AD UN ANNO DALLE ELEZIONI DEL 25 SETTEMBRE di Leonardo Mazzei
Tra pochi giorni Giorgia Meloni festeggerà il primo anniversario della sua vittoria elettorale. Lo farà in una situazione tesa e difficile, con un consenso che inizia a declinare. Ma potrà farlo ancora con una certa convinzione non tanto per l’ampia maggioranza parlamentare di cui dispone, quanto soprattutto per l’assenza di vere alternative politiche.
Un anno fa, due settimane prima del voto, scrivemmo un articolo sulle prospettive che si sarebbero aperte dopo il 25 settembre, sostenendo in particolare cinque cose per quanto riguardava il futuro governo: 1) che la destra avrebbe vinto le elezioni; 2) che grazie alla legge elettorale avrebbe ottenuto una forte maggioranza parlamentare; 3) che – contrariamente a quel che in diversi favoleggiavano allora – alle porte non c’era alcun governo tecnico, bensì un esecutivo politico; 4) che i dominanti avrebbero scelto la strada del condizionamento del governo Meloni, non quella dell’opposizione e dell’ostruzionismo; 5) che il nuovo governo avrebbe messo in campo un mix di continuità sulle cose che contano (politica economica e sociale, politica estera), limitando il “cambiamento” alla propaganda su alcune questioni identitarie (immigrazione, famiglia tradizionale, eccetera).
Sul fronte dell’opposizione sostenemmo invece tre cose: 1) che, a causa di una colpevole divisione, nessuna delle liste dell’area del dissenso sarebbe entrata in parlamento; 2) che di conseguenza l’opposizione (più finta che vera, ma questo è un altro discorso) sarebbe stata egemonizzata dal Pd; 3) che dunque bisognava rimboccarsi le maniche, guardare al dopo-elezioni per costruire una nuova opposizione all’altezza della situazione.
Questa analisi ha trovato un’ampia conferma nei fatti degli ultimi 12 mesi. Adesso, però, ci avviciniamo ad un possibile punto di svolta. Ed è su questo che vogliamo concentrarci.
Il bilancio di un anno di governo Meloni
Il colore del primo anno del governo Meloni è stato il grigio. Nel suo insieme l’economia è andata piuttosto male, ma non malissimo come si poteva ipotizzare. Il boom dei costi energetici ha drenato parecchie risorse nei primi mesi, ma poi in primavera i prezzi hanno preso a scendere. Da qui la decisione di abbandonare ogni misura calmieratrice, sia sulle bollette di gas e luce, sia sui combustibili alla pompa. Anche per questo i prezzi hanno così ripreso a salire, ma di nuovi interventi dello stato proprio non si parla più. Nel frattempo stiamo entrando in recessione, con un’inflazione che resta alta: esattamente la temuta stagflazione.
In un quadro del genere qualunque governo sarebbe già in uno stato di pre-crisi, quello presieduto da Meloni per ora no, data la pittoresca debolezza (ma potremmo pure dire assenza) dell’opposizione parlamentare.
In politica estera, la capa di Fratelli d’Italia ha messo il suo governo al servizio degli americani e delle oligarchie euriste. Su questo terreno Meloni semplicemente non ha opposizione alcuna, vista l’identica collocazione del Pd e la strutturale inconcludenza dei mal di pancia pentastellati.
Per ora l’opposizione parlamentare ha saputo prendere una sola iniziativa di un qualche rilievo, quella sul salario minimo, mentre un’altra – ma ancor più generica – si annuncia sulla sanità. Un bilancio decisamente al di sotto del più basso minimo sindacale che si possa immaginare. La fotografia di un nullismo politico senza precedenti.
Tuttavia, nonostante questo incredibile vantaggio, la maggioranza di centrodestra sta cominciando a fibrillare. Se l’opposizione dorme, i problemi politici, sociali ed economici no. Ed i nodi cominciano a venire al pettine.
