IN MEMORIA DI LUCIANO GALLINO di Angelo Salento*
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[ 27 novembre ]
Il 8 novembre scorso moriva Luciano Gallino, sociologo e scrittore di fama mondiale, un fiore all’occhiello della cultura italiana. Qui sotto quello che consideriamo il più bel omaggio alla sua opera di intellettuale e di critico lucido e spietato del neoliberismo. Una sola cosa l’autore dimentica di segnalare, che prima di lasciarci Gallino aveva svolto un j’accuse senza se e senza ma all’euro e all’Unione europea.
«Non a tutti i contemporanei piacerà ricordare Luciano Gallino come un sociologo critico. Di certo, però, questo Maestro il lavoro della critica del capitalismo l’ha fatto con una determinazione straordinaria, e con straordinari risultati. Non è un compito semplice, oggi: si tratta di comprendere come le grandi promesse della vulgata neoliberista siano state costruite e diffuse; come e perché esse siano state disattese; quali possano essere le ragionevoli promesse per un futuro prossimo meno illuso e più sostenibile. È un compito da svolgere in una sfera pubblica dominata da poche élite economiche e politiche, con la concorrenza di un’informazione giornalistica che ha, rispetto alla ricerca, maggiori risorse economiche e una disinvoltura metodologica adeguata a consumi culturali vorticosi. A fronte di questa sfida, le energie di Gallino sembravano moltiplicarsi con l’avanzare dell’età. I suoi interventi sono divenuti sempre più frequenti e densi. I suoi libri sono stati vere e proprie miniere di dati e di riferimenti bibliografici, su temi che in Italia erano rimasti pressoché inesplorati.
Su tutti, il tema dell’accumulazione finanziaria. Sino a quando Gallino non ha posto organicamente la questione, con L’impresa irresponsabile, uscito da Einaudi nel 2005, la finanziarizzazione delle imprese —il dominio degli azionisti/investitori breveperiodisti nel governo d’impresa, con le sue implicazioni sugli assetti organizzativi e occupazionali— era, in Italia, un fenomeno assolutamente trascurato (lo è rimasto, in verità, sino al collasso del 2008, e forse non è un caso che Einaudi abbia ripubblicato il libro nel 2009).
Da più di un decennio, l’ipertrofia della finanza —e soprattutto la colonizzazione finanziaria della produzione di beni e servizi— era dunque il tema centrale nella produzione di Luciano Gallino, che di volta in volta aggiungeva nuovi tasselli a un quadro che si presentava via via più sconcertante. Dopo L’impresa irresponsabile, sono venuti Con i soldi degli altri (2009), Finanzcapitalismo (2011), Il colpo di stato di banche e governi (2013), e infine Il denaro, il debito e la doppia crisi (2015), una sorta di testamento che corona uno straordinario tour de force intellettuale.
Di volume in volume, via via che i nessi si venivano delineando, sembrava crescere anche l’indignazione del sociologo torinese (e parallelamente il suo impegno politico, per nulla incline a ripiegamenti riformistici). In alcuni passaggi di Il denaro, il debito e la doppia crisi, la veemenza della sua denuncia ricorda le tonalità che Thorstein Veblen [1] aveva usato, nei primi anni Venti del Novecento, a proposito della proprietà assenteista, «più occupata a frenare l’industria che ad incrementarne la capacità produttiva» (Veblen 1921 [1969, pp. 926-7]). Tutto ciò è incredibile, spiegava a suo tempo Veblen, ma è la realtà di ogni giorno, e provoca pesanti conseguenze sulla psicologia collettiva. «Stupidità», la chiama Gallino: «quella che si incontra ogni giorno in campo politico ed economico», con effetti degradanti sul mondo sociale: «la concezione dell’essere umano teorizzata e perseguita ai giorni nostri con drammatica efficacia dal pensiero neoliberale ha lo spessore morale e intellettuale di un orologio a cucú» (Il denaro, il debito e la doppia crisi, pag. 8).
Lavorare sul tema dell’accumulazione finanziaria è stato probabilmente, per Gallino, un modo per costruire un quadro esplicativo forte e coerente che potesse dare conto di una serie di fenomeni ai quali aveva già dedicato e continuava a dedicare grande attenzione: la precarizzazione del lavoro e la disoccupazione (Se tre milioni vi sembran pochi, 1998; Il costo umano della flessibilità, 2001; Il lavoro non è una merce, 2007), la globalizzazione (Globalizzazione e disuguaglianze, 2000; ma v. anche la voce “Globalizzazione” nel Dizionario di Sociologia ed. 2004), la deindustrializzazione (quella italiana, in particolare: La scomparsa dell’Italia industriale, 2003), la rivincita delle élites (La lotta di classe dopo la lotta di classe, 2012).
È impossibile, peraltro, sfuggire alla sensazione che la biografia intellettuale di Luciano Gallino sia segnata da una discontinuità. Iniziati negli stabilimenti Olivetti, i suoi studi sono rimasti per lungo tempo dedicati, principalmente, al rapporto fra tecnologia e azione sociale e alla teoria della società. I suoi riferimenti teorici non erano particolarmente orientati alla critica sociale. Sul piano della teoria sociale, Gallino era vicino al funzionalismo di Parsons (è di Gallino l’introduzione a Il sistema sociale nelle Edizioni di Comunità); sul piano degli studi organizzativi, era legato all’idea, anch’essa di matrice funzionalista, del sistema socio-tecnico (Gallino aveva importato in Italia il lavoro di Emery e Trist).
