«QUESTI PORCI INGLESI»
[ 28 febbraio 2010 ]
Come sta messo davvero il paese che ha fatto da apripista al capitalismo?
di Moreno Pasquinelli
Presente alla conferenza, gli ha fatto eco Paul Volcker, ex presidente della Federal Reserve, attualmente alto consulente del presidente Barack Obama.
Uno dei più eclatanti risultati di quella che Soros definisce “la disintegrazione del sistema finanzraio mondiale” è l’allarmante crisi del capitalismo britannico, su cui grandi think tank deliberatamente tacciono, preferendo esorcizzarla deviando l’attenzione sui cosiddetti “PIIGS”. Gli analisti anglosassoni sanno bene che il capitalismo inglese non sta messo molto meglio della Spagna o dell’Italia. Basta analizzare i dati appena diffusi dal “Office for National Statistics” (http://www.statistics.gov.uk/). Tutti i cosiddetti “fondamentali” traballano.
Per quanto riguarda il commercio con l’estero il Regno Unito è deficitario sia verso i paesi dell’Unione europea che, soprattutto, verso il resto del mondo. Ma la cosa che preoccupa Downing Street è la tendenza alla sua veloce crescita: a novembre era di 6,8 miliardi di sterline, a dicembre, in un solo mese, è passato a 7,3 miliardi. Il tasso di investimenti (un metro di misura decisivo per misurare la profondità della recessione e quanto fondate siano le speranze di inversione del ciclo) registrato nel quarto trimestre del 2009 è crollato del 24,1% rispetto allo stesso periodo del 2008. Il settore dei servizi (che data la deindustrializzazione che il Regno Unito ha conosciuto negli ultimi trent’anni è quello traainante) è continuato a scendere per tutto il 2009. Particolarmente accentuata la decrescita del comparto finanziario (la City). Durissima la discesa del settore turistico (Hotel e ristoranti), e dei trasporti. Per quanto riguarda il Pil, che era crollato al -6% a metà del 2009, la sua ripresa, nel quarto trimestre del 2009, è stata del modesto 0,3%. Indicativo il dato riguardante il Capitale fisso (macchinari ecc) che il mercato continua a rottamare: -14,2% rispetto al 2008.
Opachi sono i dati sui profitti, ma si può intuire il calo se si considera che il surplus lordo delle aziende è sceso del 5,9% rispetto ad un anno fa, che fu già nefasto. Abbiamo così la disoccupazione al 7,8% e la produttività complessiva che non sta solo al di sotto di quella americana o francese, ma pure di quella italiana.
Ad aggravare il contesto c’è infine il deficit di bilancio, che veleggia alla cifra del 10% (livello greco) e che secondo stime attendibili (Istituto degli Studi Fiscali, Ifs, un centro di ricerca e consulenza che fra i sui clienti annovera il Ministero del Tesoro britannico e la Banca d’Inghilterra) potrebbe toccare 150 miliardi di sterline nei prossimi tre anni.
Il solo fiore all’occhiello di Sua Maestà sarebbe il debito pubblico, il 43,60% del Pil, fatto che collocherebbe appunto il Regno Unito tra i paesi virtuosi. Bugia! Gli inglesi, come si sa, sono isolani, e calcolano a modo loro. O per dirla altrimenti non si devono certo far insegnare dai greci come manipolare e truccare i parametri e i dati. E’ infatti risaputo (come è stato fatto notare da diversi analisti, vedi il Corriere della Sera del 9 dicembre), che il debito pubblico del Regno Unito supererebbe il 170%, bel oltre quello greco e prossimo a quello giapponese, se il Tesoro di Sua Maestà contasse, come dovrebbe in base al Trattato di Maastricht e ancora non fa, anche il costo dei salvataggi bancari e i passivi delle banche nazionalizzate dopo il crollo del settembre 2008.
I “maiali” mediterranei e gli irlandesi sono quindi in buona, si fa per dire, compagnia. Si capisce dunque il dibattito sul futuro del paese che imperversa sui giornali britannici. Non deve ingannare l’aplomb e i toni compassati. Nemmeno i più ottimisti tra i gentlemen inglesi si sentono di escludere la catastrofe. Ecco quindi gli amari ripensamenti sugli “anni gloriosi” del thatcherismo e del neoliberismo blairiano, oggi considerati disastrosi, non fosse che per lo smantellamento dell’industria manifatturiera, la cui rinascita è invocata a destra come a sinistra come sola possibile exit strategy alla depressione. Che comunque, anche senza un crollo improvviso, è destinata a durare a lungo.