CONTRO L’APOLOGIA DEL PROGRESSO (Il Marx che piace tanto ai borghesi, e quello che non piace a noi) di Moreno Pasquinelli
[ 15 gennaio ]
Riteniamo utile ripubblicare questo intervento del giugno 2011.
«Credo che nessun pensatore dell’ Ottocento abbia avuto lo sguardo più acuto, fino a scorgere i tratti essenziali della nostra epoca. E non solo: Marx è stato assai più antiveggente dei marxisti successivi (ed ebbe ben ragione quando dichiarò polemicamente: «Io non sono marxista»). Nel marxismo successivo, infatti, va perduta l’ idea centrale di Marx: che il capitalismo è sviluppo continuo delle forze produttive, che esso è rivoluzionamento costante delle forme di produzione, che esso apre scenari sempre nuovi, più complessi, più difficili, più complicati, ma anche più ricchi e più affascinanti. Il marxismo successivo a Marx, invece, vede il capitalismo come impaccio, come declino, come forza frenante».
«In effetti, a rileggere oggi le pagine marxiane, non si può non rimanere colpiti dal fatto che il pensatore di Treviri aveva colto con una lucidità impressionante (e con un secolo e mezzo di anticipo!) le linee fondamentali di quel processo economico-sociale e culturale che noi oggi chiamiamo «globalizzazione». In questo senso le stesse pagine del manifesto sono estremamente preveggenti e più che mai valide oggi. Vale la pena di soffermarsi un poco su di esse. La borghesia – scriveva Marx – non può esistere senza rivoluzionare di continuo gli strumenti di produzione, quindi i rapporti di produzione, quindi tutto l’ insieme dei rapporti sociali. Mentre tutte le classi sociali preborghesi avevano come prima condizione di esistenza l’ immutata conservazione degli antichi modi produttivi, la borghesia realizza invece il continuo rivoluzionamento di tali rapporti, l’ incessante scuotimento di tutte le condizioni sociali. Infatti il bisogno di sbocchi sempre più estesi per i suoi prodotti ha spinto la borghesia per tutto il globo terrestre. «Dappertutto essa deve ficcarsi, dappertutto stabilirsi, dappertutto stringere relazioni». Sfruttando il mercato mondiale la borghesia ha reso cosmopoliti la produzione e il consumo di tutti i Paesi. Con grande dispiacere dei reazionari, essa ha annichilito le antiche industrie nazionali, che ha sostituito con nuove industrie, la cui introduzione è questione di vita o di morte per tutte le nazioni civili: industrie che non lavorano più materie prime indigene, bensì materie prime provenienti dalle regioni più remote, e i cui prodotti non si consumano più soltanto in un Paese, ma in tutte le parti del mondo. Al posto dei vecchi bisogni, a soddisfare i quali bastavano i prodotti nazionali, subentrano bisogni nuovi, che per essere soddisfatti esigono i prodotti dei Paesi e dei climi più lontani. In luogo dell’ antico isolamento locale e nazionale, per cui ogni Paese bastava a se stesso, subentra un traffico universale, una universale dipendenza delle nazioni l’ una dall’ altra. E ciò avviene non soltanto nella produzione materiale bensì anche in quella spirituale: i prodotti spirituali delle singole nazioni diventano patrimonio comune; la unilateralità e la ristrettezza nazionali diventano sempre più impossibili».
«L’intervento inglese, collegando il filatore nel Lancashire e il tessitore nel Bengala, o anche facendo scomparire tanto il filatore che il tessitore indiani, distrusse queste piccole comunità semibarbare e semicivilizzate facendo esplodere la base economica e in tal modo produsse la più grande e, a ben vedere, solo rivoluzione sociale che sia avvenuta in Asia (…) E’ vero che l’Inghilterra, provocando una rivoluzione sociale nell’Indostan, era guidata dagli interessi più abietti e agiva in maniera stupida per raggiungere i suoi fini. Ma non è questa la questione. Si tratta di sapere se l’umanità può compiere il suo destino senza una fondamentale rivoluzione nello stato sociale dell’Asia. Se no, quali che fossero i crimini dell’Inghilterra, essa fu uno strumento inconsapevole della storia provocando questa rivoluzione. In tal caso, quale che sia la tristezza che possiamo sentire di fronte allo spettacolo della disgregazione di un mondo antico, abbiamo il diritto di esclamare con Goethe: “perché tormentarci di una pena che accresce il nostro godimento? La tirannia di Tmur non ha forse divorato migliaia di anime?!». [3]
«Bakunin accuserà forse gli americani di aver condotto una “guerra di conquista” (si riferisce al Texas, Nda) che, pur dando un colpo duro alla sua teoria basata sulla “giustizia e l’umanità”, è stata combattuta nell’interesse della civilizzazione? O il fatto che la splendida California sia stata strappata ai pigri messicani che non sapevano che farsene costituisce una sventura? E’ una sventura che con il rapido sfruttamento delle miniere d’oro che vi si trovano, gli energici yankees accrescano i mezzi di circolazione, concentrino in pochi anni una densa popolazione e un ampio commercio nelle località costiere più adatte del Pacifico, costruiscano grandi città, stabiliscano comunicazioni con navi a vapore, realizzino una ferrovia che corre da New York a San Francisco, schiudano finalmente l’Oceano Pacifico alla civilizzazione e per la terza volta nella storia imprimano un nuovo indirizzo al commercio mondiale? L’”indipendenza di alcuni californiani e texani spagnoli ne soffrirà, qua e l° verranno violate la “giustizia” e altre norme morali; ma che significa al cospetto di tali avvenimenti storici di portata mondiale?». [4]
