Cina-USA: prima del 2027
«Siamo noi i padroni adesso». Chissà se il presidente Obama vedeva aleggiare questo pensiero sopra la testa del suo collega cinese Hu Jintao al passato vertice del G-20 di Seul. L’inquilino della Casa Bianca sperava di portare a casa qualche cambiamento credibile (nella politica valutaria cinese) ma ha ricevuto solo un contentino. Chissà se anche il segretario al Tesoro Timothy Geithner vedeva quella nuvoletta sopra la testa dei suoi interlocutori cinesi mentre affossavano senza pietà la sua proposta di fissare un tetto agli squilibri nella bilancia delle partite correnti. E trattamento analogo ha ricevuto il presidente della Fed Ben Bernanke quando ha annunciato una nuova tornata di «espansione quantitativa» per cercare di rilanciare l’economia Usa, una mossa definita da uno dei maggiori commentatori cinesi «incontrollata» e «irresponsabile».
«Siamo noi i padroni adesso». È il ritornello che continuavo a sentire dentro la testa durante la mia visita in Cina, qualche settimana fa. Non per lo sfarzoso ricevimento, di livello olimpico, a cui ho assistito nel tempio di Tai Miao, vicino alla Città proibita: concerti di campane, arti marziali e bande di percussioni composte da sole donne sono il genere di cose che un visitatore occidentale si aspetta. A farmi capire che era cambiato qualcosa nelle relazioni tra la Cina e l’Occidente sono state la fiducia e la sicurezza, non dichiarate ma evidenti, degli economisti che ho incontrato.
Uno di loro, Cheng Siwei, mi ha illustrato a cena il piano della Cina per diventare leader nel campo delle tecnologie verdi. Tra una sorsata di vino di riso e l’altra, Xia Bin, un consulente della Banca popolare della Cina, ha sottolineato la necessità di privatizzare «tutto, pure la Grande sala del popolo (la sede del Parlamento)». E, nel suo impeccabile inglese, il professore David Li dell’Università Tsinghua ha confessato la sua insoddisfazione per il livello qualitativo dell’istruzione superiore in Cina.
Non potevo trovare interlocutori più brillanti per discutere dei due argomenti più interessanti nella storia economica odierna: perché l’Occidente, nei cinque secoli successivi alla costruzione della Città proibita, è riuscito a imporre il suo predominio non solo sulla Cina, ma sul mondo intero? E questo periodo di predominio occidentale adesso sta volgendo al termine?
Nonostante il drammatico intervallo della Grande depressione, gli Stati Uniti non hanno subito niente di paragonabile alla tragica sequela di rivoluzione, guerra civile, invasione giapponese, rivoluzione, carestia procurata dall’uomo e ancora rivoluzione (“culturale”) che la Cina ha dovuto sopportare nel corso del XX secolo. Nel 1968 l’americano medio era 33 volte più ricco del cinese medio a parità di potere d’acquisto (cioè tenendo conto del diverso costo della vita nei due paesi). Calcolato in dollari di oggi, il differenziale nel momento di picco era di oltre 70 a 1. Fu lo squilibrio globale estremo, il risultato di secoli di divergenza economica e politica. Che cosa c’era dietro? E oggi è finito?
In questi ultimi due anni sono giunto alla conclusione che l’Occidente sviluppò sei “applicazioni decisive” che il resto del mondo non possedeva. Ecco quali erano:
1) La concorrenza: l’Europa era frammentata politicamente, e all’interno di ogni monarchia o repubblica esistevano numerose entità corporative in competizione fra di loro.
2) La rivoluzione scientifica: tutte le grandi scoperte del XVII secolo nel campo della matematica, dell’astronomia, della fisica, della chimica e della biologia sono avvenute nell’Europa occidentale.
3) Lo stato di diritto e il governo rappresentativo: questo sistema ottimale di ordine sociale e politico emerse nel mondo anglofono, fondandosi sui diritti di proprietà e sulla rappresentanza dei proprietari all’interno di assemblee legislative elette.
4) La medicina moderna: tutti i principali progressi in campo sanitario nel XIX e XX secolo, incluso il controllo delle malattie tropicali, sono stati realizzati da europei occidentali e nordamericani.
5) La società dei consumi: la rivoluzione industriale avvenne dove c’era offerta di tecnologie capaci d’incrementare la produttività e la domanda di un maggior numero di beni, di miglior qualità e a prezzi più convenienti, a cominciare dagli indumenti di cotone.
6) L’etica del lavoro: gli occidentali sono stati i primi al mondo ad abbinare una manodopera più estesa e intensiva con tassi di risparmio maggiori, consentendo un prolungato accumulo di capitali.
Queste sei killer apps sono state l’elemento chiave dell’ascesa dell’Occidente. La storia della nostra epoca, che possiamo far cominciare dal regno dell’imperatore Meiji in Giappone (1867-1912), è la storia di come il resto del mondo sia finalmente riuscito a “scaricare” queste applicazioni.
