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L’ARTICOLO 1 DELLA COSTITUZIONE: BREVE STORIA DI “QUELLI CHE NON CREDONO NELLE COSTITUZIONI” di Luciano Barra Caracciolo

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[ 23 maggio ]

1. Finora abbiamo svolto il discorso facendo riferimento al rapporto dei “principi fondamentali” (artt.1-12) con la Costituzione economica (art.36-47): quest’ultima, in base ai lavori dell’Assemblea Costituente fornisce gli strumenti per attribuire, ai diritti enunciati nei principi fondamentali, quella effettività senza la quale ne viene meno la stessa giuridicità. 

L’attivazione degli strumenti di politica economica, fiscale e industriale (in senso esteso), previsti dalla Costituzione economica, definisce l’oggetto degli obblighi che rendono concreta ed effettiva la posizione di generale obbligo giuridico, incombente sulle istituzioni di governo della Repubblica italiana, in base all’art.3, comma 2, della Carta,che è la norma chiave per definirne la normatività come fonte superiore ad ogni altra e la cui formulazione è principalmente doviuta a Lelio Basso


2. Su tale natura di norma chiave, aveva, del resto, convenuto Calamandrei, con il grande merito di avere, attraverso il confronto con gli altri componenti dell’Assemblea Costituente,ampliato e reso concreta questa idea proprio sul piano politico-economico, assunto come strumentale al principio-cardine lavoristico (dalla fonte linkata: se vera democrazia può aversi soltanto là dove ogni cittadino sia in grado di […] poter contribuire effettivamente alla vita della comunità, non basta assicurargli teoricamente le libertà politiche, ma bisogna metterlo in condizione di potersene praticamente servire”, e per far ciò occorre garantire a tutti “quel minimo di benessere economico”, far sì che le libertà cessino di essere dei “vuoti schemi giuridici e si riempiano di sostanza economica”, ossia che “le libertà politiche siano integrate da quel minimo di giustizia sociale, che è condizione di esse, e la cui mancanza equivale per l’indigente alla loro soppressione politica”.

“Ma il problema vero non è quello della enumerazione di questi diritti: il problema vero è quello di predisporre i mezzi pratici per soddisfarli, di trovare il sistema economico che permetta di soddisfarli. Questo è, in tanta miseria che ci attornia, l’interrogativo tragico della ricostruzione sociale e politica italiana“, da “Costituente e questione sociale”, p.152; notare: un discorso sul quale Bazaar, parlando dei diritti civili a radice internazionalizzata, ormaicosmetici, ha più volte insistito).


3. Ed è questo il nodo centrale della Costituzione, che si è andato perdendo sotto i colpi dell’€uropeismo restauratore dell’ordine internazionale dei mercati: perché tutti questi strumenti di politica economica, fiscale e industriale si imperniano, a loro volta, sulla tutela del lavoro. Basti pensare che, con l’UE e la sua Carta di Nizza dei diritti, siamo tornati al punto che il problema non è più la “soddisfazione” dei diritti sociali, ma persino la loro stessa “enumerazione”: dato che la limitata attenzione dedicata ai diritti sociali e alla tutela del lavoro, soffre anche di formulazioni generiche e obiettivamente restrittive rispetto alla Costituzione del 1948.


Per i nostri Costituenti questa tutela è invece il fondamento stesso della Repubblica, sancito dall’art.1 Cost.; e aver scelto quegli strumenti, e non altri, è il frutto di una scelta consapevole, e ampiamente dibattuta (come illustra il secondo capitolo de “La Costituzione nella palude”), che aveva respinto l’idea di mercato autoregolantesi propria del liberismo, e dunque quella di lavoro-merce in essa insita, definendo l’economica liberista neo-classica “la scienza dell’800”, a sottolinearne la natura fallimentare posta alla base delle crisi, economiche, sociali e politiche, che erano sfociate nelle tragedie belliche del ‘900.


4. Tratteggiato questo quadro generale sul corretto intendimento della Costituzione, più volte esposto, cerchiamo di portare l’attenzione sull’art.1. Esso, come premessa necessaria e sufficiente, secondo le parole dei Costituenti che esamineremo, proietta e rende logicamente consequenziale, lo sviluppo sistematico che abbiamo appena riassunto.

