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Vicenda FIAT: intervista a Guido Viale

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[ 02 agosto 2010 ]

Il piano FIAT è un bluff per chiudere le fabbriche
La vera alternativa è rinconvertire

Intervista a Guido Viale*
Pur convidivendo l’idea di fondo di Viale, per cui occorre saper pensare ad un modello industriale alternativo a quello vigente, fondato sulla centralità dell’auto, ci lascia perplessi la sua tesi, per cui quello di Marchionne (portare la produzione degli stablimenti italiani da 650mila vetture ad un Milione e 400mila entro il 2014), sia solo un bluff, che quindi le sue mossse anti-operaie e anti-sindacali siano solo un ultimatum per farsi rispondere no. Al contrario: Fiat vuole davvero compiere il salto, e per ragioni strategiche l’Italia è fondamentale, ma appunto a condizione che si accetti la sua terapia d’urto.
Sono ore e giorni importanti per la vicenda FIAT, che ha già svelato il suo carattere paradigmatico sui problemi relativi non solo al futuro dell’industria italiana nell’era della globalizzazione, ma anche al sistema delle relazioni sindacali e industriali. Paolo Martini, in procinto di succedere a Massimo Bordin alla direzione di Radio Radicale, ne parla con Guido Viale, economista ed esperto di temi ambientali e di industria dei trasporti, i cui articoli hanno suscitato in questi mesi un ampio dibattito politico sul tema.

Viale, sin dai suoi primi articoli sul Manifesto, questa estate, e poi sul Sole 24 Ore poche ore fa, Lei sottolineava quanto fosse irrealistico credere ai progetti e alle aspettative di produzione di auto annunciate da Marchionne e dalla FIAT. Perché i numeri sono sballati?

Perché lo sfondo su cui si sviluppano tutte queste vicende è il piano industriale congiunto FIAT-Chrysler che prevede, nel giro di quattro anni, di raggiungere una produzione di sei milioni di veicoli, contro quella attuale di poco superiore ai tre milioni, quindi il raddoppio della produzione. Questo a livello planetario, ma la parte più irrealistica di questo piano è la parte italiana, che prevede negli stabilimenti italiani il passaggio della produzione da 650.000 veicoli ad un milione e 400.000, sempre nel giro di 4 anni. Siccome le quote della FIAT nel mercato italiano non sono destinate a variare granché, il Piano prevede che due terzi di questa produzione italiana (oltre 800.000 veicoli) vengano esportati all’estero, laddove per estero si intendono gli altri paesi europei, cioè un mercato che è in stallo se non in contrazione, in particolare per i segmenti bassi della produzione in cui la FIAT è specializzata. Perché? Perché c’è la crisi, perché il mercato europeo è saturo ed è ormai soltanto un mercato di sostituzione ed infine perché gli incentivi, che sono stati elargiti da quasi tutti i governi europei durante la crisi, hanno temporaneamente avvantaggiato soprattutto le vetture di fascia bassa, dal momento che con gli sconti offerti quelli che non potevano permettersi di cambiare auto, lo hanno potuto fare. Proprio per questo ora provocano una contrazione di questo segmento di mercato, perché chi si è comprato l’auto non avendo grandi disponibilità economiche, per i prossimi 5 o 10 anni non ne comprerà un’altra. Questo spiega come mai il mercato della FIAT sia destinato ad essere drasticamente ridimensionato.

L’impressione che si è avuta durante le vicende di Pomigliano e prima ancora di Termini Imerese è esattamente questa: Marchionne sa che produrre auto in Italia è molto difficile e dice “se proprio volete farlo, queste sono le condizioni”. A chiedere invece che gli stabilimenti rimanessero in Italia, sono stati soprattutto i sindacati, in nome del fatto che migliaia di persone rischiano di rimanere senza lavoro. Il sindacato non ha ancora capito le cose che Lei dice?

Per il sindacato è più difficile metterle in pratica di quanto non sia per me scriverle e di questo va dato atto a tutti quelli che si trovano sul fronte di questa controversia. Il problema è che le prospettive di tenere in piedi l’impianto di Pomigliano, che oggi produce 30.000 vetture, e di farlo arrivare a 250.000, e di Mirafiori con le produzioni dell’Alfa che dovrebbero arrivare a 500.000 vetture – con tutti gli esperti che dicono che questo è impossibile – fa pensare che in realtà Marchionne stia usando questo aut-aut per avere una giustificazione e chiudere o ridimensionare drasticamente uno o tutti e due gli stabilimenti. Indubbiamente la FIAT, finché esisterà FIAT Auto, dovrà mantenere in Italia un presidio produttivo, perché non si può fare progettazione senza vedere come questa viene tradotta in pratica. Tuttavia, il tipo di vetture che produce, il tipo di mercato a cui punta, le dimensioni stesse del mercato a cui può aspirare e gli incentivi che può ottenere in paesi che sono fuori dall’Unione Europea, come la Turchia o la Serbia o il Brasile, rispetto a quelli che può ottenere in Europa dove gli aiuti di Stato sono rigidamente regolamentati, fanno pensare che il grosso della produzione verrà spostata all’estero. Con questo bisogna fare i conti fin da subito.

Ad esempio pensare ad un nuovo modello di sviluppo. Concretamente cosa si potrebbe fare?

