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Vendola in orbita, Ferrero nel pallone

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[ 21 luglio 2010 ]

Ex (?) bertinottiani: due strade diverse, forse contrapposte, ma unite nel non rispondere alle domande dell’oggi
di Leonardo Mazzei  
 
Nichi Vendola si è montato la testa e vuol fare il presidente del Consiglio; Ferrero, più modestamente, si accontenterebbe di vivacchiare riportando in parlamento una sua pattugglietta, meglio (parole sue) se «ininfluente sugli assetti governativi».


I due epigoni di un bertinottismo che non ha mai fatto veramente i conti con se stesso, che si sono scannati due anni fa al congresso di Chianciano, si auto-assegnano obiettivi tanto diversi, ma lo fanno nella comune rimozione dei nodi dell’oggi.

Questa è la questione più interessante che ci viene consegnata da un fine settimana che ha visto la riunione del Comitato politico (Cpn) del Prc, in contemporanea con la kermesse pugliese che aveva lo scopo di ufficializzare la candidatura di Vendola a Palazzo Chigi, via primarie.
Per arrivare al cuore del problema che ci interessa – l’assenza di vere proposte sulla crisi sistemica in atto, emblema vivente di una “sinistra” ormai priva di idee – conviene partire dalla vendolata  in terra barese, per poi arrivare alle proposte di Ferrero.
Se gli “Stati generali delle fabbriche di nichi”, scusate ma si chiamano così, sono stati il luogo dell’aria fritta in salsa obamiana che permea tanta parte del senso comune della “sinistra” e che, per inciso, ne spiega la crescente inutilità sociale; la risposta ferreriana è invece un condensato di buonsensismo menopeggista, che certamente prepara il peggio ma che per la verità sfida anche il buon senso.
Non pensiamo vi siano molti vendoliani disposti a discutere ed a riflettere sul serio, perlomeno non oggi. Nel Prc, invece, sappiamo che molti militanti si stanno interrogando sulle prospettive a breve, avvertendo sempre più chiaramente l’impasse in cui il partito si è cacciato.
Vendola: Obama bianco, Berlusconi di sinistra o cos’altro?
<<L’unica cosa che chiedo è un popolo protagonista>>: che cosa ha preteso con questa frase il neo-veltroniano Vendola? Ovvio, le primarie! Il protagonismo del popolo ridotto ad un stanca fila ai  gazebo, ecco dove è arrivato l’americano di Puglia, che alle sue visioni immaginifiche ed alle sue citazioni bibliche fa sempre seguire una smaccata adesione alla cultura dominante, ovvero all’americanismo.
Una cultura imperiale che oggi viaggia sulle ali dell’obamismo, ciò del presidente che ha inviato più soldati all’estero del suo guerrafondaio predecessore, riuscendo però a vincere nel frattempo un immondo Nobel per la pace.
Tutta la tre giorni delle “fabbriche” era intrisa di obamismo, e ad esso era dedicato un seminario: . Niente di male, si dirà. Già, ma tra discussioni di tutti i tipi, dove si è parlato anche del , peccato non si sia trovato il più piccolo degli spazi per parlare di questioni internazionali. Niente Gaza, niente Afghanistan, niente Iraq, niente America Latina, niente Nato, niente Europa.
In Medio Oriente spirano venti di guerra in direzione dell’Iran? A Gaza si sopravvive solo grazie ai tunnel? La Freedom Flotilla viene attaccata da Israele? La vena poetica del capofabbrica diventa muta davanti a tutto ciò.
Il perché è presto detto. Se per l’incantatore di Terlizzi il modello è Obama, i temi della politica internazionale non possono che essere tabù. E, del resto, se l’obiettivo è davvero Palazzo Chigi, meglio essere prudenti ed allineati fin da ora.
Ma sentiamo cosa rappresenta (intervista al Manifesto del 16 luglio) Obama per il governatore pugliese: <<L’America di Obama è il luogo in cui il principio-speranza (Ernst Bloch si rivolterà nella tomba – Nda) è tornato a occupare uno spazio a sinistra che prima era occupato dalla realpolitik>>. Immaginatevi di spiegare questa frase ad un afghano, ad un pachistano, ad un palestinese, se preferite ad un honduregno o ad un venezuelano…
Macchisenefrega!, direbbero le fabbriche in coro: non siamo “americani” pure noi?
