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CLIMA 4: LA BUFALA DELL’AUMENTO DEGLI “EVENTI ESTREMI” di Leonardo Mazzei

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[ 11 aprile 2019 ]
 

Articoli precedenti

 

Clima 1 – E se fosse la lobby nucleare? (18 marzo 2019)

 

Clima 2 – Quelli che non se la bevono (25 marzo 2019)

 

Clima 3 – Nessuna catastrofe in vista (1 aprile 2019)

*  *  *

Arriviamo oggi al tema degli “eventi estremi”. Per i catastrofisti del “non c’è più tempo” l’aumento della temperatura non basta. Si direbbe che per i loro disegni esso sia troppo scarso e troppo lento. Quest’ultimo elemento – la lentezza – è poi del tutto insopportabile al circo mediatico, che dell’allarmismo globale sul clima è da sempre elemento portante. Talora, però, le cronache ci regalano ondate di freddo qua e là per il globo. Cosa di meglio allora dell’invenzione dell’aumento degli “eventi estremi”?

In questo modo, non solo se fa caldo, ma anche se c’è il gelo e nevica più del solito (vedi l’ultimo inverno negli Stati Uniti), si dà la colpa al “cambiamento climatico”, che pure dovrebbe consistere in un riscaldamento medio globale. E così funziona tanto per le siccità come per i periodi di maggiore piovosità. Queste normalissime variabilità meteorologiche diventano in questo modo – si può dire quotidianamente – indici infallibili di un “cambiamento climatico” elevato a dogma. 

Lontani sono i tempi in cui i climatologi ragionavano su medie almeno trentennali. Oggi lo stesso concetto di “media” è violentato dall’informazione. Non dovrebbe esserci bisogno di spiegare che le medie – di temperatura, di piovosità, di ventosità, eccetera – sono il frutto di valori ora superiori (talvolta molto superiori), ora inferiori (talvolta molto inferiori) a quel valore mediano. Adesso, invece, basta un grado in più per segnalare in maniera allarmistica che si è al di sopra della media. Ma pure al di sotto va bene, tanto la religiosa verità sarà sempre quella.
A cosa serve la narrazione catastrofista 
Ma siccome lo spettacolo è essenziale per la narrazione catastrofista, le temperature non possono bastare. Meglio, molto meglio, le catastrofi. L’importante è che esse appaiano sempre come frutto dei “cambiamenti climatici”. In questo modo si ottengono tre risultati. In primo luogo si attua una strategia narrativa win win, dato che qualunque cosa avvenga essa verrà spiegata in base alla teoria della AGW (Riscaldamento Globale Antropogenico). In secondo luogo si cancella lo stesso concetto di “catastrofe naturale”, mettendo così in campo una visione antropocentrica senza precedenti. In terzo luogo, in apparente contraddizione col punto precedente, si nascondono in larga parte le responsabilità umane – cioè generalmente sociali, dunque nella nostra epoca dovute alle esigenze di valorizzazione (ad esempio del suolo) tipiche del capitalismo – di tante catastrofi.
 
Abbiamo parlato non a caso di contraddizione solo apparente tra i punti 2 e 3. In realtà non vi è infatti contraddizione alcuna. Mentre la colpevolizzazione sui “cambiamenti climatici” è rivolta evidentemente all’intero genere umano, da Jeff Bezos all’ultimo contadino africano; l’assoluzione di cui al punto tre riguarda proprio quel modello di sviluppo che ha consentito alle attuali oligarchie di essere là dove sono.
 
Dal punto di vista capitalistico, un’assoluzione piena. Non solo, poiché quelle stesse oligarchie pilotano largamente tanto la politica quanto i media, esse hanno ora la possibilità di ergersi a fiere paladine del “salvataggio” di un’umanità che dovrebbe salvarsi non dal loro dominio, dal loro sfruttamento, dall’ingiustizia e disumanità del loro sistema, bensì dagli effetti catastrofici dell’aumento di qualche decimo di grado causato indistintamente dagli “uomini”.
 
Sul presunto aumento degli “eventi estremi”, abbiamo già visto qual è il parere di due climatologi dall’indiscusso valore, come Guido Visconti e Franco Prodi. Per il primo «non esiste nessuna prova scientifica che ci siano variazioni nel regime delle piogge o delle nevi»; per il secondo «in questi cinquant’anni il clima in Italia è cambiato davvero poco. Chi studia queste cose rileva un leggero aumento della pioggia che proviene dalle nubi temporalesche, i cosiddetti rovesci, mentre complessivamente è diminuita l’intensità  della precipitazione».
 