Premettiamo ulteriormente  una rapida precisazione, necessaria in quanto, in questi tempi di scarso studio e di cieca fede nell’effetto mediatizzato degli slogan emozionali e tecno-pop, si tende alla estrapolazione suggestiva per piegare il pensiero dei Costituenti alle più bizzare e contigenti esigenze di politiche, del tutto estranee al disegno del Potere Costituente primigenio. Tale potere veramente “originario”, fino alla instaurazione di un nuovo ordinamento, necessariamente extraordinem e traumatica, rimane la fonte di diritto superiore ad ogni altra, sia di natura internazionale, sia posta in essere nell’esercizio del potere “costituito”, e quindi derivato, di revisione costituzionale.

La premessa è che, per lo più, anche quando un membro della Costituente, – nel plenum, come in una delle Commissioni interne a quella dei 75 (l’organismo cui si deve la parte maggiore del lavoro di effettiva redazione del testo)-,  esprime un dissenso rispetto ad una soluzione poi deliberata in via definitiva, tendenzialmente lo fa per spingere verso una finalità condivisa, nello spirito di una realizzazione più stringente di idee e concetti che, nella sostanza della visione socio-economica, erano comunque largamente condivisi; questo eccettuati alcuni componenti, in testa il solito Einaudi, che parlavano un linguaggio, ed erano portatori di valori, antagonisti rispetto all’amplissima maggioranza dell’Assemblea.


5. In questo contesto storico e di cultura delle Istituzioni, è interessante vedere come ilPresidente della Commissione (dei “75”) per la Costituzione, Ruini, introdusse, nella sua relazione al plenum, l’art.1:

[Dalla relazione del Presidente della Commissione per la Costituzione Meuccio Ruini che accompagna il Progetto di Costituzione della Repubblica italiana.

Vengono qui riportate solo le parti relative all’articolo in esame, mentre si rimanda alleappendici per il testo completo della relazione.]

Era necessario che la Carta della nuova Italia si aprisse con l’affermazione della sua, ormai definitiva, forma repubblicana. Il primo articolo determina alcuni punti essenziali. Non si comprende una costituzione democratica, se non si richiama alla fonte della sovranità, che risiede nel popolo: tutti i poteri emanano dal popolo e sono esercitati nelle forme e nei limiti della costituzione e delle leggi; nel che sta l’altra esigenza dello «Stato di diritto». Bisogna poi essere ciechi per non vedere che è oggi in corso un processo storico secondo il quale, per lo stesso sviluppo della sovranità popolare, il lavoro si pone quale forza propulsiva e dirigente in una società che tende ad essere di liberi ed eguali. Molti della Commissione avrebbero consentito a chiamare l’Italia «repubblica di lavoratori» se queste parole non servissero in altre costituzioni a designare forme di economia che non corrispondono alla realtà italiana. Si è quindi affermato, che l’organizzazione politica, economica e sociale della Repubblica ha per fondamento essenziale — con la partecipazione effettiva di tutti i lavoratori — il lavoro: il lavoro di tutti, non solo manuale ma in ogni sua forma di espressione umana.

6. Particolarmente interessante è il dibattito che si svolse nel plenum sullo stesso art.1, in particolare nella seduta del 22 marzo 1947. La lettura di questa intensa sessione pomeridiana è estremamente significativa. 
Ci limiteremo a riportare, sulla scorta della premessa sopra fatta del prevalente spirito di comune linguaggio e visione, l’intervento dell’on.Lucifero, un liberale (fu anche presidente del partito negli anni immediatamente seguenti alla Costituente), ma non un “antagonista” del processo costituente in senso democraticosostanziale (cioè i “liberali”, in pratica, non erano tutti uguali…)
La questione lessicale che si poneva e se la sovranità “risiedesse”, “promanasse”, o “appartenesse” al popolo: la sua preoccupazione era che, comunque, fosse chiaro anche in futuro che il popolo italiano non ne potesse mai essere “spossessato”.
Non a caso, nella sopra riportata Relazione di Ruini, ovviamente anteriore al dibattito in plenum (ad esito emendativo), viene utilizzato il termini “risiede”.
Nell’argomentare sul punto, Lucifero svolge alcuni chiarimenti oggi attualissimi e ci consegna dei timori “profetici”:
Lucifero. “…trovai un riscontro nelle affermazioni dell’onorevole Togliatti, che in un primo momento a questo mio emendamento non si era dimostrato favorevole, e tanto più poi che nelle successive formule che sono state già presentate, vi è stato un passo verso il concetto che io sostengo trasformando quell’«emana» (che secondo l’onorevole Conti sapeva di profumo) nel termine «appartiene», che è più esatto.

