INTERVISTA SUL COMUNISMO (seconda parte)
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Antonio Gramsci |
Pubblichiamo qui sotto il secondo capitolo di una lunga intervista che Moreno Pasquinelli concesse a Yuri Colombo nell’estate del 2004.
R: Il marxismo ha conosciuto alcune grandi “crisi eroiche”, ma la “madre di tutte le crisi” fu proprio quella a cavallo tra Ottocento e Novecento, che passò sotto il nome di Bernstein Debate.
Bernstein tirò conclusioni volgarmente riformiste è vero, ma partendo da un’analisi del sistema capitalistico più adeguata di quella dei suoi avversari. Il capitalismo, uscito dalla grande depressione degli anni Settanta-Ottanta del secolo XIX, conobbe un periodo di rigogliosa crescita che durò fino alla Grande Guerra. Egli affermò che l’evoluzione del capitalismo non andava nella direzione prevista da Engels e da Kautsky (ad esempio nel Programma di Erfurt 1891). Non era vero che cresceva il pauperismo, non era vero che la società si polarizzava e proletarizzava, non era vero che spariva la piccola borghesia, non era vero che la classe operaia fosse sufficiente a se stessa e non avesse bisogno di alleanze con altre classi, non era vero che il capitale non poteva sviluppare le forze produttive, non era vero, infine, che andava verso il crollo e non era vero che lo Stato democratico fosse solo un orpello, un mero rivestimento della dittatura borghese.
Il marxismo si trovò davanti ad un’eccezionale crisi scientifica di paradigma. Cosa rispose Kautsky, colui che veniva chiamato il Papa rosso? Negò i fatti, contestò ogni evidenza. Così si consolidò il “marxismo ortodosso”, il padre di tutti i dottrinarismi. I rivoluzionari (e lo stesso Lenin che a buona ragione si può definire un innovatore del marxismo) a causa dell’essenza sfrontatamente riformistica del bernsteinismo, si schierarono con Kautsky, ma con lui condivisero il paradigma e il “mito del progresso”. Vedevano il socialismo come qualcosa di ineluttabile. Bernstein, rimuovendo la rottura rivoluzionaria, avanza una visione assolutamente gradualistica del passaggio al socialismo, conduce il kautskismo alle sue logiche conseguenze, mentre gli “ortodossi” teorizzano sì questa rottura ma solo come spallata finale al sistema: entrambi restavano comunque chiusi dentro una concezione economicista e deterministica. Nessuno si pose il problema riorientare o anche di bloccare quello sviluppo delle forze produttive che porterà alla Prima Guerra mondiale.
R: Oggigiorno la pretesa di fare del materialismo dialettico una scientia scientiorum, una super-scienza che unificando tutti i saperi attraverso protocolli universali indichi le leggi inderogabili comuni a tutte le sfere del reale ci appare grottesca. Ma ebbe un suo fascino cartesiano.
Certo, come fece notare Lukács, Engels ha la sua responsabilità, ma i suoi erano appunti, ricerche, impregnate dello spirito scientista e positivista che pervadeva il suo tempo. Solo Plechanov, più tardi, giunse a fare del materialismo dialettico un monismo materialistico, una concezione del mondo.
Il marxismo sovietico ai tempi di Stalin fece di peggio, fece del materialismo dialettico un diamat, ovvero una religione, non solo di partito ma di Stato. Natura, società, antropologia, psicologia, ubbidivano alle stesse leggi basilari e chi dissentiva doveva tacere. Questo dogmatismo pretesco spiega, in parte, perché l’URSS perderà la sua battaglia con l’imperialismo.Venne messa la mordacchia, anzi il bavero, alla libera ricerca culturale e scientifica. Non solo era peccato studiare Freud, negli anni Cinquanta dello zdanovismo[ii] imperante, ma si escluse anche che la cibernetica fosse una scienza, ciò che spiega il catastrofico ritardo nel campo dell’informatica e delle sue applicazioni civili e industriali. Filosoficamente parlando il diamat era un pitagorismo rozzo, solo privato del suo fascino esoterico. Politicamente era l’espressione del tentativo del sistema burocratico di legittimare se stesso sul piano storico, di concepirsi come lo sbocco naturale e ineluttabile dell’evoluzione naturale piuttosto che come determinato e transeuente risultato di eccezionali circostanze sociali, camuffando dunque il proprio ossessivo soggettivismo – per cui, se i fatti non si piegavano al comando politico, tanto peggio per i fatti.
