“COSA ROSSA”? NO, SALSA ROSA di Leonardo Mazzei
[ 29 ottobre ]
SEL: OVVERO GLI ULTRÀ DELLA GLOBALIZZAZIONE
Si è svolta sabato scorso l’assemblea nazionale di Sinistra ecologia libertà (Sel). L’incontro ha partorito un documento utile a chiarire tre cose.
Entriamo nel merito, procedendo in ordine inverso d’importanza. In primo luogo, quindi, il non-evento di un aborto sostanzialmente annunciato. In secondo luogo, la conferma della linea delle alleanze con il Pd, in terzo luogo l’atteggiamento da ultras sfegatati del globalismo e dell’eurismo, un’impostazione che neppure le lezioni greche dell’estate scorsa hanno minimamente scalfito.
La “Cosa Rossa” non nascerà. Al più vedrà la luce una cosuccia rosa pallida
Se i documenti hanno un senso, quello uscito dall’assemblea del 24 ottobre ci dice che la cosiddetta “Cosa Rossa” non vedrà proprio la luce. Per “Cosa Rossa” si intendeva l’unificazione in un unico soggetto politico di almeno 4 componenti: Sel, Rifondazione Comunista, Possibile (civatiani) e Futuro a sinistra (fassiniani). Tralascio qui per semplicità altre componenti minori (o comunque sovrapponibili), come pure ritengo francamente trascurabile l’apporto di alcuni transfughi di M5S.
Già il fatto che si parlasse di “Cosa Rossa” senza una base politica minima, e neppure uno straccio di programma, indicava la natura iper-minimalista dell’operazione: mettere in piedi un soggetto purchessia in vista delle prossime elezioni politiche, con l’obiettivo di assicurarsi la presenza parlamentare superando l’asticella del 3%. Nulla di più ambizioso di questo si è visto nei mesi scorsi, e l’esito preannunciato dal documento di Sel ne è la conferma più plateale.
Adesso, dei quattro soggetti sopra indicati, pare proprio che due mancheranno all’appello. Di sicuro non sarà della partita l’associazione di Civati, che al momento sembra piuttosto tentato dall’avventura solitaria. Ma ben difficilmente potrà farne parte lo stesso Prc. Non solo per la posizione di Vendola e compagnia sulle amministrative, ma anche e soprattutto per la richiesta di scioglimento dell’organizzazione, che lo stesso Ferrero avrà grosse difficoltà ad accettare.
Prevedibilmente la “Cosa” nascerà dunque dimezzata, disegnando non una “casa comune della sinistra”, come si reclamizzava, quanto piuttosto una sorta di Grande Sel. Quanto grande ce lo diranno i fatti in seguito…
Il problema è Renzi o il Pd?
Veniamo adesso alla seconda questione, quella dei rapporti con il Pd.
Naturalmente, come in ogni discussione politica che si rispetti, anche in Sel esiste una “destra” (quella che vorrebbe allearsi sempre e comunque con il Pd renziano), un “centro” (in questo caso rappresentato dall’ex governatore pugliese) ed una “sinistra” che inizia timidamente a porsi qualche interrogativo. Ma qui non entreremo nel merito di questa discussione, concentrandoci invece sul contenuto del documento finale, di chiara matrice vendoliana. E’ questo il testo che dà la linea sulle questioni di cui ci occupiamo in questo articolo.
Tra queste, quella delle prossime elezioni amministrative. Leggiamo il passaggio decisivo contenuto nel documento approvato sabato:
«Per noi non si tratta di stabilire regole astratte che da Roma calino sui territori in modo automatico e meccanicistico. Consideriamo necessario difendere e lavorare per dare continuità a quelle esperienze che nel governo concreto delle città hanno saputo guadagnare le caratteristiche di laboratori politici e amministrativi. Proprio per questo però è necessario che, ovunque non si verifichino queste condizioni, l’impegno di Sel sia rivolto alla costruzione di percorsi innovativi e autonomi che, a partire da qualificate proposte di governo locale e dalla definizione partecipata di percorsi plurali, mettano in campo un punto di vista alternativo e competitivo».
Traduciamo. A livello nazionale non possiamo che essere contro Renzi, ma per le amministrative la linea rimane quella della ricerca dell’accordo con il Pd. Poi, nelle realtà dove i piddini proprio non ci vogliono, metteremo in piedi liste alternative.
Il fatto è che il voto della prossima primavera non riguarda piccoli e sperduti centri, bensì grandi città come Milano, Napoli, Torino, Bologna e (salvo improbabili sorprese) la stessa Roma. I risultati avranno quindi una evidentissima valenza generale. Sappiamo già che in alcune città (ad esempio Bologna) l’accordo con il Pd sarà impossibile anche per Sel, ma una mappa delle alleanze a macchia di leopardo —esatta fotocopia di quanto Sel ha fatto alle regionali dello scorso maggio— non farebbe che confermare che nella sostanza ben poco è cambiato.
