marxista nel XX secolo http://www.econ-pol.unisi.it/petri/
[2] Soprattutto alla teoria marginalista si rimprovera il fatto che per argomentare le sue ragioni deve ipotizzare come data la quantità di capitale
Se ho capito bene per i marginalisti l' importante è aumentare le disuguaglianze( che come ho da poco appreso sono il motore dell' economia ) lasciando che il mondo del lavoro si distrugga in una infernale spirale deflattiva: lavorare molto,lavorare tutti, lavorare gratis.
L'attribuzione di Keynes ai classici è decisamente tendenziosa: Keynes adoperava strumenti marginalisti, e si considerava tale. Ma non c'è niente di male in questo: ogni ricostruzione della storia del pensiero tendenziosa lo è necessariamente. Quindi però se ne potrebbero dare altre: per esempio, si potrebbe considerare Keynes come esponente dalla scuola marginalista, in quanto sostenitore di una visione dell'economia come finalizzata al consumo, contrapposta a quella dei classici come finalizzata al profitto; oppure, con un po’ di malignità, si potrebbe immaginare una contrapposizione fra economisti classici e marginalisti come sostenitori di una definizione "oggettiva" del salario (includendo fra questi anche Marx, facendo delle precisazioni necessarie), e gli eredi di Sraffa come sostenitori di una distribuzione soggettiva. Per oggettività si intende il fatto che ben sapendo che la distribuzione del reddito è oggetto della lotta di classe, tutti i classici ritenevano che il risultato di questa lotta fosse predeterminato: compreso Marx. La rappresentazione che la Lucaroni ci presenta è perciò quella di una scuola, quella degli sraffiani ben rappresentata da Fabio Petri. Ora, confesso che non ho mai capito bene il discorso degli sraffiani: se ho ben capito la loro logica di ragionamento è la seguente.Il valore prodotto è sempre prodotto dal lavoro. In questo più o meno seguono Marx. Il concetto marginalista di produttività marginale del capitale è sbagliato (credo che questo sia il contenuto del dibattito delle due Cambridge) perché il Capitale è un concetto aggregato, e quindi la variazione della distribuzione del reddito influenza i prezzi delle merci, e dunque la determinazione del "Capitale" è vaga. Perciò, non si può parlare di retribuzione ottimale del capitale, ma la sua determinazione è solo affidata ai rapporti di forza. Questo ragionamento incontra delle ombre. La prima aporia è la seguente: il fatto che tutto il valore prodotto vada attribuita al lavoro non significa non poter usare il concetto di "produttività marginale del capitale" per una ottimale allocazione delle risorse. Sono due concetti diversi: il primo si riferisce all'analisi della natura sociale del capitalismo, e alla necessità per i lavoratori di riappropriarsi in forma collettiva dei frutti del proprio lavoro; la seconda è un ragionamento sulla distribuzione ottimale delle risorse in una economia monetaria di mercato.Ma, dicono gli sraffiani: il concetto di "Capitale" è sbagliato, perché trattandosi di un bene aggregato la variazione della distribuzione influenza necessariamente i prezzi, e dunque vanifica la possibilità di calcolarne il valore, la produttività marginale e il saggio d'interesse. ( continua)
(Seconda parte)Per quanto ne capisco, credo che si possa concordare con questa critica del capitale inteso come aggregato; ma niente impedisce ( è l'obiezione che hanno rivolto alcuni studiosi agli sraffiani) il calcolo delle produttività marginali di ogni singolo bene capitale, e dunque di attribuirgli un valore e un saggio di rendimento specifico. Qual è allora il senso del discorso degli sraffiani (sempre se ho capito bene): quello secondo il quale la distribuzione del reddito può essere separata dalle decisioni di investimento. In altri termini, il prodotto potrebbe andare anche tutto in salari, per poi essere richiamato come risparmio sulla base delle decisioni di investimento dei managers.La prima cosa da dire è che questo ragionamento non è quello di Marx. L'ipotesi di distribuzione integrale del reddito prodotto ai lavoratori non solo non è prevista da Marx, ma è esplicitamente esclusa: in un testo abbastanza pesante come la "Critica al programma di Gotha" con cui Marx si pronunciava sul programma della socialdemocrazia tedesca, Marx osserva: "Dal prodotto sociale complessivo si devono detrarre gli ammortamenti, una parte per l'estensione della produzione, fondi di riserva, ecc. ecc. ecc." Quindi Marx esclude una determinazione del salario di tipo “sindacale”.Tuttavia non è detto che Marx abbia ragione. Il problema è il seguente: qualsiasi entità decisionale, che sia l’organo di pianificazione, l’imprenditore o il consiglio di amministrazione di una fabbrica autogestita (non a caso l’articolo della Lucaroni parla di imprese autogestite che si comportano come imprese capitalistiche-ma guarda un po’…) dovrà prevedere una valutazione del rendimento per ogni bene capitale che ha impiegato, e dunque attribuirgli un valore e una retribuzione. E la cosa non cambia nell’ipotesi che non esista un mercato ufficiale dei capitali: qualsiasi studente di economia sa che l’inesistenza di prezzi espliciti non impedisce l’esistenza di prezzi impliciti. L’idea che nel sistema capitalistico esista una contrapposizione fra consumi e crescita, mentre potrebbe esistere un sistema in cui fra le due non c’è contrapposizione, mi sembra una grullata. Marx non lo pensava di certo, e nemmeno Bucharin. Per i due è evidente che per crescere un sistema debba risparmiare, e cresce di più se risparmia di più: fatte salve le proporzioni –dice Marx- fra il settore della produzione di beni di consumo e quello della produzione di beni di investimento, le cui sproporzioni possono essere causa di crisi.A me, forse per la mia ignoranza, non lo escludo- il ragionamento degli sraffo/keinesiani sembra una utopia di un capitalismo perfetto, nata nel ventennio felice dell’ Italia post bellica: sindacalismo + potere dei managers+ abolizione della proprietà privata. Ho dubbi che questo vada nella direzione del superamento dei rapporti capitalistici di produzione.A. C. (Siena)
Caro Alessandro, temo ci siano molte confusioni e tu non abbia compreso i messaggi dell'impostazione classico-keyensiana. Per prima cosa ti invito a distinguere fra teoria positiva (come funziona il mondo) da teoria normativa (come far funzionare meglio o diversamente il mondo). La teoria sraffiana è in primo luogo positiv come quella neoclassica (si può essere sraffiani e di destra, o marginalisti e di sinistra, come WicKsell). Poi , repetita forse iuvat, ti suggerisco questa mia altra introduzione http://politicaeconomiablog.blogspot.it/…/la-critica…Politica&EconomiaBlog: La critica dell'economia politica, ieri, oggi e domanipoliticaeconomiablog.blogspot.com
Prof. Cesaratto, io ragiono (bene o male) secondo il metodo di marx, cioè leggo le teorie economiche come forme di ideologia: tutte, compresa quella di marx. Gradirei una critica più di dettaglio. Quanto al suo testo, lo leggo volentieri.( A. C.)