Se il movimento vendoliano (definiamolo così per comodità) è culturalmente un sottoprodotto dell’americanismo – ed in questo senso può legittimamente proporsi come l’interprete più autentico del disastroso “senso comune” di “sinistra” – c’è invece un’altra sua caratteristica che va attentamente valutata. Si tratta del populismo.
Vendola è un po’ una via di mezzo tra un Obama bianco ed un Berlusconi di sinistra. Ed è proprio quest’ultima connotazione che potrebbe costituirne la forza. Su questo terreno egli rompe con la tradizione di sinistra, ma lo fa per andare ad accomodarsi nel salotto televisivo che struttura la politica depoliticizzata nell’epoca del pensiero unico.
Come Bertinotti, Vendola si concepisce come “un uomo solo al comando”, ma a differenza di Bertinotti ha la “fortuna” di non avere un partito. L’ex presidente della Camera lavorò molto per distruggere il partito di cui era diventato fin dal 1994 segretario, alla fine ci riuscì, ma alla rovina dell’uno seguì anche quella dell’altro.
Di Vendola non si può dire che abbia un partito. Sel è poco più di un aggregato che salterebbe in aria se entrasse in crisi la sua leadership. In ogni caso del partito si interessa ben poco e con un certo fastidio, preferendo le “sue” fabbriche come strumento per lanciare un’Opa sullo stesso Pd.
Il populismo di Vendola è dunque fondato sulla sua figura, in un’epoca di fortissima personalizzazione della politica. Ma si tratta di un populismo debole e “politicamente corretto”, una forma particolare che piace abbastanza ai giornali, più difficile che possa ammaliare il popolo. 
Quali sono le proposte concrete di Vendola di fronte alla crisi? Investire sull’ambiente, sulla cultura e sulla ricerca attraverso una maggiore equità fiscale. Tutto qui? Tutto qui, generico ed innocuo come si conviene ad un aspirante candidato premier. Un po’ poco però per colui che alla vigilia dell’appuntamento barese, con la modestia che lo contraddistingue, aveva detto: <<Per me ho ritagliato due discorsi (solo due, ma pensa te! – Nda) in apertura e chiusura sul buio e sulla luce, come nella Genesi>>.
E quale avversario vorrebbe incontrare? <<L’avversario dei miei sogni, in un Paese civile, è Gianfranco Fini>>. (Intervista a La7). E qui siamo davvero nel luogo dove banalità e “politicamente corretto” si congiungono alla perfezione.
Data l’incredibile crisi del Pd, il progetto di Vendola è forse meno folle di quanto potrebbe sembrare in apparenza, ma sarà ben difficile per lui mantenere l’equilibrio tra le pur generiche promesse di cambiamento e la collocazione del tutto interna a quel centrosinistra che è il luogo privilegiato della politica oligarchica.
Il Prc nella morsa
L’attivismo vendoliano evidenzia le secche in cui è andata a cacciarsi Rifondazione Comunista. Le conclusioni del recente Cpn mostrano un partito confuso e senza linea. Un partito in cui, a differenza di Sel, permangono però aspirazioni classiste ed anticapitaliste, insieme a militanti interessati ad una riflessione di più ampio respiro.
Le proposte del segretario e l’impostazione del documento finale, approvato a maggioranza, sembrano invece ispirate al semplice “Primum vivere”, un obiettivo più che legittimo, ma certamente insufficiente a motivare l’esistenza di un partito politico.
Per il Prc occorre un <<progetto antiliberista unificante di uscita dalla crisi>>, che è già qualcosa rispetto alle fumisterie vendoliane. Ma su cosa dovrebbe fondarsi un simile progetto? Nel documento non è chiaro. Vi sono invece dei riferimenti all’Europa del tutto fuorvianti. Si parla di <<superamento della natura liberista della costruzione europea proponendo una nuova fase costituente per fare fronte alla crisi basata sulla centralità della elaborazione di politiche pubbliche>>. Si pensa insomma di poter cambiare la natura dell’Unione Europea dall’interno, un’ipotesi talmente al di fuori dalla realtà da richiedere l’uso immediato del più pietoso dei veli.