Se davvero uno vuol rompere con Renzi, denunciare la sua pericolosità, non può lanciare segnali così contraddittori. La cosa è evidente, ma confligge sia con la pancia di un partito di assessori come Sel, sia con la visione di fondo di Vendola. Il quale, in una sua recentissima intervista, ha detto che: «Una coalizione progressista la si può costruire con il Pd, senza il Pd, contro il Pd». Una frase da incorniciare, ma anche di facile interpretazione: con il Pd ovunque possibile, senza il Pd dove proprio non ci vogliono, contro il Pd così giusto per dire…
Dietro questa politica che fa del trasformismo l’alfa e l’omega della propria prassi non c’è solo opportunismo, ma anche attendismo in vista delle elezioni politiche. Da un lato si dice che il nemico è Renzi, non il Pd. Sottinteso: a Renzi potrebbe anche capitare qualche incidente, mentre il Pd resterebbe e noi saremmo sempre pronti ad aspettarlo sotto il lampione. Ma c’è un secondo sottinteso: oggi noi non serviamo a Renzi perché c’è l’Italicum, ma se la legge elettorale dovesse cambiare di nuovo (ad esempio come accennato al senato da un Napolitano preoccupato da un possibile successo di M5S) potremmo tornargli nuovamente buoni. Insomma, per i sellini, mai dire mai. E guai a chi vuole spegnere quel lampione…
Gli ultras della globalizzazione
Le due questioni di cui ci siamo occupati finora hanno la loro importanza, ma sono niente rispetto a quanto viene affermato nel documento sull’Europa. Leggiamo:
«E la piega distruttrice che ha preso l’Europa non c’entra con la moneta e la sovranità monetaria, non c’entra con il primato tecnocratico, c’entra con la politica, con scelte esclusivamente politiche. Oligarchiche e politiche. E non c’è salvezza nella inversione ad U che riconsegna l’orizzonte agli Stati nazionali. Meglio, molto meglio continuare a battersi sul terreno europeo, l’unico possibile, l’unico che può determinare una qualche inversione di tendenza di lunga durata. Magari prendendo sul serio l’elaborazione che ha portato i curdi, a cavallo del limes, ad abbandonare l’idea del potere connessa allo stato nazionale, avviando invece una rielaborazione straordinaria che pone l’accento sulla dimensione territoriale, la democrazia integrale e la cooperazione tra comunità, generi, vivente umano e non umano. Non comunità di destino né piccole patrie ma l’esercizio quotidiano dell’autogoverno e dell’autoeducazione al cambiamento, alla democrazia paritaria. Praticare l’orizzonte europeo significa partecipare a questa impresa rafforzando i presidi territoriali presenti in ogni singolo Paese».
Avete capito? L’attuale Europa non c’entra nulla con l’euro. Meno che mai —ci mancherebbe!— con la sovranità monetaria. Roba da mettersi le mani nei capelli! D’accordo, ci sarà un fisiologico rincoglionimento istituzionale, ma come si può scrivere una simile scemenza? Di questo, esattamente di questo, scrivono e discutono —magari con pareri diversissimi— i più importanti economisti e commentatori del continente, ma niente può turbare le granitiche certezze euriste del “poeta” pugliese.
Ma non basta. Non c’è salvezza nell’orizzonte degli stati nazionali. E —Monti non saprebbe far di meglio— l’unico terreno possibile è quello europeo. Per rafforzare una simile tesi si tirano in ballo perfino i curdi —peraltro schiacciati proprio dall’azione di potenti stati-nazione regionali e non—, che nella testa dell’esperto di Terlizzi avrebbero abbandonato l’idea della sovranità nazionale per fare un piacere a lui e a tutti i sapientoni venduti al globalismo. Che è poi la forma concreta del capitalismo della nostra epoca. Quella attraverso la quale ogni diritto sociale, conquistato nella fase precedente, viene progressivamente demolito, in nome della globalizzazione e di verità e poteri costituitisi a livello sovra-nazionale in modo da impedire ogni esercizio della sovranità democratica e popolare.
E’ la nostra una critica “ideologica”?
Ma quello compiuto a Lisbona non è certo l’unico golpe messo a segno dall’oligarchia eurista. Vogliamo ricordare i cambi di governo imposti a Roma ed Atene nell’autunno 2011? Oppure l’annullamento de facto dei referendum in Francia ed Olanda (2005), come pure quello successivo tenutosi in Irlanda? Vogliamo ricordare i vincoli di bilancio, le leggi finanziarie dettate a volte anche nei dettagli? Fate voi, c’è solo l’imbarazzo della scelta.
E questi ancora lì a dire che l’Europa è l’unico terreno praticabile, mentre il resto è semplicemente indicibile ed impensabile, puro peccato nella visione della teologia eurista che ispira i loro pensierini.
Per loro l’Europa, intesa come aggregazione sovra-nazionale, in grado comunque di prevalere sugli stati, è il bene assoluto. Un bene che prescinde dagli stessi contenuti sociali e democratici.
Beninteso, non è che i sellini siano gli unici ultrà di simili concezioni. Ma, a parte il fatto che le granitiche certezze dei globalisti sono in crisi ormai in ogni angolo del continente, è davvero raro leggere di questi tempi una simile visione integralista di quella che di fatto è l’ideologia della fine della storia. Una teoria che un quarto di secolo fa piacque molto ai dominanti, proprio perché lasciava immaginare la parallela fine degli stati e della lotta di classe. Naturalmente, la storia “finiva” perché tra gli stati era rimasto un unico dominus, mentre il potere anonimo dei “mercati” garantiva il controllo sociale e la fine di ogni possibile alternativa.
Ora, venticinque anni dopo, sappiamo come sono andate le cose. Il progetto dei dominanti ha portato alla distruzione dei diritti e della democrazia, mentre ogni tentativo di riforma dall’interno (vedi in ultimo Tsipras) è sempre miseramente fallito. Vogliamo continuare ancora a farci male?
Che Vendola e soci vogliano farlo, ci è in fondo assai indifferente.