Affermazioni pacate, che stridono con il quotidiano allarmismo, in Italia come nel resto del mondo.
I comici dati dell’Economist 
Volendo entrare adesso nel merito dell’andamento degli “eventi estremi”, un plastico esempio di come funziona l’informazione catastrofista ci viene inopinatamente, quanto significativamente, dall’Economist. Cioè da un giornale da sempre considerato come una sorta di Bibbia liberale, che dal 2015 vede come primo azionista (attraverso la holding Exor) la famiglia Agnelli.
 

L’articolo pubblicato il 29 agosto 2017 ha un titolo inequivocabile: «I disastri legati alle condizioni meteorologiche stanno aumentando». Ma quel che è più interessante è il grafico che potete vedere in figura 1, che l’Economist ha ripreso da EM-DAT, sicuramente uno dei più importanti database dei disastri di massa. 

Nella sua inattendibilità – peggio: nella sua disonestà – questo grafico è semplicemente comico. Ma visto che stiamo parlando di vite umane, tristemente comico.
 
La curva blu mostra il numero dei disastri dal 1900 al 2011, quella rossa il numero delle vittime di quelle calamità. Quali disastri ce lo spiega l’articolo: quelli con almeno 10 vittime, che colpiscono oltre 100 persone o determinano la dichiarazione dello stato di emergenza nazionale.
 
Tre le cose assurde che balzerebbero anche agli occhi di un cieco.
 
La prima è che nel quarantennio 1900-1940 questi disastri sembrerebbero vicini a zero. Una falsità ridicola, che smentiremo anche solo con i dati disponibili sull’Italia. Che se poi i disastri (sempre secondo la classificazione EM-DAT) fossero stati davvero così pochi, come si spiegherebbe l’elevato numero di vittime che lo stesso grafico riporta? L’assurdità è così evidente che non occorre insistere oltre. 
 
La seconda incredibile incongruenza è appunto l’andamento inverso delle due curve. Possibile che mentre i disastri sarebbero aumentati, quadruplicandosi dagli anni ’70 al 2011, le loro vittime all’anno siano invece passate nello stesso periodo da circa 200mila  a circa 30mila? E’ credibile tutto ciò? Ma mi faccia il favore, avrebbe detto il grande Totò. L’Economist prova a spiegare l’arcano con il miglioramento della sicurezza (edifici migliori, maggiore prevenzione delle inondazioni). Di nuovo: ma mi faccia il favore! Ammettiamo senza difficoltà un discreto miglioramento della sicurezza, ma la Terra aveva nel 1900 un miliardo e 700 milioni di abitanti, mentre oggi ne ha 7 miliardi e mezzo. Ne consegue che, a parità di disastri, il numero delle vittime coinvolte in questi eventi dovrebbe risultare quattro volte e mezzo più alto. Ma siccome il grafico ci dice che nell’intero periodo i disastri sono aumentati di 40 volte, ne risulta un incremento delle vittime potenziali di 180 volte (40×4,5=180). E invece? Invece, sempre secondo il grafico, le vittime effettive sarebbero calate del 94% nell’intero periodo, dell’85% nell’ultimo quarantennio. Ma si può? Non sarà che l’impennata della curva blu dipenda essenzialmente da una iniziale carenza di notizie progressivamente superata nel tempo? Disastri con 10 morti o poco più (che nel grafico riportato valgono 1 come un uragano da 10mila vittime) potevano lasciare poca traccia agli inizi del ‘900, oggi non più. In ogni caso, che qualcosa non quadri lo dovrebbe capire chiunque, perfino un giornalista dell’Economist
 
La terza assurdità, assolutamente incommentabile, ma che va saputa, è che in queste statistiche insieme a uragani, alluvioni ed ondate di calore si includono (come riconosce candidamente l’Economist) i terremoti e gli tsunami. Ora, se tutti questi fenomeni rientrano giustamente nella categoria dei “disastri naturali”, quel che è al di là di ogni decenza è che si usino simili dati per sparare titoli sul clima come quello che abbiamo visto. Dunque, ammesso, e tutt’altro che concesso, che tutti i disastri meteo siano attribuibili ai “cambiamenti climatici”, che c’azzeccano col clima i terremoti, gli tsunami, e magari le eruzioni vulcaniche?
 
