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Né MOLTITUDINE Né CLASSE

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Riflessioni sul mito del «soggetto rivoluzionario»

di Mimmo Porcaro*

Se sia la classe o la moltitudine il “soggetto rivoluzionario” del presente e del futuro è discussione molto spesso oziosa e mal impostata, soprattutto perché i sostenitori dell’una o dell’altra tesi commettono sovente il medesimo errore: quello di dedurre arbitrariamente da una descrizione sociologica un comportamento politico.Secondo i teorici che si richiamano alla classe operaia, la centralità politica di tale classe è conseguenza della centralità dei meccanismi di estorsione del plusvalore nell’ambito della società dominata dal modo di produzione capitalistico. Poiché la classe dei lavoratori espropriati è necessariamente sfruttata, necessariamente essa produce o produrrà un conflitto antagonista nel cuore stesso del sistema, e sarà quindi indotta a darsi forme politiche ed organizzative capaci di porre (e risolvere) il problema del superamento del capitalismo.


Secondo i teorici della moltitudine quest’ultima è soggetto antagonista in virtù della propria consistenza sociale. Essa è infatti la cooperazione sociale in atto, è un insieme di soggetti eterogenei che cooperano senza far ricorso alla mediazione del capitale e dello Stato, che costituiscono immediatamente un nesso sociale autonomo ed autosufficiente, e che proprio per questo possono funzionare come soggetto politico che esprime il proprio progetto nella propria immediata esistenza. Ed il progetto non è quello della costruzione di una nuova società (giacché essa già esiste nella cooperazione), quanto quello dell’esodo di questa nuova società già costituita: l’esodo rispetto ai codici del capitale e dello Stato.

In entrambi i casi, lo ripeto, un comportamento politico è desunto da una condizione sociale. Per essere pi precisi: le stesse categorie che vengono usate per descrivere i soggetti della produzione vengono usate per descrivere il soggetto della rivoluzione; ed anche se si pensa che la classe e la moltitudine devono darsi una qualche forma politica d’esistenza, questa forma politica, partito o rete che sia, è sempre vista come espressione diretta dei soggetti della produzione, è l’ “altro nome” di questi soggetti. Si deve notare, per inciso, che questa posizione non conduce solo allo spontaneismo o al movimentismo. Dall’idea della centralità della classe si può infatti anche desumere l’idea di una centralità del partito, partito che trova proprio nella presunzione di essere “espressione” della classe “centrale” la propria legittimazione e la illusoria garanzia della sostanziale giustezza del proprio operato [2].
L’idea che un soggetto sociale possa essere in quanto tale soggetto rivoluzionario trova alimento nella credenza secondo la quale nella produzione si svolge una dialettica positiva che conduce il capitalismo, ad un certo punto, a trasformarsi in qualcos’altro. La socializzazione delle forze produttive generata dal capitale sarebbe cioè la base del comunismo: il soggetto rivoluzionario sarebbe l’espressione di questa socializzazione, espressione di qualcosa che già esiste, anche se poi per alcuni questo qualcosa di già esistente deve essere enucleato a fatica dall’insieme dei rapporti sociali dominanti mentre per altri deve essere lasciato vivere liberamente nella sua piena potenza attuale.

Penso che questo insieme di convinzioni sia del tutto erroneo.
Come ci ricorda E. P. Thompson nella sua magistrale storia della formazione della classe operaia inglese, la classe operaia stessa (termine col quale egli intende designare un soggetto collettivo capace di pensarsi come entità distinta da altre classi ed opposta ad esse) non è né l’espressione di un dato sociologico né l’effetto di un progetto politico più o meno consapevole. Essa è piuttosto un’evento, il frutto dell’incontro casuale fra eterogenei processi economici, antropologici, culturali e politici: processi che in alcuni momenti si saldano facendo sì che una congerie di soggetti spesso radicalmente diversi gli uni dagli altri costruisca una galassia di interessi e valori convergenti [3]. Non v’è alcuna necessità che spinga i lavoratori subalterni a definirsi come entità antagonista. Vi è certamente la necessità di una costante ripetizione del conflitto, dalla quale è probabile che scaturisca la formazione di una soggettività autonoma, ma l’effettiva realizzazione di questa necessità è legata all’incontro originale ed imprevedibile tra i suddetti processi eterogenei, nonché al lavoro lato sensu politico che stabilizza le condizioni dell’incontro facendo sì che esso si riproduca con una certa regolarità.
Insomma: a qualunque esito essa conduca, l’analisi della produzione non esaurisce affatto in sé l’analisi della rivolta e della rivoluzione. Come scriveva molti anni fa Raniero Panzieri: dall’analisi del “livello del capitale” non si può dedurre l’analisi del “livello della classe operaia” [4]. La ricerca teorico-empirica sul capitalismo, a mio avviso, puÚ dirci: a) quali sono le contraddizioni fondamentali e quindi quali sono i luoghi nei quali probabilmente si addenseranno le condizioni della formazione di un soggetto rivoluzionario e b) cosa dovrebbe fare un soggetto collettivo per definirsi soggetto rivoluzionario. Nulla può dirci delle concrete forme storiche che assume il soggetto e la sua eventuale pratica rivoluzionaria, nulla può dirci del tempo e del luogo in cui questo evento si realizzerà. L’individuazione di queste forme è dunque compito della ricognizione concreta della realtà effettuale del conflitto: della descrizione analitica, puntuale, discreta di pratiche effettive che possono davvero essere comprese solo se non si tenta di ricondurle forzatamente nei limiti di un modello dedotto dall’analisi teorica.

