L’IDEOLOGIA EUROPEISTA E CERTE SUE RADICI NAZISTE di Chiaberge Riccardo
Laughland, un intellettuale di idee thatcheriane che collabora al Wall Street Journal e al Sunday Telegraph, non è nuovo a simili provocazioni. Tre anni fa il suo pamphlet The Death of Politics (La morte della politica) aveva fatto infuriare gli europeisti bigotti. Ma questa volta l’impatto potrebbe essere ancora più devastante. Proprio mentre Tony Blair riapre il dialogo con Bruxelles e rivendica per il suo paese un ruolo-guida nella Ue al fianco di Francia e Germania, un suo concittadino getta una bomba ad altissimo potenziale contro il mausoleo dei padri fondatori.
Staccate dalla parete i ritratti di Adenauer, di Schuman o di Jean Monnet —ci dice Laughland— e sostituiteli con quelli di Hitler, di Mussolini o di Petain. Sono loro i veri apostoli dell’idea europea. E’ dai loro cromosomi che discendono, senza saperlo, i “ragionieri” di Maastricht, quelli che danno pagelle ai governi e decidono chi dev’essere promosso e chi bocciato.
Nell’agosto 1941, un comunicato congiunto italo-tedesco, controfirmato dall’alleato Mussolini, avrebbe ribadito in termini più bellicosi un concetto analogo: «La distruzione del pericolo bolscevico e dello sfruttamento plutocratico renderà possibile una pacifica, armoniosa e proficua collaborazione tra tutti i popoli del continente europeo, nel campo politico come in quello economico e culturale.
Ma la più articolata riflessione nazista sull’argomento sarebbe venuta l’anno successivo, con la grande conferenza organizzata dagli imprenditori berlinesi sul tema Europaische Wirtschaftsgemeinschaft (letteralmente: Comunità economica europea), con la partecipazione di autorevoli esponenti del regime. Il ministro dell’economia del Reich, Walter Funk, che era anche presidente della Banca centrale, sostenne in quell’occasione che la costruzione di aree economiche «… segue una naturale legge di sviluppo», e ricordò che quando la Germania era frazionata in tanti staterelli ciascuno con la sua moneta, il Paese non era in grado di fare fronte alla concorrenza di Francia e Inghilterra. Pur ammettendo che l’integrazione del continente sarebbe stata più difficile da realizzare della Zollverein, l’unione doganale tedesca, il ministro concludeva che si sarebbe dovuta comunque fare, «perché il suo momento è venuto».
Un mercato unico, con il Reichsmark come valuta di riferimento: questo il sogno degli economisti nazisti. Non molto diverso, dopotutto, da quello degli gnomi della Bundesbank degli anni Novanta. Ma il dibattito non si ferma a Berlino, coinvolge anche l’Italia fascista.
Alberto de Stefani, che fu ministro delle Finanze di Mussolini dal ’22 al ’25, scrive nel 1941: «Le nazionalità non costituiscono una solida base per il progettato nuovo ordine, a causa della loro molteplicità e della loro tradizionale intransigenza… Un’unione europea potrebbe non essere soggetta alle oscillazioni di politica interna che sono caratteristiche dei regimi liberali». Gli fa eco il direttore di Civiltà Fascista, Camillo Pellizzi: «Una nuova Europa: questo è il punto, e questa la missione che abbiamo di fronte a noi. Il che non significa che Italiani, Tedeschi e le altre nazioni della famiglia europea debbano… diventare irriconoscibili… Sarà una nuova Europa per la nuova ispirazione e il principio determinante che emergerà tra tutti questi popoli».
L’anello mancante, il trait-d’union tra fascismo e federalismo, secondo Laughland, è una corrente filosofica alla quale dice di ispirarsi uno dei più grandi eurocrati, Jacques Delors: il personalismo di Emmanuel Mounier. Una dottrina “nebulosa” nella quale tendenze ecumeniche e comunitarie si mescolano, soprattutto negli anni Trenta, a forti dosi di anticapitalismo e di antiparlamentarismo. Intorno a Esprit e a Ordre Nouveau, le due riviste del gruppo, dirette rispettivamente da Mounier e da Denis de Rougemont, si aggregano diversi intellettuali che guardano almeno inizialmente con favore all’esperimento nazionalsocialista. E lo stesso Mounier partecipa nel 1935 a un convegno a Roma sullo Stato corporativo, al termine del quale loda lo “slancio costruttivo” degli studiosi in camicia nera. C’e’ dunque una continuità tra l’europeismo totalitario degli anni Trenta e Quaranta e quello “democratico” del dopoguerra. Entrambi hanno un avversario comune: lo Stato nazionale, in cui vedono una minaccia per la pace e un recinto troppo angusto per un’economia di dimensioni planetarie. Per entrambi, «la molteplicità implica disordine e l’ordine richiede uniformità».
Intorno a questi concetti, nell’Europa di oggi, si realizza una inedita convergenza tra liberali tecnocratici alla Leon Brittan e socialisti alla Delors. «A differenza dei conservatori, i liberali tecnocratici pensano di poter avere la ciliegina dell’ordine liberale senza la torta della nazionalità, della legge e della politica che dovrebbero sottostare a esso».
Che il pensiero liberale sia favorevole all'ambito nazionale mi giunge nuovo e questo libro non fa che dimostrare come la propaganda neo lib cerchi di intestarsi e di condizionare in qualche modo il suo nemico più evidente ossia la sovranità nazionale che si oppone alla sovranità finanziaria. Che poi il gioco sia facile con questa Europa è un altro discorso, ma in realtà è facile vedere come sin dalla fine della prima guerra mondiale le visioni europeiste elitarie (compreso il mai letto Manifesto di Ventotene) sono nate proprio in ambito liberale. Quanto a Hitler e Mussolini, le parole vanno contestualizzate ed è chiaro che l'Europa di cui si parlava doveva essere la potenza ariana in grado di consentire un dominio mondiale che non erano comunque alla sola portata dei due Paesi dell'asse. Sostanzialmente un progetto militare infarcito di millenarismo.