Segnaliamo questo ennesimo controsenso perché non riguarda il solo giornale inglese. Da tempo questa voluta confusione imperversa sulla stampa, come abbiamo già denunciato il 15 marzo scorso, a proposito di un articolo del Corriere della Sera. Ma la cosa ancor più grave è che tutto ciò sia alimentato da fonti che dovrebbero essere scientificamente attendibili e che invece non lo sono.
Gli uragani, che non sono in aumento
Ma, si dice, gli uragani sono di sicuro in aumento. A leggere la stampa la cosa parrebbe certa. E’ davvero così?
 
Uno dei maggiori esperti di uragani al mondo, Christopher Landsea, è di tutt’altro avviso. A suo parere «c’è una forte evidenza supportata dai più recenti attendibili studi  in materia che qualsiasi impatto futuro del riscaldamento globale sugli uragani sarà molto limitato» (R. Cascioli e A. Gaspari in “Che tempo farà“). Landsea, dimettendosi per protesta dall’IPCC nel 2005, così scriveva fra le altre cose: «Non capisco perché i miei colleghi utilizzino i media per avvalorare l’insostenibile tesi che la recente attività degli uragani sia dovuta al riscaldamento globale».
 
Quel che è certo è che le statistiche sugli uragani al momento gli danno ragione. Naturalmente, la letteratura sul tema è sterminata e non è possibile dare conto di tutti gli studi. Tuttavia tante ricerche vanno nella stessa direzione: non c’è nessun aumento, né per numero né per intensità, di questo fenomeno.
 
Uno studio del professor Sergio Pinna, pubblicato sulla Rivista del Servizio Meteorologico dell’Aereonauticaè arrivato a conclusioni molto nitide. Questo il suo abstract: «Con questo articolo si vuole proporre una verifica in merito alle eventuali variazioni temporali dell’intensità degli uragani nel bacino atlantico. A tal fine, considerando i casi nei quali si è verificato il landfall sulle coste degli USA, è stato elaborato un indice basato sulla velocità massima del vento e sul valore della pressione atmosferica al centro del ciclone. L’esame della serie storica dei valori annui di tale indice non ha evidenziato alcuna tendenza all’incremento dei fenomeni in oggetto».

Figura 2 – Indice di intensità degli uragani all’approdo sulla costa atlantica degli USA (1850-2016)

Diversi grafici presenti in questo studio che indicano come il fenomeno «non abbia subito modificazioni apprezzabili nel corso dei 166 anni (1850-2016) considerati». Uno di questi (figura 2) mostra le variazioni dell’intensità degli uragani all’approdo. 

Una valutazione netta quella di Pinna, che trova conferma anche nell’andamento del numero e degli uragani tra il 1970 ed il 2013 visualizzato nella figura 3.

Figura 3 – Cicloni tropicali approdati dal 1970 al 2013

Come si può vedere, a dispetto della narrazione catastrofista che va per la maggiore, l’allarmismo sugli uragani è in base ai numeri del tutto immotivato. 

Ma possibile allora – dirà adesso qualcuno – che ci raccontino impunemente così tante balle? Purtroppo è possibile, come dimostreremo in abbondanza parlando del nostro Paese.
Veniamo all’Italia 

Naturalmente l’Italia non è il mondo, ma non è neppure una realtà trascurabile. Altro non fosse che per la sua posizione geografica distesa al centro del bacino del Mediterraneo. Ma ragionare sull’Italia ci è utile anche per altri motivi, innanzitutto perché è una realtà che conosciamo meglio, e che ci consentirà di dimostrare come la teoria dell’aumento degli “eventi estremi” è una bufala senza pari.

Figura 4 – Deviazione annua delle precipitazioni in Italia nel periodo 1800-2018 rispetto alla media 1971-2000

Partiamo dai dati del Cnr sul periodo 1800-2018, un lasso di tempo che ci mostra una straordinaria stabilità del regime delle precipitazioni. La figura 4 evidenzia gli scostamenti avvenuti in questi 218 anni. Lo zero è determinato in base alla media delle precipitazioni del trentennio 1971-2000. Com’è naturale che sia, significativi scostamenti annui ci sono sempre stati. Ma essi sono regolarmente avvenuti sia verso l’alto che verso il basso, tant’è che la media mobile ottenuta con questi numeri risulta straordinariamente stabile, con oscillazioni che non vanno mai oltre il 10% (vedi la curva nera del grafico). 
 
