LA TEORIA DEL GENDER di G. O.
Gender, gender roles e gender fluid: dove ci porta la ricusa della struttura basata sui generi che in passato organizzava mente e società
(Prima parte)
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«La teoria del gender, per come è proposta ora, mira a decostruire i ruoli sessuali tradizionali per asserirne l’infondatezza, ma il suo presupposto è rivendicativo e ideologico: si vuol cioè asserire l’inesistenza di un determinismo biologico alla base della psicologia e del comportamento di genere, dicendo che i sessi in biologia sono ininfluenti. La finalità è quella di svalutare il significato di “maschile” e “femminile”, di cancellarli».
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Se consultate Wikipedia alla voce “teoria del gender”, troverete che viene negata l’esistenza sia di una teoria che di una ideologia del gender, imputandone l’invenzione a fazioni complottiste di matrice cattolica volte a osteggiare la conquista di spazi sociali per le donne e il gruppo LGBTQ+.
Ora, notoriamente Wikipedia è l’enciclopedia del sapere globalista della sinistra americana, che non si fa scrupolo nell’epurare voci ad essa non allineate, come è accaduto recentemente all’economista Vlaimiro Giacchè (condannato alla “damnatio memoriae” poiché sovranista), così come non si astiene dal cambiare la denominazione della strage di Odessa, trasformandola nella voce “rogo di Odessa” e dunque falsificando la storia. Essendo Wikipedia un tale “braccio armato” dell’ideologia, qualche sospetto sul motivo di questo diniego dell’esistenza della teoria del gender ci viene, visto che il cittadino medio può venire assalito da una sorta di “dissonanza cognitiva”, immerso com’è in un continuo incitamento all’anti-patriarcato, al femminismo, alla parità di genere, all’inclusività LGBT in luoghi dell’Italia, come l’Emilia Romagna in cui vivo, che dell’urgenza di questi problemi non ne sentono l’ombra da generazioni. Il cittadino comune assiste a un profluvio di investimenti governativi nella parità di genere (investimenti più massicci di quanto avvenga per la sanità, per intenderci) e al proliferare di programmi, ore di lezione, opuscoli informativi, libri di testo dai contenuti attenti al gender nelle nostre scuole dell’obbligo e non, insegnamenti che sottraggono parecchio tempo alle materie fondamentali in passato come italiano, storia, matematica, filosofia. Spesso questi programmi e opuscoli vengono affidati a psicologi valendosi di consulenti, quando è il caso, afferenti a gruppi LGBT “perché più sensibili alla tematica”.
E’ stato anche emesso un testo con linee guida per giornalisti e photo editor, in cui si chiariscono termini linguistici “raccomandati” e quelli da evitare, qualcosa di simile alla censura, insomma: ad esempio si raccomanda di utilizzare il termine “maternità surrogata“ anziché il troppo crudo “utero in affitto” e si chiede di non pubblicare foto di Gay pride troppo perturbanti. I fondi europei finanziano studi universitari, convegni, conferenze, mostre su tematiche gender o parità di genere – qui da noi ricordo l’ultimo, la mostra dedicata alla moda tenutasi a Carpi (Modena) “Habitus, liberare il corpo”, che ha ottenuto il finanziamento europeo proprio perché dedicata al tema.
Le riviste e le trasmissioni televisive, siano esse di moda, di lifestyle, di gossip, sono fitte di articoli di punta sul tema: ricordo che quando come giornalista mi recai nella sede del gruppo editoriale che a Pechino pubblica l’edizione cinese delle testate globali Condé Nast, mi venne detto che il palinsesto delle testate di ogni anno, cioè quello degli argomenti trattati, veniva deciso dal governo. Per riviste femminili? Ne rimasi stupita. Oggi mi stupisco meno: sappiamo di quali investimenti sia stata oggetto la stampa in tema di narrazione mainstream del Covid, e, dati i contenuti delle testate, oggi non mi stupirei se una lauta fetta fosse proprio dedicata alla promozione della teoria gender.