«Per lungo tempo ho creduto che fosse possibile rovesciare il regime irlandese mediante l’ascendente della classe operaia inglese. Ho sempre sostenuto questa tesi sul New York Tribune (negli annni ’50, appunto; Nda) Uno studio più approfondito mi ha convinto ora del contrario. La classe operaia inglese non farà mai nulla prima che sia riuscita a disfarsi del problema irlandese. La leva si deve applicare in Irlanda. Per questo motivo la questione irlandese è così importante per il movimento sociale in generale». [6]
«Per accelerare lo sviluppo sociale d’Europa, è necessario operare per la catastrofe dell’Inghilterra ufficiale. A questo fine, bisogna attaccarla in Irlanda. È questa il suo punto vulnerabile. Perduta l’Irlanda, è l’ Impero britannico a crollare, e la lotta di classe in Inghilterra, fino ad oggi sonnolenta e cronica, assumerà forme acute». [7]«Sono sempre più convinto che la classe operaia inglese non potrà mai fare nulla di risolutivo in Inghilterra finché non distingue la sua politica nei confronti dell’Irlanda dalla politica delle classi dominanti nel modo più deciso, finché, non solo fa causa comune con gli irlandesi, ma addirittura prende l’iniziativa nel distruggere l’Unione instaurata nel 1801 sostituendola con una federazione volontaria». [8]
«In primo luogo…l’Irlanda è il baluardo della proprietà fondiaria inglese. Se cadesse l’Irlanda cadrebbe anche l’Inghilterra. (…) La proprietà fondiaria inglese perderebbe non solo una grande fonte di ricchezza, ma anche la più grande forza morale, e cioè quella di rappresentare il dominio dell’Inghilterra sull’Irlanda. (…) In secondo luogo, la borghesia inglese … con l’immigrazione forzata di irlandesi poveri ha diviso il proletariato in due campi ostili. Il fuoco rivoluzionario del lavoratore celtico non va d’accordo con la natura del lavoratore anglo-sassone, solido, ma lento. Al contrario, in tutti i centri industriali dell’Inghilterra c’è un profondo antagonismo tra proletariato irlandese e quello inglese. Il lavoratore medio inglese odia il lavoratore irlandese come un competitore che abbassa i salari e il livello di vita. Egli sente un’antipatia di nazionalità e religiosa contro di lui. Lo considera come i poveri bianchi degli Stati Uniti del Sud considerano gli schiavi negri. Questo antagonismo tra i proletari è alimentato artificialmente dalla borghesia. Essa sa che questa divisione è il vero segreto per mantenere il potere». [9]
«Alcuni miei critici sentono l’irresistibile bisogno di metamorfosare il mio schizzo della genesi del capitalismo [11] nell’Europa occidentale in una teoria storico-filosofica della marcia generale fatalmente imposta a tutti i popoli, in qualunque situazione storica essi si trovino, per giungere infine alla forma economica che, con la maggiore somma di potere produttivo di lavoro sociale, assicura il più integrale sviluppo dell’uomo. Ma io chiedo scusa: è farmi insieme troppo onore e troppo torto. Non si arriverà a capire la chiave [dei fenomeni storici] col passe-partout di una filosofia della storia, la cui virtù suprema è d’essere soprastorica». [12]
«L’analisi de Il capitale non fornisce ragioni né pro né contro la vitalità della comune rurale; ma lo studio apposito che ne ho fatto, mi ha convinto che la comune è il punto di appoggio della rigenerazione sociale in Russia». E più avanti: «In Russia, grazie ad una combinazione di circostanze uniche, la comune agricola, ancora stabilita sull’intera estensione del paese, può gradatamente spogliarsi dei suoi caratteri primitivi e svilupparsi direttamente come elemento della produzione collettiva su scala nazionale». [13]
Note
(1) K. Marx; Prefazione alla seconda edizione russa de Il manifesto, Londra 21 gennaio 1882
(2)K. Marx; Prefazione a Per la critica dell’economia politica, Londra gennaio 1859
(3)(K.Marx; La dominazione britannica in India, Londra 25 giugno 1853
(4) F. Engels; Il panslavismo democratico, Colonia 14 febbraio 1848
(5) K. Marx; Lettera ad Engels del 2 novembre 1867
(6) K. Marx; Lettera ad Engels del 10 dicembre 1869
(7)K. Marx; Lettera Paul e Laura Lafargue, Londra 20 dicembre 1869
(8) K. Marx; Lettera a L. Kugelmann, Londra 29 novembre 1869
(9)K. Marx; Comunicazioini confidenziali al Consiglio generale dell’Internazionale, Londra gennaio 1870
(10) F.Engels; Lettera a K.Kautsky, Londra 12 settembre 1882
(11) K.Marx; Il capitale Capitolo XXIV, La cosiddetta accumulazione originaria
(12) K.Marx; Lettera alla redazione di Otecestvennye Zapiski, Londra, fine del 1877
(13) K. Marx; Lettera a Vera Zasulic, Londra 8 marzo 1881
Qualche tempo fa ho litigato con un militante di "Lotta comunista" proprio su questo punto: sosteneva come la globalizzazione è "inevitabile", come un liberista qualsiasi