Può sembrare la questione sottile, ma è una questione concettuale; e diventa una questione sostanziale quando si pensa alla esperienza dalla quale siamo usciti, cioè quando si pensa che ad un certo punto ci siamo trovati di fronte a gente che si è sentita delegare dei poteri popolari, li ha assunti e non li ha restituiti più se non attraverso quella tragedia che abbiamo tutti vissuto. Quindi credo che la Costituzione democratica debba chiaramente sancire il concetto che la sovranità, cioè il potere, non solo appartiene al popolo, ma nel popolo costantemente risiede. Ed allora bisogna impedire qualunque interpretazione che un giorno possa far pensare a sovranità trasferite o comunque delegate. Ecco perché al termine «appartiene», come pure al termine «emana», preferisco il termine «risiede».

Gli organi attraverso i quali la sovranità e i poteri si esercitano nella vita di un popolo, sono organi i quali agiscono in nome del popolo, ma che non hanno la sovranità, perché questa deve restare al popolo. Ecco perché è preferibile il termine «risiede» in confronto a quello di «appartiene».

Quell’«emana», originario, dà il senso di una sovranità che si può trasferire agli organi i quali la esercitano; quell’«appartiene» dà un senso di proprietà; mentre il termine «risiede» consolida il possesso; non la proprietà. Il popolo, cioè, rimane possessore di questa che è la suprema potestà democratica.

Può sembrare una sottigliezza, ma sottigliezza non è. La verità è un’altra. Esistono fra gli uomini due categorie di persone di fronte ai problemi costituzionali: quelli che credono nelle Costituzioni e quelli che non credono nelle Costituzioni
Per quelli che non credono nelle Costituzioni, cioè che pensano che il giorno che avessero la maggioranza farebbero quello che vogliono, un’affermazione di principio può sembrare una sfumatura, e non ha importanza; ma per coloro che, come me, credono profondamente nelle Costituzioni e nelle leggi, ogni parola ha il suo peso e la sua importanza per il legislatore di domani.

Noi ci dobbiamo preoccupare del documento che facciamo, guardando verso l’avvenire, cioè dando norme sicure ai legislatori di domani, in modo che la volontà di oggi non possa essere violata per improprietà di linguaggio, voluta o non voluta che sia.” 

7. L’esigenza di prevenire qualunque interpretazione “che un giorno possa far pensare a sovranità trasferite o comunque delegate” era straordinariamente corretta. 
Ma forse era, come in fondo abbiamo imparato (a nostre spese), non una semplice profezia, ma la consapevolezza, già attuale, che non solo, come si potrebbe affermare con una certa faciloneria, l’imperialismo sovietico, travestito da internazionalismo, potesse affermare la sua irreversibile presa di potere in Italia (un timore molto sentito all’epoca, ma anche molto più remoto di quanto non si credesse, alla luce di Yalta). L’accenno alla esigenza di preservare la “volontà” dell’oggi contro coloro che non credono nelle Costituzioni,  rivela la preoccupazione che forze estranee allo Stato di diritto, e quindi alle Istituzioni democratiche, portassero al trasferimento della sovranità dal popolo italiano ad altre “entità” (espresse presumibilmente dai mercati, che incarnano la maggior forza di fatto che la Costituzione ha inteso limitare: quindi, per definizione, forze estranee al fondamento del “lavoro” sancito dall’art.1 Cost.).