Assistiamo, ancora, al bizzarro usa della shevà, contro il quale si sono inutilmente levate voci di intellettuali tra cui Cacciari, una e rovesciata atta a non usare desinenze al maschile e al femminile, poiché potrebbero ferire chi a tali generi non senta d’appartenere. Per non offendere i gay siamo arrivati a paradossi come questo, che fa strame della storia della lingua; ricordiamo inoltre quanto utile fosse la neolingua di Orwell nel diniego della realtà: chi non disponga di categorie definitorie per certi enti o fenomeni non avrà le basi per nominarli e dunque prendere una posizione rispetto ad essi. Penso anche alla tragicomica news per via della quale un annuncio di non so quale testata inglese definiva le donne, per non nominare il termine “woman”, termine reputato poco politically correct , “portatrici di cervice”. Quando la scrittrice J. Rowling, autrice di Harry Potter, si è pubblicamente scagliata contro questa follia è stata attaccata da buona parte dei nuovi benpensanti, tanto da essersi fatta la nomea di nemica dei gay, e tanto da indurre la produzione della serie di film di cui è di fatto l’autrice a non invitarla nemmeno alla celebrazione dell’anniversario del primo “Harry Potter”.
Insomma non esisterà, come asserisce Wikipedia, una teoria del gender, ma essa sta entrando negli stili di vita di tutti. Per chiarire dunque di che si tratta, dirò in breve che essa affonda le sue radici nei “gender studies” che nascono in America negli anni 70, quando alcuni studiosi, valendosi delle teorie femministe, del clima decostruzionista e post-strutturalista, cominciarono ad asserire che il genere è culturalmente dato ed è sganciato dal sesso d’appartenenza.
La cosa è difficilmente confutabile, in realtà: tutte le culture hanno sostenuto nei loro usi e costumi la divisione binaria in generi per inscrivere i soggetti in una società avente certi principi di funzionamento. La sessuazione era cioè, di fatto, una tra le strutture portanti della civiltà, comportava prima fra tutte la divisione del lavoro tra uomo e donna, poi l’assunzione di ruoli legati al genere, per via dei quali l’intera vita delle persone era scandita e regolata da un preciso canovaccio di nome, funzioni, mansioni, rituali. Così l’esistenza tutta era governata attraverso il controllo di sesso, sessualità, generatività. Pare che anche oggi si stia facendo la stessa cosa, valendosi apparentemente dei principi opposti però.
La teoria del gender, per come è proposta ora, mira a decostruire i ruoli sessuali tradizionali per asserirne l’infondatezza, ma il suo presupposto è rivendicativo e ideologico: si vuol cioè asserire l’inesistenza di un determinismo biologico alla base della psicologia e del comportamento di genere, dicendo che i sessi in biologia sono ininfluenti. La finalità è quella di svalutare il significato di “maschile” e “femminile”, di cancellarli addirittura come concetti dal vocabolario, per non discriminare chi non senta di appartenere appieno a una delle categorie. Insomma, per non patire un limite si sposta il limite, lo si cancella. Un po’ come ha fatto l’OMS con la pandemia: ne ha cambiato la definizione, che richiedeva un parametro numerico che avrebbe escluso il Covid dal novero delle pandemie, per poter definire il Covid “pandemia”. O un po’ come facciamo con il linguaggio, definendo un cieco “non vedente”, così che, escludendo dall’uso un termine storicamente troppo associato con l’handicap, il cieco possa sembrarci un po’ meno cieco.
La teoria del gender vuole dare a ogni individuo discrezionalità completa circa il suo identificarsi in un sesso, anzi, come asseriscono le teorie più estreme dello xenofemminismo, asserisce che ognuno possa cambiare genere e anche orientamento sessuale più volte nel corso dell’esistenza e persino nello stesso giorno, è un suo diritto farlo: in lgbtq+, il + sta per “identificarsi in tanti sessi quanti possibile, infiniti sessi e orientamenti sessuali”: si vuol difendere chi, mettiamo, si innamori di una scarpa. Da qui il termine di “gender fluid”, che sta a indicare l’ indeterminatezza di genere.
Il primo problema è che tale teoria nasce, come già asserito, come fortemente ideologica, non lucida: è in nome del “diritto a essere fluidi”, a non essere discriminati poiché fluidi che asserisce l’inesistenza di generi dati in natura.
