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PERCHÉ “SENSO COMUNE”? di Moreno Pasquinelli

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[ 15 giugno 2017 ]

«La critica non è una passione del cervello, è il cervello della passione. Essa non è un coltello

anatomico, è un’arma.
Il suo oggetto è il suo nemico,
che essa non vuole confutare
bensì annientare».


Karl Marx


I nostri lettori più assidui sanno che questo blog rilanciò subito il Manifesto per un populismo democratico. Un Manifesto che apprezzammo come uno dei migliori prodotti politici della morente “grande sinistra”. Il 18 maggio scorso fa uno dei primi firmatari di quel manifesto, Samuele Mazzolini, ha pubblicato un denso scritto dal titolo Perché Senso Comune.
Abbiamo chiesto a Moreno Pasquinelli di darci il suo giudizio.

Lo scritto di Mazzolini ha un grande merito, è un’utile quanto teoricamente densa esegesi del Manifesto per un populismo democratico. In effetti ce n’era bisogno perché molti erano gli interrogativi che il suddetto Manifesto suscitava lasciandoli inevasi. Al netto della concordanza che in questa fase il campo dove si gioca la partita politica (la cui posta in palio rimane il potere statale) è quello populista —che ha dinamiche e una grammatica sue proprie— la principale perplessità che quel Manifesto mi suscitò è che in maniera un po’ troppo sbarazzina accoglieva il discorso di Ernesto Laclaus e Chantal Mouffe (per la verità più la Mouffe che Laclau).

Ernesto Laclau


Ebbi modo di dire all’amico Mazzolini che tra le pieghe del Manifesto l’ultimo pensiero della Mouffe [1] si sentiva ben più forte di quello di Laclau, quantomeno quello del periodo de La ragione Populista. Gli dissi che una tale torsione mouffiana del populismo non mi convinceva per due essenziali ragioni: il discorso non solo perdeva in radicalità sociale —vedi il confuso concetto di agonismo politico a rimpiazzo di quello di antagonismo; lasciava sul terreno, assieme al marxismo (liquidato brutalmente come una forma di determinismo economicistico), ogni telos, ogni ipotesi di fuoriuscita dal sistema capitalistico.

Gli dissi infine —erano le settimane che precedevano Vistalegre 2, il secondo decisivo congresso di Podemos da cui uscirà nettamente vincitore Pablo Iglesias— che occorreva prendere le dovute distanze dall’ala moderata di Podemos capeggiata da Íñigo Errejón il quale, in polemica con la scelta di fare blocco con Izquierda Unida (di qui Unidos Podemos), propone un’alleanza con i socialisti spagnoli, appoggiandolo sul paradigma mouffiano della “democrazia agonistica”. Mazzolini, invece, non nascose che nella battaglia tra Iglesias e Errejón pendeva dalla parte di quest’ultimo.

Perché ricordo questo fraterno dissidio? Perché, al netto dei “pensieri complessi”, quest’anima Errejóniana mi pare costituisca il distillato chimico, l’essenza dell’ipotesi politica di Mazzolini. Abbiamo infatti un “populismo democratico” annacquato nella versione “agonistica” proposta da Chantal Mouffe. 

Chantal Mouffe


Qui risiede un problema enorme poiché, al contempo, ci sono di mezzo identità politica, strategia e tattica. 

Mazzolini correttamente ribadisce che “costruire popolo” significa in prima istanza fornirgli un’identità politica. Io penso che affinché quest’identità prenda forma, non sia affatto sufficiente raccogliere le domande e le istanze sociali che sorgono dal basso per poi convogliarle contro il nemico, contro le élite e le loro istituzioni refrattarie a quelle domande. Limitarsi a questo mi pare rassomigli al vecchio sindacalismo sociale riformistico, anche ove si affermi che per realizzare quelle domande occorra strappare il potere statuale. Un’identità politica si costruisce solo attorno ad idee forti, a paradigmi ideologici e sociali che non possono altrimenti essere definiti che come rivoluzionari, che cioè implichino necessarie profonde rotture, sociali e istituzionali. Un “populismo democratico” in salsa neo-socialdemocratica non ha, io penso, capacità di sfondamento, tanto più da noi, in Italia, dove questo spazio politico è in gran parte presidiato dal Movimento 5 Stelle e dalle frattaglie della “sinistra radicale”.

Mi sbaglio? Mazzolini allude, giustamente, alla 

«… necessità di individuare orizzonti mobilitanti e aggreganti, capaci di generare passione e suscitare voglia di riscatto: la scelta, in altre parole, di quelle domande e quei simboli capaci, per la loro capacità di seduzione maggioritaria, di alludere a tutto il campo popolare in via di formazione». 

Quali siano questi orizzonti e simboli, fatte salve domande di giustizia sociale e certi “valori tradizionali”, tuttavia non lo dice. Il nostro scrive: 

«Feticci quali “l’unità della sinistra” o “la costituente della sinistra” non interessano praticamente più a nessuno se non agli stretti addetti ai lavori e, anzi, non fanno altro che disegnare il perimetro entro cui tale proposta potrà esercitare attrazione. Un perimetro sempre più ristretto. Altrettanto va detto per quei progetti che cercano di suscitare consenso con un riferimento esplicito a significanti analoghi, quali “comunismo”, “socialismo”, o attraverso la messa in primo piano di tutta la simbologia di questa parte politica».