Consideriamo la cosa da un altro punto di vista.
La critica dell’economia politica ci porta a dire che la società capitalistica è irrevocabilmente segnata dal prevalere del conflitto sulla cooperazione, sia all’interno delle singole unità produttive che nel rapporto tra le unità produttive stesse. D’altra parte detta società è anche quella che sviluppa al massimo grado l’interdipendenza dei diversi lavoratori e dei diversi processi lavorativi: la cooperazione è dunque razionalmente necessaria, anche se ciò non significa che essa sia già effettivamente operante (come credono i teorici della moltitudine, ma anche molti teorici della classe), e deve piuttosto essere realizzata grazie ad un nuovo (e mai concluso) lavoro di mediazione sociale che non faccia principalmente ricorso né alla gerarchia né al denaro.
Il soggetto rivoluzionario, quindi, è quella coalizione di gruppi, movimenti ed istituzioni che, in parte per interna tendenza e in parte per costrizione esterna, riesce a progettare e tendenzialmente ad attuare nuove relazioni cooperative nelle imprese e tra le imprese, e riesce ad inventare la forma di potere politico storicamente pi adeguata a questo compito.
Come si vede, questa è una definizione formale e non sostanziale del soggetto rivoluzionario, perché dice solo che cosa deve fare questo soggetto e non quale particolare gruppo sociale possa farlo. L’individuazione concreta del soggetto dipende – come già detto – dalla concreta analisi storica [5]. E ciò perché qui non si tratta di un soggetto descrivibile con la pura analisi sociologica, ma del frutto di una particolare – e storicamente determinata – autocostruzione politico-culturaleche trascende in parte le condizioni sociali date per creare qualcosa di nuovo, qualcosa che prima non c’era.
Il soggetto rivoluzionario è insomma qualcosa di qualitativamente diverso dal semplice gruppo sociale, sia esso classe o moltitudine. Quando partecipa ai movimenti, ai sindacati o alle altre istituzioni in cui si articola un processo di emancipazione, l’individuo che sociologicamente è membro della classe operaia non agisce come membro della classe operaia, ma, appunto, come membro di movimenti, sindacati, ecc. . In quanto tale esso fa altre cose rispetto a quelle che fa in fabbrica, e le fa in modo diverso: è titolare di altre pratiche. La stessa cosa si può dire per quei lavoratori che sono usualmente visti come tipici costituenti della moltitudine: gli analisti di simboli o coloro la cui attività è fatta soprattutto di atti linguistici. Nei movimenti e nelle istituzioni di movimento vengono elaborati simboli e prodotti linguaggi diversi da quelli richiesti dalla produzione capitalistica. Oppure, il che è lo stesso, i medesimi simboli e linguaggi vengono combinati in maniera diversa.
Se è vero che, nel linguaggio politico corrente, col termine classe o col termine moltitudine si indicano spesso esperienze e pratiche politiche assai significative, è anche vero che quando si riflette in maniera pi precisa si ha il dovere di operare una critica concettuale delle parole usuali.
Parlando rigorosamente, non possiamo dire che il soggetto rivoluzionario sia la classe. Intendiamoci, tale soggetto deve essere certamente cercato tra i lavoratori, ma la classe è solo una delle modalità di esistenza dei lavoratori. Sociologicamente essa indica l’insieme degli individui sfruttati dal capitale, e quindi descrive solo quelle situazioni e quelle pratiche che portano il segno dello sfruttamento, lasciando da parte tutta l’esperienza di emancipazione. Politicamente indica l’azione condotta da questi stessi individui in quanto sfruttati (resistenza, contrattazione del livello dello sfruttamento, attuazione di politiche di protezione del lavoro). Ma il lavoratore è soggetto rivoluzionario (potenzialmente, tendenzialmente rivoluzionario) non quando agisce come sfruttato, ossia come individuo espropriato (che tale rimane anche quando lo sfruttamento si presenta come induzione alla “creatività”) ma quando usa la pienezza della propria identità e del proprio sapere (identità e sapere potenziati dalle istituzioni autonome alle quali partecipa) per smantellare i rapporti che lo definiscono come membro di una classe [6].