D:
È innegabile che pur non intervenendo direttamente sul dibattito “struttura-sovrastruttura”, la riflessione più originale di Gramsci, non a caso, si concentri sul ruolo dell’ideologia e in particolare dell’ “ideologia italiana”. I suoi critici hanno visto nella riflessione gramsciana l’influsso dell’idealismo e dello storicismo crociano. Tu come ti poni in questo dibattito?R: L’accusa, di scaturigine bordighista, per cui la riflessione di Gramsci sarebbe impregnata di crocianesimo e gentilismo, è francamente risibile[iii]. Parte dalla pretesa che il marxismo sia un corpus teorico autoreferenziale, sufficiente a se stesso. La stessa accusa, infatti, è stata rivolta allo stesso “Marx giovane”, ad esempio dagli althusseriani. Altri ancora rimproverano a Marx la filiazione delle sue teorie economiche dall’economia classica inglese. Se non ci sbarazziamo di queste sciocchezze dottrinarie (sempre gli scienziati salgono sulle spalle di quelli che li hanno preceduti acquisendo le loro premesse) non andremo da nessuna parte, e del resto potremmo rimproverare a Bordiga qualcosa di ben peggiore: la discendenza del suo materialismo da quello volgare e meccanicistico di Haeckel e Moleschott. Una storiella. Al confino di Ustica, Bordiga, cercando di convincere l’incredulo Gramsci alle sue idee gli disse, cito a memoria: “Posso stabilire con esattezza ciò che qualcuno dirà ad un comizio sapendo cosa egli abbia mangiato a pranzo”. Io non nego la statura di Bordiga, ma tra i due non c’è discussione su chi vinca la partita. Non si tratta di genuflettersi davanti alla riflessione gramsciana. Si tratta di raccogliere la sua problematica eredità teorica, in altre parole la nostra ricerca non può che procedere sostanzialmente sul solco tracciato da Gramsci. Io, ad esempio, non condivido affatto la tesi gramsciana per cui che solo nei paesi arretrati la rivoluzione sociale avanzi dentro la cornice storica di una “guerra di movimento” mentre negli “avanzati” in quella “di posizione” (non è stato così nel secolo scorso); ma l’inestimabile merito di Gramsci è avere indicato che non si vince se non con una battaglia a tutto campo con le classi dominanti, filosoficamente, ideologicamente, culturalmente (di qui la sua insistenza nel porre come centrale, ovviamente in Italia, il confronto con Croce). Senza affidarsi dunque ad un inesistente determinismo crollista[iv]. Da questo punto di vista la sua faticosa riflessione carceraria si sposa con quella della Scuola di Francoforte.
D:
Nel dibattito teorico degli anni ’60 fa scalpore la riflessione di althusseriana. Mi sembra di capire che tu condivida la sua vena antistoricista (il rifiuto della categorie di “fine”, “progresso”, “soggetto”, ecc.). Tuttavia l’antistoricismo di Althusser è strutturalista: guarda ai rapporti sociali e non agli individui. La sua ipotesi, il suo materialismo radicale, non finisce per far rientrare dalla finestra il determinismo?R: Alla fine si. L’althusserismo teorico (poiché esso mai diventò una corrente politica), sorto per contrastare la fiammata umanistica (oggi diremmo buonista) che pervase i partiti comunisti dopo i fatti d’Ungheria del 1956, nonché per delegittimare simbolicamente l’opera e il pensiero di Jean Paul Sartre, desoggettivizzava la storia e la lotta di classe (la storia come “processo senza soggetto”). Era sì un determinismo, ma sui generis, poiché non era economicista. Per essere precisi era un oggettivismo totalizzante che finì per gettare il bambino assieme all’acqua sporca.