Il secondo problema è che i sessi in biologia esistono, dunque negarne l’esistenza è un’operazione che potremmo dire quantomeno di diniego della realtà. I correlati comportamentali e psichici della biologia non sono stati pienamente studiati, ma c’è il forte sospetto che ci siano; le differenze corporee in una specie caratterizzata da dimorfismo sessuale rendono ciascuno dei sessi più facilitato nello svolgere certe mansioni, perlomeno nei confronti della prole: se pensiamo alla gravidanza e all’allattamento, con il tipo di relazione che essi instaurano tra madre e figlio che essi innescano e con la secrezione di ormoni che l’espletamento degli stessi comporta. L’ossitocina, per esempio, secreta in abbondanza nel corso dell’allattamento, è letteralmente l’ormone dell’affettività e dell’attaccamento, dunque sembra predisporre la madre al ruolo facilitato di accudimento e al necessario “innamoramento” nei confronti del suo cucciolo. Il congedo parentale al padre per allattamento suona, in questo contesto, poco azzeccato, ma non datemi della maschilista perché non lo sono.
In realtà, la psicologia scopre la fortissima componente culturale nella determinazione della psiche, dunque danno ragione alle teorie culturaliste. Ma proprio perché esse validano il ruolo chiave della socialità e della cultura nel forgiare individui e società possono porsi a ragion veduta il problema di… a cosa ci stia conducendo la teoria del gender, con la sua svalutazione di maschile e femminile, il suo desiderio di cancellare le differenze tra uomo e donna, la sua voglia di ripensare ai ruoli sessuali addirittura rinunciando al loro significato nella società, per fondare una società che ne faccia completamente a meno.
Può una cultura rinunciare al sesso come motore di significati, come perno e vincolo su cui far poggiare i suoi valori e il suo futuro?
Non dimentichiamo che il sesso, fino a prima dell’avvento della pillola, era anche per noi, non soltanto per le culture primitive studiate in antropologia, legato alla generatività, dunque alla creazione degli uomini nuovi.
Nel desiderio inizialmente sacrosanto, affacciatosi da noi dagli anni Sessanta in poi, di disfarsi di discriminazioni di genere o ruoli rigidi che inchiodavano uomini e donne in destini di scarsa libertà, si è forse finito per “gettare il bambino e l’acqua sporca?”
Il sospetto c’è. Proprio perché l’uomo è “das nicht festgestellte Tier”, diceva Nietsche, cioè un animale non completato, egli necessita di norme per regolare il suo comportamento non guidato dagli istinti, cioè di un sistema di orientamento, normatività e devozione che ne consenta l’organizzazione di gruppo e della società. Egli non riesce a pervenire a nulla nell’anomia, nell’assenza di valori d’orientamento. Come accade, tra il resto, in una qualunque azienda che, privata di mansioni o del “chi fa chi”, si trovi ben presto nel caos. Sta alla libertà di pensiero di ciascuno trovare, all’interno della cornice delle leggi, delle norme e dei ruoli, la sua area di manovra e d’autoespressione creativa, al limite la sua possibilità di personalizzazione, rimessa in discussione o trasgressione delle norme stesse.
Il sistema binario basato sui sessi, imperfetto e per tanti versi da correggere, è stato per millenni quello del patriarcato, organizzato attorno alla divisione del lavoro tra i sessi e allo scambio, osservò Levi Strauss, delle donne tra famiglie e tribù per garantire alleanze. E’ Sebbene sia un sistema che dev’essere posto al vaglio della discussione e decostruito, ciò non toglie che ha garantito l’organizzazione delle civiltà per millenni. Dunque, toccarlo significa metter mano a un principio organizzativo profondo, e toccarlo non può essere casuale, se agenzie dell’educazione potenti come la Disney e l’intera Hollywood stanno rivoluzionando i parametri delle sceneggiature definienti cosa siano l’amore e la sessualità oggi. Per certi versi, potremmo dire che il millenario rodaggio del sistema binario oggi in dismissione in occidente lo abbia visto come efficace per alcune funzioni essenziali, tra cui garantire la tenuta di un’istituzione che è stata per millenni l’unica e indiscussa matrice delle soggettività, la famiglia.
Un uomo di valore fondava una famiglia, un tempo, e se ne assumeva la responsabilità; oggi saremmo perseguiti, ad asserire una cosa del genere, a causa della “pruderie” del pensiero politically correct, ipocrisia assurta a pensiero unico, vera e propria censura del pensiero intellettualmente onesto.