Una stabilità certificata anche dall’Istat per gli anni più recenti. Secondo l’istituto di statistica: «La precipitazione totale media annua delle stazioni, nel periodo 2002-2016, è stata pari a 778 mm, l’1,6% in più rispetto al valore climatico 1971-2000 (765,8 mm)». Una variazione davvero minima, che ci dice come non sia in atto alcun cambiamento sostanziale.
 
Eppure, a dispetto di questi dati, l’allarmismo sulle piogge, come pure sui periodi di siccità, è ormai diventato incessante. E siccome i numeri sono dispettosamente stabili, ecco che si ricorre all’onnicomprensivo concetto degli “eventi estremi”. Un concetto davvero risibile, se nel loro “estremismo” essi ci riconducono alla fine alle tranquillissime medie storiche che abbiamo visto…
 
Proprio per questo trucco concettuale venire a capo della questione non è semplice. Tu hai voglia di fargli vedere la figura 4, essi (i catastrofisti) ti diranno che la media non conta; conta solo l’intensità di ogni singolo fenomeno. Ma misurare l’intensità effettiva non è sempre semplice, mentre essi hanno dalla loro potentissimi mezzi di informazione che ripetono alla Goebbels che il tale evento è stato eccezionale, che l’altro non si era mai visto, che l’altro ancora non ha precedenti storici, e che tutti si possono spiegare solo con i terrificanti effetti dei “cambiamenti climatici” in corso.
Da che parte sta il torto, da quale la ragione?
Come stabilire allora da che parte stia il torto, da quale la ragione? Io penso che un modo ci sia. Siccome quando si parla di “eventi estremi” ci si riferisce ovviamente a fatti  che comportano danni alle persone, un criterio è certamente quello di quantificare questi danni per poi operare un confronto col passato.
 
Per provare a venire a capo della questione proporrò in primo luogo un raffronto secco tra i primi diciotto anni del XXI secolo, con il corrispondente periodo del secolo precedente. In secondo luogo, presenterò invece una rassegna dei principali disastri dei sette decenni successivi alla Seconda Guerra Mondiale. 
 
Sul perché del primo raffronto la faccio breve. Siccome in tutte le chiacchiere, da quelle al bar a quelle in televisione, si dà per certo che i disastri meteo (essenzialmente alluvioni, tempeste di vento e frane dovute a precipitazioni intense) siano in forte aumento, siccome questa sensazione è alimentata pure dalla scienza mainstream, qui i casi sono due: o c’è anche un aumento delle vittime provocate da questi eventi, oppure si tratta solo di una bufala bella e buona. 
 
La scelta di esaminare i primi diciotto anni del secolo è giustificata dal fatto che mai come in questo periodo si è diffusa la sensazione di vivere un momento particolarmente pesante. Utile dunque verificare la veridicità di questa percezione. Essa ci dà inoltre la possibilità di un confronto assai interessante, dato che secondo la narrazione dominante è proprio questo secolo quello del grande cambiamento, naturalmente in peggio.
 
I numeri ci raccontano invece tutta un’altra storia. Per verificarlo è sufficiente in questo caso una visitina su Wikipedia. Dalla Lista di alluvioni ed esondazioni in Italia si possono ricavare dati assai eloquenti. Mentre nei primi 18 anni di questo secolo (2001-2018) risulta un totale di 159 vittime; dal 1901 al 1918 ne vengono riportate oltre 520. Ora, anche senza tenere conto che l’Italia di allora era meno abitata, che per il secolo scorso è evidente come non siano stati riportati i disastri minori, tutti rigorosamente elencati invece nei nostri anni così “disastrosi”, il calo risulta comunque del 70%. Che il global warming faccia bene alla salute?
La verità è che abbiamo la memoria corta
(e a lorsignori piace così)
Passiamo adesso alla carrellata dei principali disastri degli ultimi sette decenni. Il periodo non è casuale, dato che è abbastanza lungo, ed è quello su cui si dispone di dati più accurati. Ma questa rassegna risulterà utile principalmente per un altro motivo. Perché, soprattutto chi avrà voglia di andarsi a vedere i numerosi link, potrà farsi un’idea più realistica sull’effettiva portata, niente affatto eccezionale, degli eventi più recenti. 
 
Richiamare alla memoria tanti disastri ormai dimenticati è comunque una sana operazione di igiene mentale, il primo antidoto alla narrazione sensazionalista dell’oggi. Talvolta infatti la memoria umana è troppo corta, specie se il martellamento dei media è lì che la vuol portare.
 