In primo luogo, tutte le promesse sul fisco stanno saltando una dopo l’altra. Resta in piedi la cosa peggiore di tutte, quel percorso verso la flat tax che simboleggia il massimo dell’iniquità sociale. Ma senza risorse sarà difficile portarla avanti senza suscitare un ampio malcontento popolare.
Sull’immigrazione, il 2023 finirà probabilmente con il record degli sbarchi provenienti dall’Africa. E l’annunciata svolta repressiva ben difficilmente invertirà la tendenza attuale.
Sulle riforme istituzionali siamo molto vicini allo stallo. Lo scambio tra il presidenzialismo (ora declinato come “premierato” e voluto da Fdi) e il regionalismo differenziato sostenuto dalla Lega sembra destinato ad un binario morto. Chiaro come ne verrebbe fuori comunque un mostriciattolo, ma non è questa la ragione dell’impasse. E’ che l’autonomia differenziata potrebbe passare solo con l’iniezione di consistenti risorse che proprio non ci sono, mentre sul “premierato” si andrebbe dritti ad un referendum che (Renzi docet) potrebbe portare al naufragio dell’attuale maggioranza.
Le acque si stanno dunque agitando, anche se i tempi della crisi non saranno brevi.
Il prezzo del servilismo
L’azione del governo appare dunque paralizzata, tutta puntata a microscopiche misure di bandiera. Una merce che puoi vendere per qualche tempo nei talk show, ma che alla fine non inganna quasi nessuno.
La luna di miele di Giorgia Meloni – in realtà più lunga di quanto avevamo previsto un anno fa – volge dunque al termine. Ed il passaggio topico dell’inizio della parte discendente della parabola sarà la prossima Legge di bilancio.
Il problema per il governo è che il servilismo dà sì alcuni vantaggi – in primo luogo la copertura politica di Washington e Bruxelles – ma alla lunga impone anche dei prezzi da pagare. Nel caso specifico, la ferrea volontà di non scontrarsi con l’UE, porterà ad una Legge di bilancio austeritaria, le cui misure, al di là del giudizio su ognuna di esse, dovranno essere finanziate con ulteriori sacrifici (nuove tasse o nuovi tagli di spesa). Il tutto nella totale assenza di ogni visione strategica dell’economia e della società, che non sia la semplice riproposizione delle più trite politiche neoliberiste.
E’ chiaro come lo snodo di tutte queste problematiche sta nella subalternità alla cupola eurista. Certo, Salvini porta a Pontida lo spauracchio Le Pen. Certo, di tanto in tanto, pure Meloni prova a fare la voce grossa, ma con quale credibilità?
La verità è che i caporioni della destra pensano solo alle elezioni europee, ma non ad un vero scontro con l’oligarchia eurista. Capaci di beccarsi tra loro per qualche voto in più, Meloni e Salvini sono del tutto incapaci di una vera scelta sovranista, questo è il punto. E se la propaganda li obbliga alla polemica verbale con Bruxelles, la loro subalternità strutturale gli impedirà di passare dalle parole ai fatti.
Certo, a volte anche un conflitto solo simulato può condurre ad un autentico scontro. Ma ciò potrebbe avvenire più facilmente in presenza di una vera opposizione, che al momento non c’è.
Le ultime notizie, provenienti dal vertice dell’Ecofin (composto dai 27 ministri delle finanze dell’UE), che si è tenuto lo scorso fine settimana a Santiago de Compostela, sono piuttosto precise. Mentre c’è grande irritazione per il ritardo dell’Italia nell’approvazione delle nuove regole del Mes, quel che più conta è che il nuovo Patto di stabilità – sul quale si sta ancora trattando – avrà comunque una chiara matrice austeritaria, come già avevamo denunciato a maggio.