In realtà, l’esperienza dentro e per l’impresa spiega la formidabile lucidità con cui il sociologo torinese ha osservato il declino del “capitalismo democratico”: avendo conosciuto da vicino il managerialismo produttivo, poteva riconoscere il managerialismo della rendita; avendo misurato il rapporto virtuoso fra tecnologia e occupazione, poteva cogliere pienamente l’inversione di quel nesso.
Soprattutto, la sua formazione di “sociologo olivettiano” ha fatto sì che Gallino non abbia mai smarrito la convinzione che il lavoro non è un optional, sotto nessun profilo. Bisognerebbe rileggere, a questo proposito, le pagine di Se tre milioni vi sembran pochi nelle quali Gallino replica agli argomenti di Dominique Méda e a quelli di Domenico De Masi a proposito della prospettiva di una “società senza lavoro”. Non si tratta di ridurre l’ascendente del lavoro nel mondo sociale, spiegava Gallino: viceversa, è necessario promuovere la quantità e la qualità del lavoro, «per evitare il rischio che la società che ci attende sia formata in gran maggioranza non già da oziosi intenti a leggere i classici nei loro giardini fioriti, bensì da milioni di individui ai quali la mancanza di lavoro, la precarietà, l’insicurezza, l’esclusione hanno sottratto il maggiore dei beni: “null’altro che” il desiderio, la capacità morale, e la possibilità reale di condurre una vita dal volto umano» (pag. 78).
In definitiva, per comprendere la traiettoria intellettuale di Gallino si può considerare quel che egli stesso scrisse a proposito di Pierre Bourdieu (La Repubblica, 25.1.2002): non è la posizione del sociologo a essere cambiata con l’avanzare dell’età, ma è il mondo sociale che, nell’era neoliberista, ha cambiato configurazione. Come a Bourdieu, anche a Gallino, in un’epoca di “tradimento degli intellettuali”, è rimasta «quella capacità che gli intellettuali avrebbero dovuto, dovrebbero, aiutare a formarsi, ma per la quale la maggior parte di loro non sembra abbiano più il tempo o la motivazione». Un intellettuale formatosi nell’impresa responsabile par excellence, a condizione di non venir meno a quell’ispirazione, non poteva che elaborare e mettere al lavoro una profonda indignazione nei confronti del nuovo “capitalismo manageriale azionario” e della regolazione economica neoliberista.
Non può sfuggire, infine, un’ulteriore eredità “olivettiana”: la concezione della conoscenza come strumento del fare. La sua posizione indiscutibilmente critica nei confronti del capitalismo neoliberista ha sempre ambito a diventare immediatamente progetto: il primo passo, indispensabile per rompere il dominio della governance neoliberista, è avere le idee chiare in ordine agli errori commessi e alle scelte regolative necessarie per cambiare rotta (Gallino, per chiarezza, soleva enumerare le sue proposte). Il lavoro del sociologo torinese è quanto di più lontano si possa immaginare da una critica puramente declamatoria: per frantumare il pensiero unico non servono proclami o effetti teorici gratuiti, ma – su una base teorica robusta – dati rigorosi e rigorose spiegazioni: un compito umile, faticoso e indispensabile, che Luciano Gallino ha insegnato con il proprio esempio. Gliene siamo profondamente grati».
NOTE
[1] Veblen (1921), The engineers and the price system, New York: Huebsch; trad. it., Gli ingegneri e il sistema dei prezzi, in Th. Veblen, Opere, Torino: Utet 1969, pp. 907-1010. – See more at: http://www.economiaepolitica.it/lavoro-e-diritti/diritti/universita-e-ricerca/lesempio-di-luciano-gallino/#sthash.SRnW28Qx.dpuf
* Fonte: Economia e Politica
Se Gallino era veramente Ars Longa e Bamaisin sua moglie erano tanto bravi, quello sí, ma erano dei borghesacci da far spavento.Non abbiamo la certezza che Irradiazioni fosse lui ma, nel caso, il Gallino e consorte erano dei comunisti per modo di dire…tanto per modo di dire…
Avevamo ipotizzato anche che fosse in qualche modo correlato con Peter Yanez, scomparso dal web poche settimane prima xella morte del professor Gallino. Al Professor Gallino va dato atto di una lucidità ed onestà intellettuale che gli ha permesso di ricredersi e di chiedere scusa per un progetto, che, poco prima di morire, aveva definitivamente dichiarato fallito.
Sí, come ho detto in un altro commento secondo me Peter Yanez nonostante il nome maschile non era un uomo e per la precisione era quella signora che sul blog Irradiazioni si firmava Bamaisin, che sembrava essere la moglie del "tenutario". Sono sicuro che Peter non fosse Ars Longa ma credo che potesse essere molto verosimilmente la sua consorte il che però non toglie nulla alla spettacolare intuizione di Fiorenzo.
Gli elogi funebri non sono il mio forte. Preferisco possibilmente rendere il merito di chi ne è degno in vita. Però ascoltando alcune lezioni per pochi minuti ne ho apprezzato il linguaggio immediato,schietto, lo sguardo sincero, il tono pacato e paziente. Mi sarebbe piaciuto averlo conosciuto.