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PAIDEIA di Fiorenzo Fraioli

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[ 14 ottobre ]
«Io sono un insegnante, ma non condivido l’impostazione della “buona scuola” e combatto ogni giorno la mia personale guerra di resistenza contro questa follia. Ai miei studenti cerco di trasmettere valori, dai quali discendono anche gli stili di vita, ma vengono prima di questi. Insegno loro ad essere membri consapevoli di una comunità verso la quale hanno sì degli obblighi, ma anche il diritto di discuterli, contestandoli nei modi corretti attraverso la partecipazione alla vita pubblica, cioè preparandosi ad essere, ognuno di loro, un “politikòn zôon”, un “animale politico” secondo la definizione di Aristotele».
«La paideia (παιδεία, paidèia) nel V sec. a.C. significava allevamento e cura dei fanciulli e diventava sinonimo di cultura e di educazione mediante l’istruzione. Era il modello educativo in vigore nell’Atene classica e prevedeva che l’istruzione dei giovani si articolasse secondo due rami paralleli: la paideia fisica, comprendente la cura del corpo e il suo rafforzamento, e la paideia psichica, volta a garantire una socializzazione armonica dell’individuo nella polis, ossia all’interiorizzazione di quei valori universali che costituivano l’ethos del popolo. Lo spirito di cittadinanza e di appartenenza costituivano infatti un elemento fondamentale alla base dell’ordinamento politico-giuridico delle città greche. L’identità dell’individuo era pressoché inglobata da quell’insieme di norme e valori che costituivano l’identità del popolo stesso, tanto che più che di processo educativo o di socializzazione si potrebbe parlare di processo di uniformazione all’ethos politico. L’elemento fisico dell’educazione dei giovani ateniesi si basava in una prima fase su un rigoroso addestramento ginnico, in base all’idea che un corpo sano favorisce un pensiero sano e viceversa; successivamente si aggiungeva quello bellico, essendo la guerra una fra le attività considerate più nobili e virili dell’uomo greco; per arrivare infine al completamento dell’istruzione rappresentato dalla formazione politica, vero centro della cittadinanza ateniese, e apice verso il quale era indirizzato l’intero processo educativo. È proprio questa paideiapsichica che interessava maggiormente a Platone, ed è infatti su questa che fonderà le basi del suo progetto di rinnovamento (ma al tempo stesso anche conservazione) dell’uomo greco. Il modello della paideia venne ripreso dai Romani, e secondo vari studiosi ha influenzato in maniera determinante non solo il modo di pensare degli antichi greci, ma anche in genere dell’Occidente europeo.
La forza educativa proveniente dal mondo greco ha caratterizzato l’Occidente a partire dai Romani; è poi più volte rinata con continue trasformazioni col sorgere di nuove culture, dapprima con il Cfistianesimo,poi con l’umanesimo e il rinascimento.” (Giovanni Reale)»
Credo non ci sia nulla da aggiungere, tanto è esposto in modo cristallino il fine dell’istruzione. La buona scuola va in direzione opposta, poiché l’orientamento scelto è quello di formare coscienze individuali ma conformi, attraverso insegnamenti diversificati in funzione degli ambiti territoriali secondo gli indirizzi scelti dai Dirigenti Scolastici, i quali “diventano leader educativi: meno burocrazia e più attenzione all’organizzazione della vita scolastica. Dovranno essere i promotori del Piano dell’offerta formativa e avranno la possibilità, a partire dal 2016, di mettere in campo la loro squadra individuando, sui posti che si liberano ogni anno, i docenti con il curriculum più adatto a realizzare il progetto formativo del loro istituto.“.

L’accento viene posto sul processo di apprendimento di tecniche e alla formazione di stili di vita conformi (“Viene dato più spazio all’educazione ai corretti stili di vita, alla cittadinanza attiva, all’educazione ambientale, e si guarda al domani attraverso lo sviluppo delle competenze digitali degli studenti (pensiero computazionale, utilizzo critico e consapevole dei social network e dei media). La scuola è sempre di più il luogo in cui si formano le coscienze. I piani triennali per l’offerta formativa promuoveranno, quindi, anche la prevenzione di discriminazioni.“).

Esattamente l’opposto della paideia umanistica ricordata da Giovanni Reale (“La forza educativa proveniente dal mondo greco ha caratterizzato l’Occidente a partire dai Romani; è poi più volte rinata con continue trasformazioni col sorgere di nuove culture, dapprima con il Cristianesimo, poi con l’umanesimo e il rinascimento.“) il cui fine è il “completamento dell’istruzione rappresentato dalla formazione politica, vero centro della cittadinanza ateniese, e apice verso il quale era indirizzato l’intero processo educativo“.

Non più cittadini che partecipano consapevolmente alle scelte politiche, ma individui in possesso di competenze tecniche standard, per quanto tagliate su misura in funzione delle esigenze produttive degli ambiti territoriali, conformati non a valori (“l’nteriorizzazione di quei valori universali che costituivano l’ethos del popolo“), bensì a stili di vita comuni!

Io sono un insegnante, ma non condivido l’impostazione della “buona scuola” e combatto ogni giorno la mia personale guerra di resistenza contro questa follia. Ai miei studenti cerco di trasmettere valori, dai quali discendono anche gli stili di vita, ma vengono prima di questi. Insegno loro ad essere membri consapevoli di una comunità verso la quale hanno sì degli obblighi, ma anche il diritto di discuterli, contestandoli nei modi corretti attraverso la partecipazione alla vita pubblica, cioè preparandosi ad essere, ognuno di loro, un “politikòn zôon“, un “animale politico” secondo la definizione di Aristotele. 
Lo faccio insegnando materie tecniche, cosa non difficile perché la tecnica è molto più di una collezione di metodi atti a manipolare le forze della natura. L’uomo è un “politikòn zôon” e, in quanto tale, è portato a unirsi ai propri simili per formare delle comunità, al cui interno la scelta delle tecniche da sviluppare e impiegare per manipolare la natura è il frutto di scelte politiche.

E nessuno dei miei studenti crede alla favola secondo cui il lavoro diventerà una merce rara come conseguenza dello sviluppo della tecnica. Se così fosse, allora la tecnica sarebbe una forza esogena alla comunità, qualcosa che viene dall’esterno senza che vi sia la possibilità di controllarla. Ma nella misura in cui l’uomo è effettivamente un “politikòn zôon“, la tecnica è uno strumento che nasce dal conflitto politico, il senso del quale è la suddivisione del lavoro e dei suoi frutti. Pertanto, finché ci sarà conflitto politico, cioè nella misura in cui i membri di una comunità saranno “animali politici“, il lavoro non sarà mai una merce rara, perché la distinzione tra conflitto politico e lavoro viene a cessare.

Al contrario, il lavoro diventa merce rara quando i membri di una comunità vengono espulsi dal conflitto politico e trasformati in schiavi o, come avviene oggi, in consumatori passivi, perché allora la tecnica viene trasformata in fattore esogeno, in quanto controllato dalla classe dominante. Questo può avvenire a qualsiasi livello di sviluppo tecnico, e poiché da sempre che l’uomo dispone della capacità di garantire ad ogni membro della comunità il necessario di cui vivere, ne segue che la scarsità delle risorse è il frutto di una rapina, e non dell’avarizia della natura o della mancanza di tecniche sufficienti. E non saranno i robot a por fine a questa rapina.

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