Analogamente, non possiamo dire che il soggetto rivoluzionario sia la moltitudine. Sociologicamente essa è concetto fondato su un equivoco, perché scambia la necessità e la possibilità della cooperazione sociale per qualcosa di già pienamente esistente. Politicamente essa è termine che indica, e a ragione, la necessità di una azione che non sia immediatamente definita in rapporto allo Stato e la necessità di una piena valorizzazione dell’eterogeneità dei soggetti. Ma poi l’autonomia dallo Stato è vista come un presupposto già in atto, garantito dall’esistenza della cooperazione sociale (e da ciò possono derivare anche comportamenti opportunistici, disposti ad accettare le pi diverse alleanze in nome della pretesa, indiscutibile autonomia del movimento). E l’eterogeneità da valorizzare è pensata solo come differenza tra i componenti della coalizione antagonista. Mentre sembra più realistico pensare a questa autonomia come ad una conquista mai definitiva, e sembra più fruttuoso pensare l’eterogeneità non come semplice differenza (differenza che ha sempre connotato la composizione dei movimenti), bensì come pluralità e molteplicità dei lati da cui viene condotta la critica al capitalismo (lavoro, cultura, ambiente, conflitti etnici e di genere, organizzazione della scienza e della tecnica, ecc.) e degli organismi a ciò finalizzati (associazioni di base, sindacati, partiti…). E’ questa pluralità, e non la semplice eterogeneità, a far sì che l’attuale progetto di emancipazione non sia monocentrico, ovvero non sia il convergere di forze pur diverse attorno ad un’unico obiettivo (come la conquista del potere politico di Stato), ma l’articolazione delle diverse istanze in cui si produce la critica dei pi disparati ambiti sociali.
Né moltitudine né classe, dunque. Il soggetto rivoluzionario è il lavoro sociale, è cioè l’insieme eterogeneo di tutti coloro che, oltre all’attività che erogano in quanto sottoposti al capitale, inventano e praticano un’altra attività, tesa alla trasformazione dei rapporti sociali in senso cooperativo ed egualitario. Nella fabbrica, nell’impresa a rete, nelle cooperative, nei gruppi politici, nell’universit¦, nel web…
Ciò significa che l’analisi sullo stato e sulla dinamica del movimento deve vertere non solo sull’origine sociale dei suoi componenti e sulla modificazione dei rapporti di forza fra le classi, ma anche sui nuovi rapporti sociali che vengono creati nei movimenti e nelle istituzioni di movimento, e sulla capacità di queste istituzioni di progettare cooperazione sociale in piccola ed in grande scala.
Da questi rapporti e da questa capacità dipende la natura più o meno democratica, più o meno elitaria e più o meno efficace del nuovo progetto sociale. Una natura anch’essa aleatoria.
Infatti, proprio perché il soggetto rivoluzionario non è espressione di un soggetto sociale presupposto, collocato sempre e comunque nei punti nodali del sistema, necessariamente votato al comunismo, proprio perché il soggetto rivoluzionario è frutto dell’incontro casuale tra diversi fattori e del rischioso ed incerto lavoro che stabilizza le condizioni di quest’incontro, nulla garantisce che esso sia sempre e comunque in grado di portare a compimento una piena trasformazione dei rapporti sociali, senza residui, senza problemi ulteriori, senza imperfezioni anche gravi. Anzi, proprio nel carattere storicamente concreto del soggetto rivoluzionario sta la possibilità, ed anzi la necessità, della sua imperfezione.
Cosa di cui dovremmo rallegrarci, essendo l’imperfezione una caratteristica essenziale della vita.


* Fonte: Intermarx

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