8. Un campanello d’allarme in tal senso, lo aveva fatto suonare proprio, indovinate un po’,Einaudi, nella stessa sede dell’Assemblea Costituente. 
Nella discussione sull’art.1, nella seduta del 27 settembre 1946, ci aveva infatti anticipato questa dotta disquisizione giuridico-epistemologica, che allude in modo più che trasparente alla superiorità, su qualsiasi “Legislazione”, inclusa la Costituzione, della “Legge” naturale avente fondamento scientifico (egli era in fondo, pur sempre, un laureato in giurisprudenza). La perplessità di Einaudi sull’art.1 è radicale; egli contesta la stessa legittimità scientifico-teorica del concetto di sovranità popolare, negando in definitiva la stessa opportunità di inserirlo in Costituzione. Ogni altra specificazione della sovranità popolare su cui si sono affaccendati il resto dei Costituenti, diviene così superflua; il carattere democratico, le sue forme e limiti, e, ovviamente, la sua base eretta sul “lavoro”. Egli ne ammette solo una “utilità” funzionale e storicamente transitoria. Il vento della Storia può sempre cambiare…:  
Einaudi. […] Scendendo al campo dottrinale, osserva, a proposito della premessa (dalla quale parte sempre l’onorevole La Rocca nelle sue osservazioni) del rispetto della volontà popolare e della sovranità popolare, che oggi effettivamente non c’è altra formula dalla quale partire; ma si tratta soltanto di una formula e non di una verità scientificamente dimostrabile. Essa appartiene al novero di quei concetti che si chiamano miti, che sono, in sostanza, formule empiriche, accettabili in vista di determinati scopi (per esempio: trovare il migliore governo, stabilire un clima di libertà, evitare qualunque tipo di tirannia) ma che possono anche cambiare. In altri termini la formula della sovranità popolare non appartiene al novero delle verità scientifiche, indiscutibili, dimostrabili, che risultano dalla evidenza medesima delle cose; è piuttosto un principio di fede, e le verità di fede sono discutibili, non si impongono alla mente, ma solo al cuore e alla immaginazione. Il mito della sovranità popolare, che trae origine dal contatto sociale di J. J. Rousseau, è quindi utile per il raggiungimento di determinate finalità pratiche e non si può prescinderne nella vita politica attuale, ma occorre tener bene presente che non è una verità scientifica.”

Naturalmente “verità scientifiche”, cioè Leggi naturali, sono solo quelle del mercato: eraggiunti certi “scopi”, storicamente contingenti, la sovranità popolare può essere anche “cambiata”.
La connessione stessa tra sovranità popolare e democrazia rimane così subordinata al principio di sua utilità rispetto alla realizzazione della Legge naturale, del mercato, assunta come verità scientifica: per questo, anche se la “appartenenza” al popolo della sovranità è scritta nella Costituzione, questa non è scientificamente “vera” ed è quindi soggetta ai cambiamenti dettati dalla “Legge naturale” (del mercato).
Il futuro covava già le uova del sovranazionalismo, beneficiario delle “cessioni” di sovranità, in chi apparteneva alla categoria di coloro che non credono nelle Costituzioni, come ci dice Lucifero. 
Tant’è che, intrapresa la strada del sovranazionalismo, sarebbero inevitabilmente giunti “quelli che non credono nelle Costituzioni, cioè che pensano che il giorno che avessero la maggioranza farebbero quello che vogliono“.

* Fonte: Orizzonte 48

2 pensieri su “L’ARTICOLO 1 DELLA COSTITUZIONE: BREVE STORIA DI “QUELLI CHE NON CREDONO NELLE COSTITUZIONI” di Luciano Barra Caracciolo”

  1. Anonimo dice:

    Cito Caracciolo."La connessione stessa tra sovranità popolare e democrazia rimane così subordinata al principio di sua utilità rispetto alla realizzazione della Legge naturale, del mercato, assunta come verità scientifica"Ho l'impressione che Barra Caracciolo si fermi mezzo passo prima di centrare il punto essenziale.Dice Einaudi:"ma si tratta soltanto di una formula e non di una verità scientificamente dimostrabile"e aggiunge:"è piuttosto un principio di fede, e le verità di fede sono discutibile"Questa è la visione da superare: una verità di natura può anche essere scientifica ma non può essere valida "scientificamente" – ossia incontestabilmente e in maniera necessaria – anche in ambito sociale perché la società umana è una interrelazione di soggettività e qualsiasi oggettività può essere tranquillamente vera o non vera ma non sarà mai univocamente "valida".I concetti sociali quindi DEVONO FONDARSI SU UNA SCELTA OSSIA SU UNA FEDE.Le scelte etiche non possono essere razionali ossia basate su criteri oggettivi "esterni" all'esperienza soggettiva. Una scelta etica è puramente soggettiva, arbitraria e indipendente dalle leggi di natura (che anzi di solito l'etica cerca di superare o almeno controllare).Rivendichiamo con orgoglio la nostra facoltà di operare scelte soggettive "perché crediamo e sentiamo che è giusto così" e non perché "esistono motivi esterni [oggettivi]".

  2. Anonimo dice:

    Da questo sondaggio CISE per il Sole24Ore il sì alla riforma costituzionale è nettamente in vantaggiohttp://www.infodata.ilsole24ore.com/2016/05/20/pd-avanti-m5s-incalza-forza-italie-lega-nord-pari-merito/Se vince il sì sappiate che sarà il segno che la sinistra ha perso DEFINITIVAMENTE il contatto con i cittadini.

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