Cominciamo con il numero complessivo delle vittime per ogni decennio preso in esame. Per semplicità utilizziamo anche in questo caso i dati di Wikipedia. Essi presentano in qualche caso alcune discordanze rispetto ad altre fonti, ma nella sostanza ci offrono comunque un quadro d’assieme sufficientemente attendibile.
 
Il decennio più calamitoso è stato decisamente il primo, quello degli anni cinquanta del secolo scorso con un totale di 686 vittime. Seguono gli anni novanta con 337 vittime e gli anni sessanta con 213. Assai meno calamitosi gli anni settanta (17) ed ottanta (53), ma pure i primi due decenni del secolo in corso: 70 vittime dal 2001 al 2010; 89 dal 2011 al 2018. Per evitare ogni equivoco chiariamo subito che da questo calcolo abbiamo espunto sia il disastro del Vajont (1963) che quello della Val di Stava (1985), disastri che con le condizioni meteo c’entrano quanto i cavoli a merenda.
 
Naturalmente questi dati risentono in primo luogo delle calamità più importanti, ma essi ci dicono chiaramente che una tendenza all’incremento degli “eventi estremi” proprio non c’è. 
 
Vediamo ora gli episodi più gravi di questo settantennio, riportando – quando esistenti – le notizie più utili al fine della comprensione dell’intensità dei vari fenomeni.
Gli anni cinquanta, i peggiori di tutti
Il decennio inizia con la grande ondata di maltempo che colpisce il sud dal 14 al 19 ottobre 1951. Le vittime saranno 70 tra la Calabria e la Sardegna. Nell’isola si registrerà un picco di precipitazione di ben 1.431 millimetri, in Calabria addirittura di 1.770 millimetri. Certo, quantità cumulate in cinque giorni, ma che non sono più state neanche lontanamente avvicinate nei decenni successivi.
 
Passano poche settimane e si arriva (14 novembre) al famosissimo alluvione del Polesine. Un evento catastrofico con un centinaio di vittime, oltre 180mila profughi, mille i kmq allagati. Anche in questo caso si tratta di un evento che non si è più ripetuto nei decenni successivi.
 
Il 21 ottobre 1953 tocca nuovamente alla Calabria, per l’esattezza alla provincia di Reggio. Tra morti e dispersi le vittime sono 151. Significativo in questo caso il valore di punta della precipitazione: 82,6 mm/ora. Che dire, una bomba d’acqua ante litteram
 
Si arriva così al tremendo ottobre 1954 quando – pochi lo sanno – si verifica il peggior bilancio di un’alluvione nel dopoguerra (318 le vittime). Il secondo di sempre dall’unità d’Italia, dopo il Tornado di Sicilia del luglio 1861. La zona colpita è quella del salernitano, dove in meno di 24 ore cadono oltre 500 mm di pioggia. Quantità mai più raggiunte in queste zone.
Gli anni sessanta: Firenze e non solo
Il 4 novembre 1966 mezza Italia va sott’acqua. Ci va Firenze, e lo sanno tutti, ma il disastro non è minore nel Triveneto. A Firenze l’Arno esonda, danneggia gravemente il patrimonio artistico della città e provoca 34 vittime. Quasi 14mila le famiglie disastrate, 46mila gli sfollati, 19mila le imprese colpite, 12mila le automobili sommerse. Non è la prima volta che il fiume tracima, ma da allora non è più avvenuto.
 
Lo stesso giorno tocca al Triveneto, dove si arrivò a conteggiare 42mila sfollati. Qui le vittime saranno 18 in Trentino, 20 in Friuli, 36 in Veneto. Soprattutto in quest’ultima regione i danni furono ingentissimi. Vista la contemporaneità, il dramma del Triveneto venne oscurato dalla maggiore notorietà di Firenze. Chi voglia farsi un’idea di massima su quel che accadde può guardarsi il video presentato presso la Regione Veneto nel 2016, in occasione del cinquantenario. A Venezia si raggiunse il record dell’acqua alta in piazza San Marco: 194 centimetri mai più uguagliati. Altrettanto ineguagliati sia il livello delle precipitazioni, le punte di piena, le superfici allagate (oltre 1700 kmq). Solo in Provincia di Belluno furono danneggiati o distrutti 4300 edifici, 528 ponti e 1.346 strade. Si tratta in larga misura delle stesse zone colpite alla fine dello scorso ottobre. Un evento pesante quest’ultimo, ma fortunatamente assai meno grave della catastrofe del 1966 quando di “cambiamenti climatici” ancora non si parlava. 
 