D:
L’altro concetto chiave della riflessione althesseriana è quello di surdeterminazione[v]. Tale concezione non solo riapre il dibattito su “struttura e sovrastruttura” ma serve ad Althusser per comprendere i fenomeni storici sia della Rivoluzione Russa ma anche delle altre rivoluzioni del Novecento. La surdeterminazione è un utile strumento in chiave storico-politica?R: Si, penso che il concetto di surdeterminazione sia valido, ritengo anzi sia indispensabile.
Althusser ebbe il grande merito di rimettere al centro la categoria leniniana di formazione sociale. Su questa base e sulla scorta di una lettura critica del contributo di Mao, affermò che la contraddizione dominante (forze produttive-rapporti di produzione) non si manifesta mai in modo meccanico, puro, che essa è invece sempre, a sua volta, determinata, condizionata, mediata dalle condizioni sociali, o meglio dalle contraddizioni secondarie (che non sono il puro fenomeno di quella dominante, così come i rapporti di produzione non sono il puro fenomeno delle forze produttive). Lo sviluppo della contraddizione principale (o dominante o antagonista) viene quindi a dipendere da quelle secondarie e dalla dinamica della struttura sociale nel “tutto complesso”. In altre parole ciò che dovrebbe essere preso in considerazione, anzitutto, è la “struttura articolata e dominante” della formazione sociale, la totalità dinamica dei rapporti sociali (“il tutto complesso” di economia, politica e ideologia), poiché questo “tutto complesso” non è un che di esterno alla contraddizione, ma vive in essa, ne costituisce l’essenza.
E siccome la struttura sociale è diseguale per sua natura, ne consegue che la contraddizione dominante è sempre essa stessa ineguale (inegualmente determinata), complessa, articolata a sua volta in diversi momenti e aspetti. Ogni contraddizione implica quindi un processo per niente univoco, anzi multilineare. Implica infine che in certe circostanze, come Mao giunse a concludere osservando la situazione cinese dopo l’aggressione giapponese, che una contraddizione secondaria può diventare dominate: guai a non tenerne conto nella lotta politica!
Insomma la riflessione althusseriana è imprescindibile.
R: Io ci andrei piano nel sostenere che “i punti più alti della riflessione teorica siano stati appannaggio dell’Occidente”. Mi pare ingiusto e anche spia di un provincialismo eurocentrico. Semplicemente non è vero. Dal Vietnam all’America Latina, dalla Russia alla Yugoslavia e a quella che fu la Repubblica Democratica Tedesca, abbiamo avuto invece una fioritura teorica alta. Mi riferisco ad esempio alle tesi sull’autogestione di Kardelj, agli studi logici del russo Il’enkov, alla critica al diamat del tedesco orientale Havemann e alla scuola dei logici polacchi, allo strutturalismo cecoslovacco (Kalivoda) fino a Rudolf Bharo. Non penso affatto che rivoluzionari come Mao, Ho Chi Minh, Guevara, ma pure Mariategui, Fanon, Jaffe fino a Samir Amin non abbiamo dato contributi preziosi alla teoria rivoluzionaria. Non ci libereremo dall’eurocentrismo, ossia dal provincialismo, se non daremo il giusto posto al marxismo del “Terzo Mondo”.
In realtà il “marxismo occidentale” ha fallito più degli altri. È rimasto confinato a ristrette minoranze e non ha scalfito l’egemonia staliniana. Altrove, almeno, ci “hanno provato”, hanno tentato di unire teoria e prassi.
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