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ANCHE IN CINA IL TIMONE SI È ROTTO di Paolo Cleopatra

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ANCHE IN CINA IL TIMONE SI È ROTTO: Cina, mito dalle grandi contraddizioni. Un’economia globale a vocazione egemonica.

Il mondo è cambiato!

Questo è quanto percepisco io, nato durante la metà del secolo passato, quando le cose parevano immutabili e i cambiamenti sembravano accadere per via del lento scorrere degli eventi.

Era il tempo dei “cattivi”, tutti da una parte, e dei “buoni”, di cui facevamo parte, dall’altra. Poi, con la gioventù, le nostre percezioni cambiarono e la nostra consapevolezza, con la quotidianità, iniziò a farsi ben più articolata, gli ideali e le illusioni ad esser sottoposti a critica.

Alcuni di essi caddero inesorabilmente.

Tra gli altri miti, oggi è l’immagine della Cina a erodersi.  Finora idealizzata nell’immaginario collettivo come locomotiva infaticabile ed inarrestabile, essa riporta una serie di dati economici deboli e pare attualmente indecisa tra il lanciare più stimoli per sostenere l’economia interna oppure ritirare gli incentivi governativi, che hanno sinora alimentato a dismisura la bolla immobiliare. Quest’ultima ipotesi potrebbe, in un’economia ancora fortemente globalizzata, creare un rallentamento economico profondo, innescare importanti disordini sociali interni e costituire un potente fattore deflagrante per le economie di tutto il pianeta.

Un crollo definitivo del settore immobiliare cinese e del relativo settore finanziario potrebbe infatti fare precipitare il paese, che negli ultimi trent’anni ha visto crescere continuamente la sua economia, in una prima impensabile recessione che non toccherebbe solo il suo mercato interno, come già detto, ma avrebbe conseguenze devastanti per tutti noi.

Quella che pare essere una cattiva gestione della crisi che, precisiamolo, è maggiormente di debito privato che di debito pubblico, potrebbe trasformarsi e, quindi, generare un lungo periodo di stagnazione molto simile a quello che attraversò il Giappone trent’anni fa. Ricordiamo tutti gli anni Novanta.

In questo momento la Banca centrale cinese ha già per la seconda volta in quattro mesi tagliato i tassi di interesse, reazione analoga a quella che fu intrapresa dopo il 2008 nel mondo occidentale al fine di stimolare il credito e l’economia. La sfida è profonda ed il mercato azionario ed obbligazionario cinese è sempre stato abbastanza opaco, essendo sia i dati sull’economia che quelli dei principali indicatori tenuti saldamente in mano dal governo di Pechino, che rilascia solo quelli che ritiene non intacchino i propri interessi nazionali.

Conoscendone le abitudini, sarà difficile che il governo adotti al momento misure più forti, anche perché cerca di far sgonfiare il più possibile il fenomeno per limitare i disordini popolari e la tensione sociale.

Durante gli scorsi mesi, e più propriamente lo scorso anno, abbiamo assistito a proteste scoppiate spontaneamente, brutalmente represse allorché in moltissime città i proprietari di mutui per appartamenti residenziali protestavano e chiedevano di avere consegnati gli appartamenti per i quali già pagavano, magari da anni, le rate del mutuo.

In Cina infatti le regole per vendere o acquistare residenze immobiliari sono decisamente diverse dalle nostre. Chi desidera acquistare paga all’atto dell’acquisto in contanti oppure accendendo un mutuo, quindi, non alla consegna dell’immobile come da noi. La società di costruzione inizia allora a costruire la nuova lottizzazione oppure procede con la costruzione se questa era già iniziata. Seguendo questa modalità, il governo ha per anni stimolato una serie molto grande di infrastrutture con conseguente sviluppo immobiliare in tante città. Sviluppo che ha comportato nello stesso tempo ad una crescita esponenziale del mercato, delle aziende di costruzione e dell’economia relazionata direttamente ed indirettamente alle costruzioni.

Potremmo dire che, se le aziende non avessero utilizzato quei denari anche per sviluppare investimenti diversi, il tutto avrebbe potuto procedere in modo lineare e molto più stabile che in altre parti del mondo ma, come sempre, dietro i dettagli si annidano i problemi.