Il documento pone poi l’esigenza della cacciata immediata di Berlusconi. Obiettivo pienamente condivisibile, sul quale Rifondazione propone la rituale (un po’ troppo rituale) manifestazione d’autunno.
Ma come andrebbe a collocarsi il Prc nello scenario che si aprirebbe con la crisi di governo? <<Noi proponiamo di andare immediatamente alle urne e proponiamo a tutte le forze di opposizione un accordo elettorale e non di governo su cui costruire una alleanza democratica, con l’obiettivo di difendere la Costituzione e di varare una legge elettorale proporzionale>>.
Siamo qui al solito pastrocchio, con il quale qualcuno si illude che il massimo del tatticismo sia anche il meglio della finezza politica. Non è così, il Prc dovrebbe saperlo se non altro per conoscenza diretta, ma non sempre l’esperienza è sufficiente a far superare i vizi più radicati. Come disse Talleyrand: <<Questi ricordano tutto, ma non imparano mai niente>>.
Il documento non fa che recepire una consolidata impostazione ferreriana, quella per cui il Prc si alleerebbe anche con il diavolo per battere Berlusconi, ma non sosterrebbe la maggioranza di governo che ne scaturirebbe (da qui l’ineguagliata teoria del “meglio essere ininfluenti”). Il Prc rientrerebbe in questo modo nelle aule parlamentari e, siccome è meglio non fidarsi troppo per il futuro, cercherebbe di assicurarsi la prosecuzione di tale permanenza con una nuova legge elettorale proporzionale.
Questa sarebbe la chiave di volta per farla finita con il bipolarismo. Un obiettivo senz’altro giusto, che verrebbe indubbiamente facilitato dal ritorno alla proporzionale. Tuttavia, a nostro modestissimo avviso, la fuoriuscita dal bipolarismo prima ancora che un fatto tecnico è certamente un fatto politico, che richiede innanzitutto una decisione ed un’assunzione di responsabilità politica. L’attuale gruppo dirigente del Prc non è in grado di compiere una simile scelta? Tanto peggio, ma non si illuda che altri gli tolgano le castagne dal fuoco. Oltretutto, è possibile che in un nuovo quadro politico si metta mano alla legge elettorale. Forse, vedi gli interessi dei vari Casini, Rutelli e Fini, si sceglierà il sistema tedesco. Ma quel sistema – un tempo tanto sponsorizzato da Bertinotti e Ferrero, quando il Prc aveva percentuali più che doppie rispetto alle attuali – ha il piccolo difetto di prevedere una soglia di sbarramento (5%) addirittura superiore a quella oggi in vigore, e dunque irraggiungibile dal Prc sia che corra da solo che all’interno della “Federazione della sinistra”.
L’impressione è che quella di Ferrero sia piuttosto un’illusione, il tentativo abbastanza disperato di giocarsi quest’ultima carta senza rendersi conto quali scenari vanno costruendosi per il probabile dopo-Berlusconi.
In questo quadro, quantomeno ambiguo,  lo stesso obiettivo dell’“unità delle forze della sinistra di alternativa”, in sé certamente condivisibile, appare del tutto irrealistico. Allearsi per far trionfare il blocco guidato magari da un Montezemolo, od allearsi per contrastarne da subito la sua politica oligarchica ed antipopolare? Chi pensa che si possano fare le due cose in rapida successione sostituisce la politica con il politicismo, in genere parente assai stretto del più degenere politicantismo.
E non è certamente per caso che nel documento conclusivo del Cpn il tema dell’“unità della sinistra alternativa” sia solo enunciato, ma non sviluppato. Una parte del gruppo dirigente coglie sicuramente la debolezza della nascente Federazione, ed è dunque consapevole della sua inadeguatezza. Tuttavia il tema della costruzione di uno schieramento più ampio resta decisamente nel vago.