Oggi il Pil pro capite della Cina è pari al 19% di quello degli Stati Uniti, mentre al momento in cui furono avviate le riforme economiche, poco più di trent’anni fa, arrivava appena al 4 per cento. Hong Kong, il Giappone e Singapore erano già arrivati a quel livello nel 1950; Taiwan ci arrivò nel 1970 e la Corea del Sud nel 1975. Secondo l’istituto di ricerca Conference Board, il Pil pro capite di Singapore ora è superiore del 21% a quello degli Stati Uniti, Hong Kong è più o meno allo stesso livello, il Giappone e Taiwan circa il 25% al di sotto e la Corea del Sud il 36% al di sotto. Solo un temerario potrebbe scommettere che la Cina nei prossimi decenni non seguirà lo stesso percorso.
L’industrializzazione della Cina è di un’ampiezza e di una rapidità senza precedenti. Nello spazio di 26 anni, il Pil cinese si è decuplicato. Il Regno Unito aveva impiegato 70 anni, a partire dal 1830, per quadruplicare il proprio Pil. Secondo l’Fmi, la quota della Cina sul Pil globale (calcolato ai prezzi correnti) nel 2013 supererà quota 10 per cento. La
Goldman Sachs insiste a prevedere che la Cina, che recentemente ha sopravanzato il Giappone, effettuerà il sorpasso del Pil sugli Stati Uniti nel 2027.Ma il secolo asiatico per certi aspetti è già arrivato. La Cina si appresta a superare l’America per quota della produzione manifatturiera globale, dopo aver già sorpassato, negli ultimi dieci anni, la Germania e il Giappone. La più grande città cinese, Shanghai, è già al primo posto fra le supermetropoli mondiali, con Mumbai subito dietro; le città americane sono molto lontane.
L’incombente crisi dei conti pubblici negli Stati Uniti accelererà senza dubbio il trasferimento del potere economico da Occidente a Oriente. Con un rapporto fra debito e introiti del 312%, la Grecia naviga già in cattivissime acque. Ma secondo la
Morgan Stanley il rapporto fra debito e introiti negli Stati Uniti è del 358 per cento. L’Ufficio del bilancio del Congresso degli Stati Uniti calcola che i pagamenti degli interessi sul debito del governo federale cresceranno, di qui al 2020, dal 9 al 20% degli introiti fiscali, al 36% nel 2030 e al 58% nel 2040. Solo l'”esorbitante privilegio” dell’America derivante dal fatto di avere la maggiore valuta di riserva a livello mondiale le concede un po’ di respiro. Ma questo privilegio è sempre più nel mirino del governo cinese.Per molti commentatori, il rilancio delle misure di
espansione quantitativa da parte della Federal Reserve sembra aver scatenato una guerra valutaria tra gli Stati Uniti e la Cina. Se «i cinesi non prenderanno misure» per mettere fine alla manipolazione della loro valuta, ha dichiarato il presidente Obama a New York a settembre, «abbiamo altri mezzi per proteggere gli interessi dell’America». Il primo ministro cinese Wen Jiabao si è affrettato a replicare: «Non fateci pressioni sul tasso di cambio dello yuan. Molte nostre compagnie esportatrici dovrebbero chiudere i battenti, i lavoratori immigrati sarebbero costretti a tornare nei loro villaggi. Se la Cina fosse colpita da disordini sociali ed economici per il mondo sarebbe un disastro».Questi botta e risposta sono una forma di
pi ying xi, il tradizionale teatro delle marionette cinese. In realtà, la guerra valutaria in corso è tra la “Cinamerica” (come definisco io le economie unite di Cina e America) e il resto del mondo. Se gli Stati Uniti stampano moneta e la Cina riesce a mantenere la sua valuta agganciata al dollaro, entrambe le parti ne trarranno beneficio. A rimetterci saranno paesi come l’Indonesia e il Brasile, che hanno visto il tasso di cambio ponderato su base commerciale apprezzarsi, dal gennaio 2008, rispettivamente del 18 e del 17 per cento.Ma adesso chi è che ci guadagna di più in questa
partnership? Con la produzione cinese che attualmente è il 20% al di sopra del livello di prima della crisi e quella degli Stati Uniti che è ancora il 2% al di sotto, la risposta sembra evidente. Le autorità americane possono ripetere quanto vogliono il mantra che “loro hanno bisogno di noi quanto noi abbiamo bisogno di loro”, e fare inquietanti allusioni alla famosa frase di Lawrence Summers sulla «distruzione finanziaria reciproca assicurata». Ma i cinesi hanno già un piano per ridurre la loro dipendenza dall’accumulo di riserve in dollari e dai sussidi all’export. È una strategia che non punta tanto a dominare il mondo come fece l’imperialismo occidentale, ma a fare nuovamente della Cina l’Impero di Mezzo, lo stato dominante nella regione dell’Asia-Pacifico.La nuova strategia
Dovendo riassumere la nuova e ambiziosa strategia di Pechino la definirei, in stile cinese, i “quattro più”: più consumi, più importazioni, più investimenti all’estero e più innovazione. In ogni caso, un cambiamento di strategia economica frutta un ragguardevole dividendo geopolitico.