Le cose da fare sono tantissime. Naturalmente ci vorrebbe un piano industriale e una politica industriale che in Italia mancano – non abbiamo nemmeno un Ministro dello Sviluppo economico – ma indubbiamente la conversione a produzioni più sostenibili è un’esigenza ormai imprescindibile, soprattutto se ci vogliamo mettere in linea con Kyoto e con l’Europa in materia di risparmio energetico e di emissioni. Ci sono delle produzioni in cui la FIAT ha la possibilità di valorizzare il know-how e gli impianti che ha già, perché aveva iniziato a realizzarle già quarant’anni fa. In particolare io ho messo l’accento sugli impianti di cogenerazione micro e di media capacità. Gli impianti di cogenerazione micro sono un’invenzione di un ingegnere della FIAT che quarant’anni fa ha messo a punto un’apparecchiatura che si chiamava Totem, che era in grado di utilizzare fino al 98% del potenziale energetico dei combustibili fossili, combinando insieme produzione di energia elettrica, riscaldamento e potenzialmente anche raffrescamento e condizionamento. Un tipico impianto che può funzionare per soddisfare le esigenze energetiche di un condominio o di una piccola fabbrica. Questo progetto è stato prima realizzato e poi abbandonato ed infine venduto come molti altri progetti di avanguardia. Ad esempio il Common Rail, un dispositivo che oggi viene utilizzato da tutti i motori diesel del mondo. La cosa curiosa è che questo progetto è stato ripreso dalla Volkswagen, che sul mercato automobilistico ha una forza infinitamente maggiore della FIAT e un avvenire più solido e che però, per colmare alcuni vuoti produttivi dovuti al ridimensionamento del mercato automobilistico, sta destinando una parte dei suoi impianti a realizzare l’impianto di cogenerazione che la FIAT aveva progettato, per diffonderne nei prossimi anni 100.000 esemplari in Germania. L’altro settore su cui sicuramente gli stabilimenti della FIAT potrebbero essere riconvertiti è quello delle turbine eoliche o marine. L’Italia è il paese che nell’ultimo anno ha accresciuto maggiormente la sua quota di energia eolica, anche se, come abbiamo visto, non sempre in maniera lineare e pulita. Eppure tutte le turbine installate in Italia sono prodotte all’estero. Terzo: gli impianti di cogenerazione di media potenza non sono nient’altro che lo sviluppo dei motori marini, su cui la FIAT aveva un discreto Know-how nella sua sezione Grandi motori. Anche questi li importiamo tutti dalla Germania, mentre potremmo produrli in Italia. Non è una conversione generale dell’economia italiana, ma negli stabilimenti in crisi, che non hanno avvenire, bisognerebbe cominciare a pensare a opportunità di produzione che hanno un mercato potenziale o reale. Sicuramente richiedono un diverso sistema di gestione e un management che non è quello attuale della FIAT.

Serve anche una politica industriale e incentivi da parte dello Stato, o secondo lei la FIAT potrebbe farlo benissimo senza bisogno di ricorrere ad aiuti pubblici?

Gli incentivi ci sono già. Per l’eolico, per il solare e per la cogenerazione a biomasse, gli incentivi dell’Italia sono i più alti del mondo in questo periodo, anche eccessivi secondo me. Inoltre, gli impianti di generazione elettrica e di cogenerazione ad alta efficienza sono impianti che si ripagano da soli, con il denaro che fanno risparmiare utilizzando meglio le risorse. Si tratta di mercati che esistono già in potenza. Ovviamente bisogna saperli utilizzare, gestire, conoscere. Ci vuole un management che cominci a occuparsi di queste cose. Questo management non può nascere dal nulla, ma, visto che il Governo non ci pensa assolutamente, bisogna che i sindacati e le amministrazioni locali dei territori in cui si trovano gli stabilimenti in crisi, comincino a occuparsi delle possibili alternative per tenere in piedi gli impianti e occupata la manodopera.

Il numero di persone occupate in questi settori potrebbe essere simile a quello attuale?

Sicuramente sì. Naturalmente il passaggio è graduale. Dello stabilimento FIAT di Termini Imerese, si sa già per certo che, anche nel piano fantastico e fantomatico della FIAT, la prospettiva è quella della chiusura. Sono quattro mesi che si stanno discutendo le possibili alternative e si sta ancora parlando di avviarlo ad una nuova produzione automobilistica, tra l’altro sotto la direzione di un signore a cui ad un certo punto l’allora governo D’Alema regalò la Telecom e che non è stato assolutamente in grado di gestirla. Nella stessa Sicilia, che tra l’altro ha a disposizione dei fondi per le politiche industriali molto maggiori delle altre regioni, si stanno varando dei piani di generazione elettrica e di impiantistica energetica grandiosi, che potrebbero trovare la loro testa di filiera proprio nello stabilimento di Termini Imerese e nel suo indotto.

Un’ultima domanda più in generale sul dibattito teorico, dal momento che le sue prese di posizione hanno aperto una vasta polemica, anche relativamente al superamento del capitalismo o alla prefigurazione di politiche all’interno dell’attuale sistema economico. Come risponde, visto che la sua storia è quella di un uomo di sinistra.

Il problema centrale oggi è trovare un punto di mediazione fra i grandi progetti e gli ideali, che siano di socialismo, di uguaglianza o che siano perlomeno di conversione della produzione e dell’economia a delle attività più sostenibili dal punto di vista ambientale, e le cose pratiche che si fanno quotidianamente. Sui grandi progetti e sui grandi ideali sono tutti d’accordo, poi in pratica quando ci si trova di fronte a situazioni di crisi, non si fa nient’altro che rivendicare la produzione di più automobili anche dove non è più possibile venderle. Questa è una contraddizione che non può reggere a lungo. Bisogna cominciare a tradurre i grandi ideali in proposte pratiche che abbiano delle possibilità di marciare. Secondo me, anche le grandi trasformazioni, se non si articolano in progetti concreti e praticabili sui territori, non hanno nessuna prospettiva di incidere e di raccogliere consenso.


* Paolo Martini ( linkontro.info)
Fonte: www.dirittiglobali.it/ 




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