Giusto l’attacco frontale agli zombi delle sinistre, giusto sottolineare il tramonto di tutta l’anticaglia simbologica. Sbagliato, molto sbagliato sbarazzarsi dell’orizzonte del socialismo. Qui c’è una furia iconoclastica inquietante. Rimuovere l’orizzonte del socialismo, rebus sic stantibus, significa privarsi del solo orizzonte, della sola “operazione discorsiva” che abbia un contenuto di senso, il solo

enunciato che abbia “condizioni di possibilità, quindi di plausibilità”. Significa appunto, non me ne voglia il Mazzolini, accettare come perenne l’orizzonte capitalistico. Il nostro parla certo della necessità di “progetto di cambiamento di lungo periodo”, del valore della eguaglianza sociale e non solo formale, ma se si ha tanta cura ad espungere dalla vista il superamento del capitalismo, certo è solo un modello sociale socialdemocratico, che è un discorso non meno vecchio di quello vetero-comunista.

Vi è poi un piano, nel discorso di Mazzolini, che attiene alla questione del soggetto politico populista. Non si pensi si tratti solo di metodo, di tecnica politica. Il nostro scrive:

«L’intuizione di fondo è che la cruda realtà non abbia un’interpretazione univoca, bensì molteplici, e che un determinato scenario di oppressione reale non abbia uno sbocco politico determinato, ma quello che le volontà organizzate in lizza tra loro riusciranno ad imprimere, divenendo così egemoniche. In questo senso, non c’è alcuna volontà, potenza immanente già lì, pronta a esplodere e farsi largo, e tendente alla vita e alla democrazia. Tuttavia non esiste nemmeno, come nella vecchia concezione comunista, una classe portatrice di interessi generali per definizione. Il punto di partenza sono quindi le domande sociali che i canali istituzionali non riescono a soddisfare e a neutralizzare».

Un classico del discorso laclausiano, che ci riconduce al complesso pensiero politico e filosofico post-strutturalista, anzitutto di matrice francese. Vero, non c’è alcun corso storico predeterminato. Vero non esiste alcuna classe che di per sé sia rivoluzionaria. Questo che significa? Pare di capire che questo significhi che il sistema capitalistico non conosca contraddizioni antagonistiche. Che esso non porti in grembo i germi del suo proprio superamento. Ma se è così buttiamo via di Marx, assieme all’acqua sporca (la teleologica missione salvifica attribuita alla classe operaia), il bambino preziosissimo, ovvero la sua analisi del modo capitalistico di produzione e il suo carattere caduco.

Non posso infine, chiudendo queste brevi note, non segnalare quella che a me pare una grossa aporia. Il discorso laclausiano sul populismo implica necessariamente la centralità categorica del soggetto politico, visto che la sua funzione è quella di dare identità al popolo, quindi di costruirlo come protagonista del conflitto sociale.

Non a caso Laclau scopre Gramsci e la sua teoria dell’egemonia. Ma per Gramsci (sulle scia del Macchiavelli) il soggetto che solo può sfidare il nemico sul piano dell’egemonia sociale è il “moderno Principe”, ovvero il partito politico. Per dirla col rivoluzionario sardo: 

«Il moderno principe… un elemento della società complesso nel quale già abbia inizio il concretarsi di una volontà collettiva riconosciuta e affermatasi parzialmente nell’azione. Questo organismo è già dato dallo sviluppo storico ed è il partito politico: la prima cellula in cui si riassumono dei germi di volontà collettiva che tendono a divenire universali e totali».

Il Partito per Gramsci è comunità che promuove, di contro al “senso comune” una concezione del mondo rivoluzionaria e per ciò stesso è la forza motrice di una storica “riforma intellettuale e morale”. Qui l’enorme debito che Ernesto Laclau ha contratto con Antonio Gramsci.

Da questo lascito Mazzolini, agganciandosi alla Mouffe,  vuole invece prendere congedo:

«Bando alle ciance e partiamo dal nome. Perché Senso Comune? Il nome che ci siamo dati ha un deliberato accento anti-platonico. Cosa intendo con ciò? Intendo che il nostro intervento non può né deve essere rivolto a una presunta illuminazione delle masse. Le masse non aspettano un messia (sia esso una figura religiosa, un filosofo o un partito) che spieghi loro la verità e che in virtù della sua conoscenza superiore le emancipi dalla bruta ignoranza che impedisce di afferrare il vero corso della storia. Non c’è nessun corso della storia. Non c’è nessun messia. E men che meno c’è quella divisione netta tra doxa (opinione comune) ed episteme (conoscenza razionale) di Platone che tanti presuntuosi ha affascinato nel passato, conducendo chi alla tragedia e chi alla farsa».

Il nostro non manca di onestà intellettuale, ammette che “chiamandoci Senso Comune abbiamo persino disobbedito a Gramsci e Manzoni”.


Lasciamo in pace il grande Platone. Si può certo disobbedire ai padri, a volte è anzi indispensabile non seguire le loro orme, ammesso che si siano davvero compresi i loro errori. Quello che ci propone Mazzolini tuttavia non è questo, è un vero e proprio parricidio. Viene in mente l’hegeliana “furia del dileguare”. Una furia anti-filosofica che sul suo cammino lascia solo i cadaveri, lugubre. Se non abbiamo bisogno di “messia che illuminino le masse”, tantomeno ce n’è per profeti che ci lasciano nell’oscurità.

NOTE

[1] “La Mouffe avanza l’idea di una democrazia agonistica, entro cui l’antagonismo noi/loro non sia rimosso, ma incanalato in una forma di mediazione del conflitto tale da impedirne gli esiti distruttivi, garantendone allo stesso tempo le diverse manifestazioni. Simile mediazione sarebbe appunto identificabile con una democrazia pluralista in grado di garantire una regolamentazione minima dei conflitti sociali. Solo una simile democrazia sarebbe in grado, secondo la studiosa, di ammettere l’irriducibilità del conflitto, addomesticandone gli esiti e trasformando così i nemici da sopprimere in avversari da battere secondo le regole del confronto democratico”.

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