Consumando di più, la Cina può ridurre il suo surplus commerciale e contemporaneamente accattivarsi la benevolenza dei suoi maggiori partner commerciali, in particolare gli altri mercati emergenti. La Cina recentemente ha superato gli Stati Uniti diventando il primo mercato mondiale dell’automobile (14 milioni di auto vendute in un anno contro 11 milioni) e secondo le previsioni la domanda nei prossimi anni dovrebbe decuplicare.
Entro il 2035, secondo l’Agenzia internazionale per l’energia, la Cina arriverà a usare un quinto di tutta l’energia globale, con un incremento del 75% rispetto al 2008. Nel 2009 consumava il 46% di tutto il carbone del mondo, secondo i calcoli del World Coal Institute, e assorbe una quota analoga della produzione mondiale di alluminio, rame, nickel e zinco. Lo scorso anno la Cina ha utilizzato una quantità di acciaio grezzo pari a due volte quella dell’Unione Europea, degli Stati Uniti e del Giappone messi insieme.
Queste cifre si traducono in grossi guadagni per i paesi che esportano queste e altre materie prime. La Cina è già ora il principale mercato di esportazione per l’Australia (22% dell’export australiano nel 2009). Assorbe il 12% delle esportazioni del Brasile e il 10% di quelle del Sudafrica. Il Celeste impero è diventato anche un importante acquirente di prodotti lavorati di gamma alta da Giappone e Germania. Una volta la Cina esportava principalmente prodotti lavorati a basso prezzo, ma ora che pesa per un quinto sulla crescita globale è diventata il nuovo mercato più dinamico per i prodotti altrui. E una cosa del genere ti procura parecchi amici.
I cinesi, tuttavia, sono comprensibilmente nervosi per i capricci dei prezzi delle materie prime. E come dargli torto, considerando le enormi oscillazioni dei prezzi negli ultimi anni? È logico dunque che cerchino d’investire di più all’estero.
Il potente fondo sovrano
Accrescere gli investimenti nelle risorse naturali in altri paesi non è solo una strategia di diversificazione finalizzata a limitare il rischio legato a un deprezzamento del dollaro, è anche una politica che consente alla Cina di accrescere il suo potere finanziario, grazie anche al suo cospicuo e potente fondo sovrano, e che giustifica gli ambiziosi piani di espansione navale. Per usare le parole del contrammiraglio Zhang Huachen, vice comandante della Flotta navale est: «Con l’espansione degli interessi economici della nazione, la Marina è determinata a offrire maggiore protezione alle vie di trasporto del paese e a garantire la sicurezza delle nostre principali rotte marittime». Il Mar della Cina meridionale è già stato dichiarato «d’interesse nazionale fondamentale» e ci sono progetti per la costruzione di porti in acque profonde in Pakistan, Birmania e Sri Lanka.
Infine, smentendo le teorie di chi vede la Cina condannata a rimanere una catena di montaggio per prodotti “progettati in California”, il grande paese asiatico ora punta maggiormente sull’innovazione: per esempio vuole diventare leader mondiale nel campo delle turbine eoliche e dei pannelli fotovoltaici. Nel 2007 la Cina ha superato la Germania per quantità di domande di brevetti. Tutto questo s’inserisce in una tendenza più generale: nel 2008, per la prima volta, il numero delle domande di brevetti in Cina, India, Giappone e Corea del Sud ha superato quello dei paesi occidentali.
Ogni potenza “entrante” pone sempre angosciosi dilemmi alla potenza “uscente”. Tenere testa all’ascesa della Germania rappresentò un costo enorme per la Gran Bretagna, mentre fu molto più semplice scivolare quietamente nel ruolo di socio di minoranza degli Stati Uniti. L’America deve cercare di contenere la Cina o di adeguarsi? I cittadini americani sono incerti al riguardo quanto il loro presidente. In una recente inchiesta del Pew Research Center, il 49% degli intervistati si è detto convinto che la Cina «non prenderà il posto degli Stati Uniti come prima superpotenza mondiale», ma il 46% la pensa al contrario.
Non è stato facile scendere a patti con un nuovo ordine globale dopo il tracollo dell’Unione Sovietica, che diede alla testa a parecchi opinionisti qui in Occidente (oggi fa sorridere ripensare a tutte le chiacchiere sulla “iperpotenza” americana). Ma la Guerra fredda durò poco più di quarant’anni, e l’Unione Sovietica non fu mai vicina a superare gli Stati Uniti sul piano economico. Quella a cui stiamo assistendo oggi è la fine di cinque secoli di predominio occidentale. Stavolta lo sfidante da Est fa sul serio, economicamente e geopoliticamente. Forse i gentiluomini di Pechino non sono ancora i padroni. Ma di certo non sono più gli apprendisti».
(Traduzione di Fabio Galimberti)
* Fonte: Il Sole 24 Ore del