Freud fu forse tra gli ultimi a potersi permettere di asserire che la famiglia era una struttura che proteggeva l’uomo dalla regressione ai più bassi istinti dell’”homo homini lupus”, la regressione all’orda primitiva. La famiglia si collocava, ovviamente, anche all’origine della nevrosi (tutto ha un prezzo, non c’è verso…) con la repressione sessuale che chiedeva ai suoi membri: ma tutto sommato la rinuncia pulsionale, come chiarisce ne “Il disagio della civiltà”, era il male minore, anzi era ciò su cui si era fondato l’incivilimento, ciò che lo aveva reso possibile. Dalla rinuncia pulsionale discende la possibilità di pensiero, cioè quel differimento del soddisfacimento del desiderio che ci impegna nel trovare soluzioni, nell’attivare ipotesi, nel sognare un futuro in cui la otterremo, la cosa proibita ma desiderata, rispettando al contempo i nostri principi, il nostro ideale di noi… oppure coscientemente rinunciandovi. E’ nel differimento del soddisfacimento che si colloca l’umanazione dell’uomo, la sua reale possibilità di svincolarsi dalle tante determinazioni: ereditarie, di cultura, di coazioni a ripetere, di distruttività. Solo quando pensa l’uomo può innovare e darsi una possibilità.
Ovviamente l’incivilimento, con la sua richiesta di rinuncia pulsionale, chiede all’uomo come prezzo la felicità, che gli diverrà irrealizzabile: l’uomo con essa “rinuncia alla felicità per un po’ di sicurezza”, asserì ancora Freud, e potremmo dire che con l’ordine garantito dall’istituzione della famiglia l’uomo entri nel mondo del conflitto e anche nella complessità del pensiero.
Nel ruolo che abbiamo appena descritto di “contenitore” la famiglia è un “porto sicuro” in cui gli affetti “garantiti”, con quella quota di scontatezza che li rende abitudinari, leniscono il soggetto dalle sue molteplici incursioni nella precarietà dell’esistere. Essa costituisce cioè il nucleo base di socialità –non dimentichiamo che l’uomo è animale politico-, la cuccia e la caverna che consente a ciascuno di sopravvivere nell’asprezza della vita. Non solo: facendo riferimento al mito di Edipo, fu proprio mentre questi si apprestava a sposare una regina e a divenire re a Tebe che risolse l’enigma della Sfinge. “Qual è quell’animale che la mattina cammina su quattro zampe, a mezzogiorno su due e la sera su tre?”, chiese la sfinge. “L’uomo”, poté rispondere Edipo, per via del fatto che nella prima infanzia gattona, in giovinezza sta su due gambe e in vecchiaia deve appoggiarsi sul bastone, terza gamba. L’imminenza del matrimonio lo pone dunque nella necessità di un confronto con la problematica del tempo e della caducità: accetta di entrare nel tempo, nella storia, fondando una famiglia proprio perché sente di non essere eterno. L’imminenza del matrimonio lo pone a confronto con la sua caducità, e, al contempo, con la necessità di generare per potersi trascendere come uomo e darsi un futuro negli eredi. Esce dall’eternità onnipotente per entrare nella storia.
La famiglia inserisce dunque il soggetto nella continuità delle generazioni, nel futuro, nelle viscere e nella profondità del tempo.
La profondità del tempo: se pensiamo al fatto che, per esempio, in ogni fiaba o nei miti o nelle leggende si narra della sofferenza dell’orfano alla ricerca del genitore perduto, oppure delle sue straordinarie ascendenze divine, nobiliari che lo inclinano a grandi imprese (una sorta di riscatto) e se ricordiamo come nella Bibbia stessa, nel Pentateuco, si tenti l’impresa genealogica di tracciare la linea evolutiva di tutte le famiglie succedutesi tra Adamo e la diaspora, si può ben comprendere quanto il tema dell’ascendenza sia cruciale. Vogliamo sapere da dove veniamo, avere un passato che conosciamo, non foss’altro che per potercene appropriare, farlo nostro, fonte di fierezza o di cruccio.