Vedremo nei prossimi mesi se la proposta saprà svilupparsi e definirsi in termini più precisi. In caso contrario resterà una delle tante formule lanciate a vuoto dal Prc nella sua storia per coprirsi a sinistra volendo andare a destra, una variante aggiornata del movimentismo bertinottiano che serviva a coprire l’istituzionalismo più sfrenato.
Sia la relazione di Ferrero che il documento conclusivo hanno dato il giusto rilievo alla vicenda di Pomigliano ed alla riuscita degli ultimi scioperi negli stabilimenti della Fiat, cogliendo sia la portata dell’attacco sferrato da Marchionne, sia i segnali di risveglio che giungono dal mondo operaio.
Questo risveglio, per adesso solo agli albori, non ha un vero referente politico. La costruzione di un luogo in cui la lotta sociale possa coordinarsi e politicizzarsi è dunque una necessità. Ma è questa l’idea del gruppo dirigente del Prc? Solo il tempo potrà dircelo.
I nodi rimossi
Abbiamo detto in premessa che questo è il punto veramente importante. Ed abbiamo già detto che mentre tra gli smanettatori internettari del ceto medio di osservanza vendoliana non c’è, per una ragione sociale ma non solo per questo, un vero interesse al confronto; nel corpo più articolato del Prc si coglie, almeno in alcuni settori, un interesse ad una riflessione più approfondita. Un interesse che certo non può essere soddisfatto dall’attuale andamento delle cose in quel partito.
Tuttavia, nonostante queste differenze, è impressionante come gli uni e gli altri si ritrovino accomunati nella rimozione dei nodi del presente.
Non stiamo parlando della rivoluzione, del socialismo, della transizione, tutte cose che peraltro dovrebbero avere un certo spazio per chi si definisce “comunista”. Stiamo parlando semplicemente del che fare, qui ed ora, di fronte alla crisi, al macello sociale in atto ed a quello ancor più feroce che si prospetta, alle tendenze reazionarie che si vanno affermando.
Si pensa forse di poter fronteggiare questa situazione con le stesse parole d’ordine di qualche decennio fa? Si pensa che possa bastare la solita lista della spesa? Peggio, si pensa che ci si possa attestare su un’impostazione di tipo sindacalistico?
Se si pensasse questo la discussione sarebbe finita in partenza. Ma non possiamo credere che tutti abbiano mandato il cervello all’ammasso. Tra l’altro, la scissione tra una propaganda spesso massimalistica ed una praticaccia politica ai limiti del sottogoverno (ormai sia pure solo a livello locale) se è disgustosa in tempi normali, diventa intollerabile davanti alla crisi epocale del capitalismo. Intollerabile non per chi scrive, che sarebbe un fatto abbastanza irrilevante, ma per buona parte del corpo sociale che ancora si riconosce nel Prc. 
Proviamo allora ad enunciare alcune delle grandi questioni che il presente ci impone e che il ceto politico ex arcobalenico rimuove con una sistematicità degna di miglior causa.
Non c’è qui lo spazio per un’argomentazione compiuta di ogni singolo punto, ma quel che conta è intendersi intanto su ciò che oggi è davvero importante. Un’agenda corretta è la premessa necessaria di una discussione utile. Ed uscire dall’aria fritta dell’attuale sinistrese sarebbe già un autentico miracolo.
Procediamo perciò schematicamente, sotto forma di domanda:
1. Europa
Ha senso continuare a lamentarsi dell’UE, chiedendogli di essere ciò che non può essere, o non dobbiamo piuttosto iniziare a spiegare la necessità dell’uscita da questa struttura costitutivamente oligarchica, antidemocratica ed autoritaria?
2. Sovranità nazionale
Come pensiamo di poter costruire una prospettiva democratica, dove la parola “democrazia” abbia una qualche relazione con il suo significato letterale, senza la riconquista di una sovranità nazionale oggi cancellata dalla UE, dall’adesione alla Nato, dall’accettazione dei vincoli sistemici insiti nel capitalismo ma esaltati dalla sua mondializzazione (la cosiddetta “globalizzazione”)?
