EGITTO PARALIZZATO DAGLI SCIOPERI
I lavoratori del canale di Suez in sciopero |
«RISVEGLIO PROLETARIO»
di Alberto Negri*
Terminato, con l’uscita di scena di Mubarak, il primo round politico della rivoluzione, inizia il secondo, quello sociale.
«I berretti rossi della Guardia Repubblicana si guardano intorno soddisfatti, in mezz’ora di parapiglia hanno ripulito piazza Tahrir dagli irriducibili. Sui muri restano striscioni con le foto dei martiri e le auto sono pronte a impadronirsi di nuovo della piazza. Ma il ritorno all’ordine dura poco. Le banche sono chiuse per gli scioperi, la Borsa è sbarrata fino a domenica, il turismo è affondato: l’Egitto è in ebollizione.
I giovanotti della polizia militare vengono sommersi dai lavoratori dello sport in agitazione, poi tocca ai poliziotti che chiedono l’immunità per le antiche e recenti malefatte ma pure immancabili aumenti di paga; quindi è la volta dei dipendenti della Bank of Alexandria, furibondi perché rischiano il posto; infine scendono in campo le guide delle piramidi, rimaste senza lavoro in alta stagione. I berretti rossi, esausti e grondanti, si fanno da parte. Per poi ricominciare, sparando raffiche di mitra in aria nel tentativo di disperdere la folla: gli scontri nella notte si fanno duri e si sente l’ululato delle sirene.
Il nuovo Egitto ricomincia dove era finito quello di Mubarak, con ondate di scioperi che sfidano l’ordine imposto dai militari e dall’uomo forte del momento, Mohammed Tantawi, ottantenne ministro della difesa, capo del consiglio supremo e presidente di fatto. «Nobili egiziani non manifestate più, tornate casa» è l’appello dei militari. Ma i nobili egiziani restano in strada, a gola spiegata, mentre scendono in piazza anche in Iran e in mezzo Medio Oriente, risvegliando l’attenzione di pensosi esperti che ignoravano un mondo in cambiamento, aggrappati a griglie di lettura antiquate.
Attraverso la città con Tarek Niazi, manager cinquantenne che dirige l’azienda di famiglia, l’acciaieria Al Zhara, partner dell’italiana Danieli. Anche lui protesta. Tarek racconta la sua storia mentre siamo imprigionati in un ingorgo nel tunnel dell’Opera. I lavoratori hanno bloccato l’uscita.
«Guadagno 300 lire al mese (45 euro ndr), solo con contratti a termine e da undici anni non ci pagano l’assicurazione medica», urla un operaio nel finestrino. Non solo i salari sono bassi – spiega Tarek – ma gli operai vengono assunti e licenziati di continuo da due entità diverse, il governatorato del Cairo e l’autorità per i tunnel, quindi non sanno mai a chi chiedere gli arretrati».
La bestia nera di Tarek Niazi è Ahmed Ezz, monopolista dell’acciaio e socio di Gamal Mubarak: «La nostra è la più antica fabbrica siderurgica di Alessandria, con Ezz, smaccatamente favorito, abbiamo rischiato di chiudere. Lui avrebbe mai potuto fare soldi senza le tangenti versate alla famiglia Mubarak».
La corruzione infiamma le proteste quasi quanto le questioni salariali. È un paese che dopo 30 anni di silenzio apre i suoi Cahier de doléances. Il clan dei Mubarak è ovviamente nel mirino. Il giallo sulle condizioni di salute del presidente, che si trova nella sua villa di Sharm el Sheikh – secondo alcune fonti in coma – non solleva più di tanto l’interesse degli egiziani più incuriositi dal patrimonio accumulato dai Mubarak.
Mentre si esita a colpire i conti esteri della famiglia, affiorano vicende sempre meno edificanti. Samir Zaher, fratello di Suzanne Mubarak e presidente della lega calcio, ha intascato tangenti per 14 miliardi di lire con la vendita di terreni statali sul Mar Rosso a immobiliaristi russi: un annoso faldone giudiziario, tenuto ben nascosto al tribunale del Cairo, riemerso ieri dalla polvere. Suzanne Mubarak, sua sponsor, amava presentarsi come una signora dedita alle cause umanitarie, partecipando a tutte le conferenze Onu più politicamente corrette ed evanescenti: è anche così che si legittimano dittature e pessimi governi.
Un tremebondo primo ministro, Ahmed Shafiq, generale ultrasettantenne, ha assicurato che nulla cambierà nella politica economica. Shafik in realtà deve fronteggiare una portentosa fuga di capitali e vuole rassicurare le classi medio-alte che l’aliquota fiscale massima resti ferma al 20% dell’imponibile, una tassazione da paradiso fiscale in un paese dove la dichiarazione dei redditi è un fastidioso optional. A parte le forze armate, lo stato egiziano ha fondamenta friabili come la sabbia. Le agitazioni stanno costando il posto a diversi dirigenti incapaci. Ieri è toccato al presidente della Egyptair, Alaa Ashun, protetto di Mubarak.
Nei giornali e alla tv di stato stanno buttando fuori direttori e manager: per salvarli dal linciaggio è intervenuto l’esercito. Il quotidiano Al Ahram è uscito con questo titolo: «Chiediamo scusa ai lettori per avere raccontato bugie per 30 anni». Mohammed Sabrin, il direttore, appare contrito. Si diffonde in lodi sulla stampa occidentale. «Voi in Italia – dice guardandomi negli occhi – non potete capire cosa fosse qui la censura». E mi congeda con gentilezza, infilandomi sotto il braccio una copia del nuovo Al Ahram per scacciare i cattivi pensieri».