Nel novembre 1968 è la volta del Piemonte, in particolare del Biellese (qui le immagini del Tg1dell’epoca). Le vittime furono 72. I dati disponibili sulle precipitazioni ci parlano di un massimo di 395 mm in 24 ore nella località di Trivero, ma vengono riportate punte di 6o mm orari sulle alture biellesi.
 
Il decennio si chiude con la Grande Alluvione di Genova dell’ottobre 1970. Le vittime furono 44, le precipitazioni rilevate impressionanti. Nel nostro Paese, Genova è la città simbolo delle alluvioni, tante sono le volte che è stata colpita, anche in anni molto recenti. Eppure i livelli di precipitazione di quarantanove anni fa non si sono fortunatamente più ripetuti. In circa 24 ore caddero 550 mm in centro, 800 a Voltri, 700 a Sestri. A Bolzaneto si raggiunse il picco cittadino con 948 mm in 22 ore, ma nelle zone collinari a monte della città si valutarono quantità fino a 1.100 millimetri. Col linguaggio dell’odierno catastrofismo una “bomba d’acqua” da oltre 40 mm/ora per quasi un giorno intero.
La “pausa” degli anni settanta ed ottanta 
Come abbiamo già visto, questi due decenni furono di gran lunga meno calamitosi di quelli precedenti. Non che siano mancati in quegli anni i disastri meteo, ma la loro gravità fu decisamente inferiore. Una prova di quanto l’idea di un’incessante curva verso l’alto degli eventi estremi sia semplicemente infondata.
 
In quel periodo l’alluvione più grave, soprattutto per le frane che si verificarono, fu quella che colpì la Valtellina nel luglio 1987.  Le vittime furono 53, le precipitazioni di circa 300 mm in 24 ore, ma con punte locali di 450 millimetri. L’alluvione della Valtellina è stata la più grave calamità naturale che abbia colpito la Lombardia dall’unità d’Italia.
Gli anni novanta
 
In questo decennio il maltempo torna a colpire più duramente. Nel novembre 1994 una grave alluvione interessò le province piemontesi di Alessandria, Asti, Cuneo e Torino. Particolarmente importante fu l’esondazione del fiume Tanaro. Le vittime furono 70, le precipitazioni cumulate in tre giorni raggiunsero i 600 millimetri.
 
Nel maggio 1998 vasti movimenti franosi colpiscono l’area di Sarno, in Campania. Le vittime furono 160. A scatenare l’evento una pioggia cumulata di 240/300 mm in 72 ore: una quantità importante, ma non propriamente eccezionale. Incuria ed abbandono della montagna ebbero in quel caso un ruolo non certo secondario.
 
Nell’ottobre 2000 viene colpito di nuovo il Piemonte. Trentaquattro le vittime, 40mila gli sfollati. Nell’occasione il Po raggiunge le portate più alte dopo quelle del 1951. Sulle precipitazioni nell’area interessata ci sono dati assai diversi: si va da una media di 200/300 mm, ad un massimo di 600 mm in 48 ore.
 
Se questi sono stati gli eventi più gravi del decennio, facciamo ora un passo indietro al 1996, per vedere cosa accadde nel giugno di quell’anno in una ristretta area delle Alpi Apuane, in provincia di Lucca. Il fatto – che provocò la morte di 14 persone – è noto come Alluvione della Versilia. L’importanza di quel disastro, ai fini del ragionamento che stiamo svolgendo, sta nei livelli elevatissimi e concentrati di quella precipitazione: 440 mm in 8 ore, di cui 157 soltanto nell’ultima e decisiva ora. Ricordo che, per la prima volta, esponenti del governo di allora misero in relazione quei dati ai “cambiamenti climatici”. Ma davvero quell’evento era senza precedenti storici nell’area? A questa domanda hanno risposto Giacomo D’Amato Avanzi e Roberto Giannecchini, con una loro interessantissima ricerca storica. Dal lavoro di questi due ricercatori emerge che altri eventi, dello stesso grado di gravità di quello del 1996, si erano già verificati nella stessa area negli anni 1636, 1774, 1846, 1885 e 1902. Una chiara dimostrazione di come bisognerebbe andarci piano prima di sparare certe sentenze!
I primi due decenni del XXI secolo
Abbiamo già detto come i primi 18 anni del secolo in corso abbiamo visto una drastica riduzione (-70%) del numero delle vittime dei disastri meteo, rispetto allo stesso periodo del secolo precedente. Ma c’è un altro dato, altrettanto significativo. Mentre nel cinquantennio 1951-2000 ci sono state mediamente 26 vittime all’anno, nel periodo 2001-2018 esse sono fortunatamente scese ad 8. 
 