3. Moneta
Può rimanere fuori da tale processo di riappropriazione la questione della sovranità monetaria? Dobbiamo continuare ad accettare in silenzio l’anonimo dominio dei signori della Bce? In altre parole, non è forse il momento di cominciare a pensare di uscire dall’euro?
4. Debito pubblico
Chi vuole l’alternativa, pensa che sia possibile costruirla sotto la spada di Damocle dell’attuale debito pubblico? Non sarebbe meglio dire chiaramente che ciò non è possibile, che si dovrà andare ad un suo azzeramento? Certo, la materia è complessa (dalla necessità di tutelare il piccolo risparmio alla corretta valutazione di tutti gli effetti economici del default), ma qualcuno ha un’idea migliore per poter ricostruire le condizioni per permettere una nuova politica sociale in materia di previdenza, sanità e scuola?
5. Opposizione alla politica economica del governo (condivisa dalla finta opposizione parlamentare)
Fino ad oggi questa opposizione si è fondata sulla richiesta di maggiore equità (“meno tagli, più giustizia fiscale”, ecc.). Ma più equità per che cosa, per una nuova versione dello sfortunato manifesto dell’autunno 2006 dall’improbabile slogan: “finalmente anche i ricchi piangono”?
Giusto battersi per l’equità, del resto un concetto sempre molto relativo in questi casi, ma non si dovrebbe mettere al primo posto il “per che cosa”, la finalità ultima di ogni scelta economica? La più “equa” delle manovre, che fosse però rivolta alla conservazione dell’attuale sistema, non andrebbe anch’essa contrastata?
6. GuerraL’imperialismo non si ferma neppure quando gli affari vanno bene, figuriamoci in una fase depressiva come questa. Come mai anche il Prc, al pari dei vendoliani, omette completamente ogni riferimento alla situazione internazionale? Sappiamo che questo fu, fin dal lontano 1991, un vizio d’origine assai grave. Non sarebbe l’ora di cominciare a superarlo, o si pensa di potersela cavare gridando di tanto in tanto un no alle guerre in corso ed a quelle in fase di preparazione?
7. Giustizia
Berlusconi è semplicemente osceno, ma le scelte in materia di giustizia (che riguardano la vita di 60 milioni di persone) debbono essere condizionate dalle vicende politico-giudiziarie di una sola persona? Prendiamo la questione delle intercettazioni telefoniche. Quale concezione del mondo può esserci dietro all’idea, prevalente a “sinistra”, che è sostanzialmente giusto intercettare tutto l’intercettabile assegnando oltretutto un enorme potere alla casta dei magistrati, se non quella del “Grande Fratello”? Perché non ci atteniamo al principio costituzionale del diritto alla riservatezza nelle comunicazioni interpersonali?
I diritti liberali sotto attacco non vanno forse più difesi?
Questi sono alcuni dei nodi rimossi. Vogliamo continuare a farci del male? Continuiamo nella rimozione, che su tutte queste materie le classi dominanti, per quanto in difficoltà, una politica ce l’hanno.
Ma tutti questi nodi ne richiamano un altro: quello del socialismo. Se siamo davvero convinti della portata della crisi, delle sue conseguenze catastrofiche per le classi popolari, della spinta che darà alle politiche di guerra, come pensiamo di uscirne? Con un po’ di keynesismo in salsa post-moderna?
La verità è che bisogna abbandonare tanto il politicismo quanto il massimalismo parolaio. Confrontiamoci con i problemi dell’oggi, cominciamo a dare risposte per l’oggi, e forse la fine della letargia delle masse – che certo non dipende solo da questo – si farà più vicina.
Senza dimenticare che sarebbe ora di strappare dalla stratosfera la questione della fuoriuscita dal capitalismo e dunque dell’alternativa sistemica, aprendo finalmente un vero e proprio cantiere strategico teorico in cui mettere all’opera le migliori intelligenze. Non era questo uno dei compiti essenziali della “rifondazione”?

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