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L’ultima cantonata di Vendola
di Piemme
No diteci che ci occupiamo troppo di Vendola. Non è colpa nostra se ogni tanto se ne esce con delle sparate sulle quali è difficile soprassedere. Si capisce che egli è intrappolato nel suo personaggio, ovvero nella maschera che i media gli hanno messo addosso. Gli accade dunque di passare il segno, di trasformare l’eloquenza in logorrea. Preso dalla smania tutta televisiva di trovare la giusta e folgorante battuta gli capita di prendere delle cantonate, come quando, dal palco di piazza Duomo, a Milano, il giorno che giungevano i risultati della disfatta dei beluscones, in preda al delirio, esultò: «Abbiamo espugnato Milano!». Seguì una pirotecnica richiesta di scuse a Pisapia con una video-lettera che è un monumento all’ipocrisia e al sofismo sintattito: «dovevo dire invece: abbiamo liberato Milano, non espugnato».
Questa volta dobbiamo occuparci di quanto Vendola ha affermato in difesa di internet, contro l’eventuale bavaglio dell’Autorità per la garanzie nelle comunicazioni (AGCOM). Il pretesto con cui quest’ultima vuole di fatto istituire una censura è la tutela del Copyright, il diritto d’autore, ovvero il più miserabile dei diritti di proprietà, quello intellettuale. Vendola, giustamente, si oppone alle decisioni ventilate dall’Autorità guidata da Corrado Calabrò —en passant: si vorrebbe che questa autorità sia un organismo indipendente, in realtà esso è formato dal Parlamento, leggi dai partiti di sistema, e il presidente scelto addirittura dal Presidente del consiglio.
Il fatto è che in questa giusta difesa del diritto alla libertà d’espressione, Vendola compie una delle sue solite sbandate iperboliche, non solo semantiche ma proprio concettuali. Dopo aver riproposto i suoi dogmi postmoderni quali il “superamento dei paradigmi del passato”, l’elogio del “meticciato culturale”, s’avventura in una sperticata apologia di Internet.
Sentiamo:
«Internet è molto di più di un nuovo modo di comunicare tra i tanti. E’ il più importante mezzo di produzione, ri-produzione e fruizione del sapere, di condivisione della conoscenza e persino delle esperienze di vita. In quanto rete è un luogo che non divide più così nettamente produttori e consumatori: chiunque può diventare giornalista, scrittore, regista, musicista, rompendo le vecchie mediazioni del passato. E’ una rivoluzione vera e propria: chi era sotto ora può essere sopra, chi era periferia può diventare centro». [Nichi Vendola, Non sulla pelle della libertà nella rete, 4 luglio 2011]
E’ intuitivo che il giudizio di Vendola sia eccessivo, unilaterale, ideologico, sbagliato.
Lasciamo pure da parte che egli confonda Internet vera e propria con il Web —vedi, tanto per fare un esempio, quanto scrive il cosiddetto guru di internet Daniele Bogiatto—, ovvero la rete vera e propria (il mezzo con cui ognuno si collega e comunica) con lo specifico servizio, il Web appunto, che permette l’accesso libero alla navigazione e di usufruire e di proporre contenuti multimediali.
Vendola vuole vedere solo l’aspetto “rivoluzionario”, dimenticando che come ogni tecnologia, come ogni mezzo, assieme al suo lato positivo, esso contiene anche quello negativo. Che ogni mezzo tecnologico non solo è figlio del suo tempo e ne porta le stimmate. Dimentica che in una società divisa in classi è sempre la classe dominante che determina la funzione sociale di un mezzo, tanto più se mezzo di comunicazione.
Questa vicenda porta alla mente l’abbaglio che presero la più parte degli stessi intellettuali marxisti negli anni ’50 e ’60, quando affermarono che l’uso civile dell’energia nucleare rappresentava la “terza rivoluzione industriale” e che quella scoperta avvicinava la possibilità di liberare l’umanità dalle pastoie del lavoro. Mai un pronostico fu più sbagliato.
Ora saremmo alla quarta, e all’infatuazione per le “rivoluzioni” tecnologiche del capitalismo, che quando s’affacciano alla ribalta mostrano solo il loro aspetto seducente e accattivante e solo successivamente esternano quello negativo, distruttivo. Sono pronto a scommettere che non fra venti, ma tra dieci anni molti degli apologeti di internet si ricrederanno.
Stando ad internet, è indubbio che esso è destinato a diventare il più diffuso e potente mezzo di comunicazione globale. E siccome stiamo parlando di un mezzo di comunicazione, come si può dare un giudizio se non partendo da ciò che intendiamo per “comunicazione”. Comunicare viene dal termine latino communicare, che sta per condividere, rendere comune: termine a sua volta correlato alla parola communis, comune. Quindi comunicazione implica che esista una comunità.
Chi legge converrà facilmente che il miliardo e passa di persone collegate ad internet (dati del giugno 2010) non costituiscono affatto una comunità, allo stesso modo che non la costituiscono quelli ancor più numerosi collegati telefonicamente. Si può dire semmai che dentro questa galassia esistono sottoinsiemi comunitari costituiti da individui tra loro connessi in base ad affinità, idee e concezioni comuni. Ma una comunità di tal fatta, ovvero che comunica per mezzo della rete, è una comunità virtuale, non reale. Tra la prima e la seconda passa la stessa differenza, come scriveva Kant, tra l’idea di avere cento talleri in tasca e averceli davvero. E’ intuitivo infatti che la realtà immaginata non è mai la realtà effettuale, che la comunità virtuale non è comunità reale. Affinché si dia una comunità reale essa deve potere esistere, e per poter esistere essa implica la prassi, una relazionalità materiale, una reciprocità dialogica che non sia solo immaginata, ma pratica di vita.
Lo scriteriato culto dell’immateriale ha causato la cancellazione vera e propria del confine, della distanza, della differenza qualitativa, che corre tra realtà e immaginazione, tra esistere e illudersi di esistere, tra vita e sogno, tra essere e non-essere. Internet ha contribuito, dopo l’abbuffata dell’ideologia postmodernista, a strappare, anzitutto i giovani, dalla vita reale, a disinteressarsi ad essa, per imprigionarli in un universo virtuale dove suppongono di aver guadagnato un’identità e una libertà. Identità e libertà solo immaginarie, fittizie. Internet è infatti il più diabolico alibi che il sistema capitalistico fornisce al nulla esistenziale per atteggiarsi ad essere, per dimenticare di essere niente.
Il mezzo non è mai neutrale rispetto al fine. Un fine si realizza, s’invera, solo se il mezzo è appunto finalizzato, adeguato. La comunicazione attraverso i protocolli telematici non accomuna affatto, atomizza, spinge alla solitudine e al solipsismo esistenziali. Lungi dall’avvicinare realmente gli esseri umani, connette più spesso le loro maschere, se non addirittura li allontana (l’eccezione conferma la norma). E più si consolida l’illusione che tutto è possibile nell’universo virtuale, più l’essere umano si distacca da quello reale e diventa impotente.
E’ quindi del tutto falso che «… chi era sotto ora può essere sopra, chi era periferia può diventare centro». E’ vero semmai chi stava sotto, chi stava in periferia, si immagina e crede di non starci più, e con ciò, crogiolandosi nell’illusione di essersi emancipato, cessa addirittura di battersi per liberarsi davvero. In questo senso internet e il web sono la religione dell’epoca postmoderna, l’ultimo oppio dei popoli, la droga della quale il tossico non può fare a meno per tirare a campare e per accettare senza ribellarsi una realtà immonda.