Vediamo ora gli eventi più gravi di questi 18 anni. Il disastro più pesante (36 le vittime) è stato l’Alluvione di Messina dell’ottobre 2009. I dati su quella precipitazione non sono precisi. La Protezione civile parlò comunque di 220/230 mm in 3/4 ore, ma il suo responsabile, Guido Bertolaso, indicò tra le cause di quel tragico bilancio l’abusivismo edilizio.
 
La precipitazione più intensa è stata invece quella che investì la provincia di La Spezia (ed in misura minore quella di Massa Carrara) il 25 ottobre 2011. Il disastro, noto anche come Alluvione delle Cinque Terre, provocò la morte di 13 persone, mentre gli sfollati furono 1.100. La pioggia fu davvero violenta, con un picco (registrato nella località di Brugnato) di 448 millimetri in 6 ore. Un record secondo soltanto all’alluvione di Genova del 1970.
 
Diciotto furono invece le vittime dell’alluvione che colpì la Sardegna il 18 novembre 2013. Qui le piogge raggiunsero i 300 mm in 20 ore, con qualche punta superiore ai 400 millimetri. Valori importanti, ma non infrequenti nell’isola. Comunque inferiori (ne abbiamo già parlato) a quelli registrati nel 1951.
I disastri meteo non sono in aumento
 
Passare in rassegna gli ultimi 70 anni ha chiesto tempo e pazienza ai lettori. Tuttavia, penso che sia stato piuttosto utile. Certo, i dati non sono mai precisissimi e completi, ma in ogni caso essi ci dicono due cose: non è vero che i disastri meteo siano in aumento, non è vero che siano più intensi rispetto al passato. Anzi, se proprio la vogliamo dir tutta, almeno l’intensità (misurabile in quantità di precipitazioni, livelli di piena, superfici allagate, oltre che dal numero delle vittime) appare decisamente in diminuzione. 
 
Dunque, sentir parlare in continuo di aumento degli “eventi estremi” è davvero irritante. Come lo è l’annuncio settimanale di allerte che al 95% (e siamo decisamente prudenti) non hanno senso alcuno. Del resto, che si sia di fronte ad un’incredibile spettacolarizzazione della meteorologia lo possiamo riscontrare giornalmente. Le normali perturbazioni, come anche i periodi di caldo, hanno adesso nomi inquietanti affibbiati dalla nuova figura del meteorologo-terrorista. I normali nubifragi sono ora diventati “bombe d’acqua”, mentre la stessa definizione scientifica di “nubifragio” (tot mm/ora in x ore) è stata rivista al ribasso per aumentarne artificiosamente il numero. E si potrebbe continuare.
La dura vita del meteorologo
 
Ora, noi vorremmo esser generosi con la categoria dei meteorologi. In fondo le previsioni a breve sono diventate sempre più precise, dunque sempre più utili. Tutto andrebbe infatti più che bene se ci si limitasse a questo. Ma vi immaginate la noia di dover dire che l’alta pressione regge, che le temperature sono stabili, che in Val Padana c’è ancora la nebbia, che al sud fa caldo, ma nelle isole spira un discreto venticello? Mediaticamente un disastro totale.
 
Ecco allora che, per avere successo, diversi meteorologi (ovviamente non tutti) decidono di farsi climatologi (e fin lì lo potremmo accettare), filosofi, futurologi e soprattutto showman. Essi hanno scoperto che il sistema li vuol proprio così. Si aggiunga a questo l’interesse economico – i siti meteo vivono sull’audience, dunque sulle cliccate, dunque sul grado di allarmismo che riescono a trasmettere – ed il quadro è fatto.
 
Volete un esempio clamoroso di tutto ciò? Ce lo offre, per ora gratuitamente, il sito ilmeteo.it, da quel che sappiamo (il catastrofismo rende) il più consultato dagli italiani.
 
