LA VERITA’ SUL SIONISMO di Nello De Bellis
Sionismo, questione palestinese, ed ebraismo: brevi note di orientamento
C’è un dato ricorrente nella questione palestinese, oggi tornata drammaticamente alla ribalta tra gli attacchi di Hamas e i bombardamenti israeliani, ed è la sua annosità.
Sono anni che, da varie generazioni, sentiamo parlare della questione palestinese e sono anni che essa sembra essere in un perenne stallo tra attacchi e contrattacchi, occupazioni dei coloni israeliani e proteste arabe.
Potrà apparire, anzi apparirà sicuramente eccentrico, nel pieno di un’offensiva mediatica non meno cruenta di quella militare, riportare i termini della questione alle sue origini non solo storiche e relativamente recenti, né tantomeno ancestrali, bensì ideologiche.
Questo conflitto è interminabile e suscettibile di sviluppi inattesi, perché l’ambito fondativo dello Stato ebraico è il sionismo, ed il sionismo è una dottrina politico-religiosa formulata da Theodor Herzl nel pieno dell’età del colonialismo imperialistico europeo, al pari del pangermanesimo e del panslavismo, più o meno coeva alla Conferenza di Berlino del 1878, presieduta da Bismarck che per dirimere la questione balcanica inaugura de facto l’età dell’imperialismo europeo.
Con ciò, si badi bene, non intendiamo dire che il sionismo abbia caratteri omologhi a quelli delle altre ideologie citate, ma che esso pone, in un futuro Stato ebraico sottratto alle fluttuazioni dell’antisemitismo già preoccupanti all’epoca, come requisito di cittadinanza l’appartenenza religiosa.
Con ciò regredendo, rispetto allo “jus publicum europeum” di alcuni secoli. ‘E noto che ( ma a chi, al giorno d’oggi?) che l’epoca delle guerre di religione in Francia, che hanno segnato il periodo più sanguinoso della storia europea, si conclude con l’editto di Nantes del 1598 promulgato da Enrico IV di Borbone, che riconosce ai calvinisti francesi, detti ugonotti, il diritto di professare la propria religione senza più discriminazioni e minacce da parte della maggioranza cattolica.
Si stabilisce così ( salvo le riserve determinate dalla cultura del tempo, per cui i protestanti potevano disporre all’interno dello stato francese di una propria forza armata a garanzia della propria incolumità, diritto poi revocato in una fase successiva con l’abolizione delle “places de sureté”) che il requisito della cittadinanza non è più la confessione religiosa.
In seguito, fatto salvo in Francia e non solo, il principio del monopolio della forza quale condizione della statualità, che fonda l’ordinamento giuridico su territorio, popolazione e potere sanzionatorio, il diritto di cittadinanza viene svincolato dal dato confessionale ed integrato nella successiva dottrina dello Stato giusta i principi razionalisti ed illuministi.
Il sionismo fa un obiettivo passo indietro, teorizzando uno Stato in cui la pienezza dei diritti è legata alla religione ebraica.
Che ciò avvenisse in guisa “preventiva” rispetto alle persecuzioni allora agli albori ( caso Dreyfus in Francia, pogròm antisemiti nella Russia zarista) è comprensibile, ma è il prosieguo che suscita, dopo la fondazione di Israele e la perenne conflittualità della regione, più di un interrogativo, oggi più che mai angoscioso e attuale.
Il dato comune, a ben rifletterci, a sionismo ed antisemitismo risulta essere la separatezza del popolo ebraico dagli altri popoli.
Ciò emerge in particolar modo in uno degli Scritti teologici giovanili di Hegel. Nello Spirito del Cristianesimo e il suo destino (“Der Geist des Christentums und sein Schicksal”) il giovane Hegel ripercorre la storia degli Ebrei dal diluvio alla distruzione del Tempio e alla diaspora.
In questo testo il filosofo nota come gli Ebrei abbiano reagito al diluvio, legando la salvezza dalla minaccia della natura al loro Dio. Dio è posto come il Signore onnipotente cui tutto è soggetto, compresa la natura che viene contrapposta alla divinità. Iddio è tutto, gli uomini e la natura sono nulla, poiché essi hanno vissuto il diluvio comne un tradimento della natura medesima che dimostra parimenti la pochezza e fragilità dell’Uomo.
Per questo, nota Hegel, essi hanno scelto di vivere in inimicizia con la natura e in ostilità con gli altri uomini, proiettando la salvezza nel loro Dio lontano di cui essi sono il popolo eletto. Un Dio “geloso” di qualsiasi trasgressione a questo patto di fedeltà esclusiva. Vi sono stati momenti” in verità in cui con i popoli vicini gli Ebrei godevano del sole, insieme guardavano le luna e le stelle”, cioè fondavano un rapporto di serena convivenza nel quadro di una natura pacificata.
Poi però tutto questo veniva vissuto come un “tradimento” ed essi tornavano al loro patto di fedeltà esclusiva al loro Dio e di inimicizia contro i popoli stranieri e la natura. Poiché però la vita è una, inimicarsi altri popoli significa inimicarsi la vita stessa, la quale si vendica aizzando contro di loro il destino , condannandoli all’infelicità.
Il destino è per Hegel la forza con cui la natura reagisce quando l’uomo o un popolo gli si pone contro. Su questo sfondo il filosofo colloca la figura di Cristo , pensato secondo le categorie classico-romantiche dello spirito di bellezza ellenico, basato invece sull’unità (spinoziana) della vita. La buona novella è la conciliazione che il Cristo tenta di attuare tra l’Uomo e Dio, tra la Natura e lo Spirito, tra il soggetto e l’oggetto, superando la scissione e dunque ricomponendo secondo la legge dell’amore la lacerazione della vita offesa. Ma Egli muore ucciso dal suo popolo, incapace di comprendere la sublimità del messaggio di amore inteso come unità di tutti gli spiriti viventi.
Il Cristianesimo è per Hegel una rivoluzione di valori, che però subisce lo scacco della storia, perché tutte le chiese e le sette cristiane , che hanno adottato la versione paolina della fede, sono ricadute nella positività, vale a dire nel dogmatismo , ripensando e vivendo nei modi della scissione il rapporto tra l’uomo e Dio.
Tali temi verranno poi ripresi da Hegel nel periodo maturo nella Fenomenologia dello Spirito ( 1807) in cui tale discorso fonderà poi quello della “coscienza infelice”, vale a dire della coscienza dell’uomo occidentale, infelice perché pone il rapporto tra il soggetto e l’Assoluto in termini di separazione radicale ed inconciliabile e separata dal proprio fondamento.
Si dice che “in seguito” il diritto di cittadinanza viene svincolato dall’appartenenza religiosa. Ma allora la “questione ebraica” oggetto del saggio di Marx, facente parte della polemica con l'”hegeliano” Bauer sull’argomento? La “cittadinanza “per gli ebrei in molti stati europei allora non era affatto piena, in quanto questi stati si proclamavano “cristiani” e negavano agli ebrei molti diritti politici. Per questo Marx nel saggio sosteneva che “lo stato si deve liberare dalla religione” e che per l’uomo di fede, giudeo, cristiano o altro, la vera libertà politica c’è quando lo Stato “non professa religione alcuna”.