Da quella pasta veniamo, su di essa dobbiamo lavorare, da essa allontanarci e metterci sopra qualcosa d’altro o rivelare da essa un’essenza solo nostra. Qui si innesta il tema delle teorie del gender. L’obiettivo di pervenire a una famiglia composta da “genitore 1” e “genitore 2” anziché da una madre e un padre va a complicare non già e soltanto il tema di cosa sia una madre e di cosa sia un padre, dunque lo statuto stesso del figlio, ma anche quello dell’eredità del tempo. Cosa, come, da chi, da quando e perché ereditiamo il nucleo di ciò che siamo? Che storia ha quel passato? D’altra parte la possibile tracciabilità del nostro passato attraverso la genealogia è ora messa in questione dalla legge, che vieta anche da noi l’assegnazione del cognome paterno al nuovo nato. Vige il doppio cognome, ma forse sarà possibile anche qui una discrezionalità di scelta relativa a quale dei due cognomi assegnare. Se così fosse, questo renderà di fatto non più percorribile per il singolo una linea, fino ad ora patrilineare, che lo riconnetta agli antenati. Una nuova prassi per isolare ancor meglio l’individuo-monade-sovrana rispetto alle appartenenze primarie? Troppo rischioso per il senso di comunione che queste appartenenze generano? Il terreno è pronto per Santa Madre Tecnologia e Santo Padre il neo-stato etico, che tendono a sostituirsi in parecchie mansioni alla famiglia. “Non avrai più nulla (ivi inclusa l’appartenenza a un mondo affettivo) e sarai felice”?…
Tra noi e le profondità del tempo s’inseriscono già ora le biotecnologie, che ne spezzano la continuità: la fecondazione eterologa ne è un esempio con i suoi “bambini venuti dal freddo”, da embrioni congelati. Senza nemmeno scomodare le famiglie arcobaleno, anche solo parlando dell’infertilità di una coppia o della famiglia composta da una sola donna, l’eterologa introduce il taglio della tecnica nella possibilità di accedere alle profondità del tempo. La discontinuità introdotta fa sì che il nascituro non potrà mai sapere chi sia il padre biologico. L’inquietante di questa presenza, questo padre che non si sa chi sia, fantasma inconscio di difficile gestione anche per la puerpera, lede comunque un diritto del nascituro… tutelando soltanto il desiderio di quei genitori che hanno chiamato al mondo il figlio perché lo volevano. La forza del loro desiderio, del loro amore sarà sufficiente a garantire una buona crescita? La domanda può anche trovar risposta positiva, ma è lecito porla. Siamo abituati a cogliere le verità nei dettagli, e questo dell’eterologa non è un dettaglio da sottovalutare. Questo figlio lo fabbrico io valendomi delle biotecnologie, non lo genero nell’atto d’amore e della complementarietà. Lo ottengo asfaltando il mio legittimo timore di farlo con geni che non conosco, e asfaltando il suo diritto ad avere un padre noto e a essere generato e non fabbricato. Non è che per caso questo figlio io lo stia facendo per me, piuttosto che per lui? Cioè: per essere genitori occorre, dice la psicoanalisi, aver superato le problematiche narcisistiche, le incertezze su di sé, aver completato la propria identità –almeno averne raggiunto maturità, la perenne crescita è cosa auspicabile-. In questa scelta mi sembrano adombrabili motivazioni più narcisistiche, cioè di fare un figlio per darsi un’identità, la qual cosa categorizzerebbe il neogenitore già come richiedente anziché come donativo e oblativo nei confronti del figlio. E questo, per il figlio, diventa sempre una trappola.
Ma questa è solo una delle tematiche.
L’eliminazione dei ruoli legati al genere può essere l’altro tema da esplorare. Come abbiamo già detto in precedenza, una divisione del lavoro “classica” affidava a una persona, la donna, il compito di cura dei figli e della famiglia. Questo ne sacrificava la carriera e la libertà generando ingiustizia, ma siamo sicuri che la soluzione del lavoro di entrambi sia davvero… soluzione? Quali costi ha comportato per la famiglia? Era immaginabile un’alternativa soddisfacente? Ne parleremo nel secondo articolo di questo ciclo dedicato alla discussione del ruolo dei generi nella strutturazione della società.
L’ho letto con molto interesse, aspetto la seconda parte.
Scritto molto interessante, articolato, ben fatto, molte affermazioni condivisibili. Vorrei aggiungere che: Il patriarcato è da millenni la struttura della società – e che società ne è venuta fuori? Quella che ora sta distruggendo tutto, che ha fatto della guerra il paradigma di tutte le relazioni! Ma il patriarcato aveva un “prima”, è stato preceduto da una struttura diversa, non patriarcale. Di questo sarebbe bene parlare. Si tratta della struttura sociale precedente, in cui il potere era distribuito in modo orizzontale, non verticale. Nell’articolo non se ne parla, peccato.