Senza parole… 
 
Il sito è piuttosto curato e le sue previsioni a breve ben fatte, ma…

Figura 5 – Screenshot  delle news meteo del 9 aprile 2019, del sito www.ilmeteo.it

Quello qui accanto è l’elenco delle news del 9 aprile. Niente male, no? Quante belle notizie in un giorno solo… La settimana sarà piena di temporali, con una serie di cicloni con grandine (ore 10:01). Le temperature, oibò, saranno «sottotono, giubbini e maglioni ancora a lungo» (ore 10:09). Ma sottotono per quanto? Evidentemente non per molto perché: «Temperature, illusorio rialzo fino a martedì, poi doppio scivolone» (ore 10:10). Va bene, uno pensa, ma almeno fino a martedì prossimo avremo un rialzo, per quanto “illusorio”. Eh no, sarebbe facile la vita! «Sabato 13 e domenica 14 sberla dal Polo Nord, piogge e temporali infiniti» (ore 14:56). D’accordo, abbiamo capito, è un gran casino, ma quando si rimetterà? Di certo non a Pasqua: «Pasqua 2019 e pure Pasquetta da incubo! Italia dentro un ciclone con pioggia e pure neve» (ore 12:49). Dopo questo annuncio, accolto con giubilo da tutte le associazioni degli albergatori d’Italia, uno si domanda cosa dovrà aspettarsi per l’estate. Non sarebbe poi male se il fresco continuasse anche in quella stagione. Eh no cicciobelli, non penserete mica di rilassarvi! Sarà freddo anche a maggio (allegria!), ma poi… «Estate 2019, Italia capovolta. Ecco dove (a sorpresa) il caldo sarà più insopportabile» (ore 10:25). Ok, ma se farà caldo avremo almeno tempo buono… Fermi là, banda di illusi, che mica così funzionano le cose: «Estate 2019, super caldo entro giugno. Poi agosto nero, incubo grandine tutti i giorni» (ore 10:23). Che dire, meno male che han saltato luglio! 
 
Qui non si sa davvero se ridere o se piangere. Che aprile possa essere piovoso lo sanno anche i bambini e ce lo ricordano le medie stagionali. Che le temperature varino con frequenza idem. Che possano esserci temporali, nevicate e grandinate per Pasqua fa parte della tradizione. Che in estate faccia caldo, senza che questo escluda temporali anche violenti lo sa anche il Sesto Cajo Baccelli. Ma non vi sembra di aver colto nelle news una lieve (lieve, ci mancherebbe) vena catastrofista?
 
Stiamo forse esagerando? Quello del 9 aprile è stato solo un episodio di qualche burlone della redazione? Direi proprio di no. E verificarlo non è difficile, basta fare una visitina ogni tanto su quel  sito per rendersene conto. Quando non importa, visto che la musica è sempre la stessa: annunci catastrofici, che fra l’altro non trovano mai corrispondenza nelle previsioni di dettaglio dello stesso sito. Il che è ovvio: se sbaglio per domani non clicca più nessuno, ma se la sparo grossa un mese prima chi mai se lo ricorderà?

 

Figura 6 – Screenshot  delle news meteo del 12 marzo 2019, del sito www.ilmeteo.it

Volete la riprova del fatto che il catastrofismo della figura 5 non è un’eccezione, bensì la regola? Abbiamo preso a caso lo screenshot del 12 marzo scorso, ma qualunque altro giorno ci avrebbe dato risultati simili.

Possiamo fermarci qui, ma non senza farci una domanda: è tollerabile tutto ciò? Sembrerebbe di sì, anche se qualcuno ha iniziato ad innervosirsi, come la RegioneLiguria, che ha annunciato una denuncia per l’allarmismo diffuso dal sito, o come i concorrenti del quasi omonimo meteo.it, che parlano esplicitamente di “meteo terrorismo”.

Conclusioni
 
Perché abbiamo dedicato tanto spazio a tutto ciò? Per una ragione semplicissima, perché gli annunci catastrofici di quel sito vengono continuamente ripresi dai più importanti mezzi di informazione nazionali. Mediaticamente il catastrofismo piace e fa audience. Ma i responsabili politici non hanno nulla da dire? Evidentemente no, visto che anch’essi stanno al gioco, come dimostra l’incredibile messe di allerte dichiarate senza risparmio, ma generalmente anche senza costrutto alcuno.
 
L’allarmismo è ormai prassi quotidiana. Eppure abbiamo visto, dati alla mano, che non è in atto alcun incremento dei cosiddetti “eventi estremi”. Che anzi questa diffusa convinzione è forse la più grande bufala del nostro tempo. Ma se così van le cose qualche ragione ci sarà. Ne parleremo nelle prossime puntate.
4 (continua)

 

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