I governi delle varie provincie hanno in molti casi contratto prestiti per finanziare progetti infrastrutturali costosi, non sempre rispondenti a reali necessità. Ricordiamo, tra l’altro, che la terra in Cina è di proprietà dello stato e, quindi, dei governi locali e che viene normalmente da essi data in affitto, per lunghissimo tempo, alle aziende di costruzione per costruire e rivendere stabili abitativi o centri commerciali. Questa tendenza è stata utilizzata per rimpinguare le casse dei governi locali, permettendogli così di raggiungere le quote di sviluppo assegnate annualmente dal governo centrale ed anche, a volte, per intascare profitti personali, fatto molto comune nel paese in oggetto. Anche i costruttori a loro volta incassavano il prezzo di vendita delle costruzioni in anticipo sull’effettivo termine e consegna dei lavori, la qual cosa ne permetteva l’utilizzo per finanziare altri investimenti.

Il meccanismo si è alimentato in questo modo per anni, in presenza di una crescita di domanda che ha fatto lievitare il costo degli immobili del dieci o più per cento annuo. Questa tendenza non solo ha convinto milioni di persone della neonata classe media ad investire per la propria abitazione, ma ad investire anche per intenti speculativi, quindi indebitandosi, su una seconda o terza casa da porre in affitto per cercare di assicurarsi una pensione ed una vecchiaia migliori.

Le politiche che hanno originato questa prassi e gli effetti riscontrati rischiano di creare una enorme bolla immobiliare e già la più grande azienda mondiale del settore, la Evergrande, è risultata insolvente e con circa trecento miliardi di dollari di debiti. Parliamo sempre di debito, come già fatto in precedenti interventi, anche se questa volta le banche non hanno avuto una responsabilità diretta, come accaduto nel caso americano dei subprime. Anche in Cina viviamo con una economia a debito come negli Stati Uniti.! Purtroppo l’effetto potrebbe risultare il medesimo.

Nel caso cinese dobbiamo aggiungere a questa potenziale instabilità economica anche le conseguenze di tutto ciò che è avvenuto per causa delle decisioni prese negli ultimi anni atte ad arginare apparentemente il Covid, con la ben nota “tolleranza zero” e le chiusure di mesi per la quasi totalità dell’economia.

In aggiunta, le industrie tecnologicamente più avanzate stanno vivendo momenti di incertezza, dato lo stretto controllo del governo centrale, per non rischiare di divulgare notizie che potrebbero compromettere la sicurezza nazionale.

Non è assurdo dire, quindi, che l’economia cinese sta affrontando il rischio di una possibile deflazione che, come tutti sanno, peggiora il debito e lo porta in molti casi a non essere più esigibile. Meglio sarebbe essere in presenza di inflazione e di politiche di aumenti salariali, che potrebbero aiutare ad assorbire il peso del debito nel tempo.

Non sono passati molti giorni, infatti, da quando alcuni giornali hanno pubblicato la notizia che il National Bureau of Statistic cinese non sta pubblicando i dati specifici sulla disoccupazione giovanile urbana, sicuramente perché fortemente influenzati dal rallentamento incombente. Si pensa a percentuali a due cifre e molto vicine ad un venti per cento. Un dato, questo, che se confermato avrebbe dell’inverosimile in relazione alla Cina.

Parliamo essenzialmente di giovani con una laurea e non di contadini o mano d’opera non specializzata. L’elevata disoccupazione tra i giovani urbani è causata in parte da una “bolla universitaria”. Questo ci dice che ci sono più giovani che ottengono titoli universitari e che hanno comunque un’istruzione superiore che posti di lavoro da riempire. I dati comunque diffusi a luglio parlano di una disoccupazione complessiva relativamente bassa, rispetto ai nostri standard, del 5,3 per cento.

Un’ultima considerazione è lecito fare, leggendo che alcuni giganti della tecnologia cinese avrebbero emesso ordinativi per complessivi cinque miliardi di dollari in microchip ad alta tecnologia da utilizzare nello sviluppo dell’AI generativa, in previsione di ulteriori restrizioni da parte degli Stati Uniti.

Dove ci porterà questa corsa sfrenata verso l’intelligenza artificiale in Cina, la fabbrica del mondo? Si investe moltissimo in questa tecnologia, proprio in un paese che sembrava essere sinora escluso da problematiche inerenti la disponibilità del lavoro. Gli studenti con alta preparazione perché quindi non trovano impiego? Dove potremo arrivare nel nostro futuro prossimo, se anche nel paese a più grande vocazione egemonica schierato apparentemente sul lato opposto dell’occidente si soffre di mali analoghi a quelli a noi ben conosciuti?

Sarà forse che il sistema economico-finanziario su cui si basa, molto simile al nostro, mostra i suoi limiti, al netto delle condizioni iniziali del paese? Oppure c’è una relazione con il fatto che la Cina sia il paese simbolo, più volte menzionato ad esempio dal World Economic Forum?

Ripetiamo quanto abbiamo già scritto: si può anche stampare denaro, ma non si può stampare benessere!

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