Di fronte alle drammatiche conseguenze che ciò avrà sulla malmessa economia italiana, il governo Meloni ha già fatto enormi passi indietro rispetto alle richieste della scorsa primavera. Di fatto non si parla più di detrarre dal deficit tutti gli investimenti del Pnrr, ma solo quelli per la digitalizzazione e per la cosiddetta “transizione ecologica”, nonché le sacre spese militari dedicate a sostenere la guerra dell’Ucraina. Dunque, il governo italiano accetta di contabilizzare tutti gli altri investimenti pubblici, non solo quelli del Pnrr, come “spesa primaria”, con la conseguenza di dover ricorrere a nuove tasse e/o nuovi tagli per rientrare nei vincoli europei. A tutto ciò si unisca la politica degli alti tassi della Bce, confermata a Santiago de Compostela con l’illuminante «dobbiamo finire il nostro lavoro» di Christine Lagarde, ed il quadro del disastro in arrivo è fatto.
Brevi conclusioni
Dal nostro punto di vista sono perciò due le conseguenze da trarre.
La prima è che bisogna costruire una nuova opposizione sistemica, alternativa tanto al governo quanto all’accozzaglia Schlein-Conte-Calenda-Renzi. La seconda è che bisogna rimettere al centro la lotta per l’uscita dall’euro, dall’Unione Europa e dalla Nato.
Naturalmente, si aprirebbe adesso il discorso di come costruire questa opposizione e di come rilanciare concretamente l’iniziativa per l’italexit. Ma per ora ci fermiamo qui, perché intanto bisogna afferrare l’esigenza oggettiva di una nuova opposizione, insieme alla consapevolezza della rinnovata centralità del nodo europeo
O tutto o nulla : “rimettere al centro la lotta per l’uscita dall’euro, dall’Unione Europa e dalla Nato.”
Concordo piemamente sull’ analisi ma soprattutto sulla conclusione: finora nessuno aveva mai detto a chiare lettere che solo unendo i tre punti suddetti si può costruire un’alternativa. Inutile infatti ad es. uscire dall’euro ma restare nell’UE e ancor meno uscire dall’ UE ma restare nella NATO.
A questo punto però si apre un interrogativo: l’uscita dalla NATO , se rimanesse una decisione italiana, vedrebbe immediatamente la Penisola occupata e divenire teatro di guerra. Gli USA ai quali la NATO di fatto appartiene e che la usano come forza di occupazione in Europa non avrebbero nemmeno bisogno di inviare carri armati come fece l’UDSSR in Ungheria o Cecoslovacchia per mantenere la propria zona di influenza secondo gli accordi di Yalta. Gli USA già hanno forze sufficienti in Italia ed in Europa per soffocare ogni rivolta di uno Stato che volesse uscire dalla NATO. Nel 1968 il PCI aveva preparato una campagna al motto di “Fuori l’ Italia dalla NATO e fuori la NATO dall’Italia. Una campagna che venne sospesa poiché ci si rese conto dell’impossibilità del progetto. La NATO potrebbe unicamente crollare dall’interno sfaldandosi quando un gruppo consistente di Stati membri coordinasse la fine di questa organizzazione aggressiva e terrroristica (v. bombardamenti in Serbia e Libia) che è una finta alleanza ma nei fatti una vera sottomissione ed un vassallaggio atlantico. Imporre il ritiro delle forze di occupazioni USA dall’Europa non sarà facile ma è l’unica opzione rispetto ad una guerra di più ampie dimensioni di cui ora i fatti d’Ucraina sono al confronto una scaramuccia e un mero preambolo.
Oltre alle due ipotesi esposte (uscita “concordata” da un certo numero di Stati membri o guerra conclusasi con la sconfitta militare della “pseudo-alleanza”) secondo me si può prendere in considerazione anche una terza ipotesi (che forse, al momento potrebbe essere anche la più probabile): instabilità politico-sociale all’interno dell’ impero americano che porti a un suo crollo e, di conseguenza anche alla fine della Nato.
Francesco F.
Manduria (Ta)