AGRICOLTURA: PROTESTA CONTRO CHI E PER CHE COSA di Moreno Pasquinelli
Dobbiamo contrastare l’élite mondialista, la sua ideologia transumanista, la sua strategia? Certo che sì, ma per farlo occorre cognizione di causa evitando di dire sciocchezze depistanti alla cui base sta l’idea di origine religiosa che la lotta sia tra il bene e il male — di cui gli orchi dell’élite sarebbero incarnazione e il cui loro scopo sarebbe, niente po po di meno di meno, che sterminare noi umani tutti. Diamoci una regolata. Smettiamola di descrivere quest’élite come una setta di assatanati. Essa è l’avanguardia di una potentissima classe di plutocrati decisa a compiere un epocale balzo di tigre verso quello che noi chiamiamo Cybercapitalismo. Ve la volete fare semplice urlando al “complotto”? Chiamatelo come volete ma, a meno che non si pensi che sarà la Divina Provvidenza a salvarci, politica dobbiamo fare, ciò che chiede la costruzione di una grande e credibile forza popolare, quindi tenere i piedi per piantati per terra e, nella testa, una visione del mondo e della società all’altezza dei tempi. Occorre poi “un’analisi concreta della situazione concreta” che sappia individuare le contraddizioni nel campo nemico, i punti deboli del suo piano, ciò al fine di evitare ogni attacco sconclusionato e velleitario che si concluderebbe nella sconfitta certa.
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Ma veniamo all’agricoltura. Utilizzando la tecnica scandalistica di spararla grossa per aumentare vendite, audience e click monetizzabili, alcuni conduttori televisivi, certa stampa di governo (vedi La Verità e la cazzata secondo cui la regione Emilia Romagna pagherebbe gli agricoltori affinché smettano di coltivare la terra), nel web roboanti “influencer”, sbraitano contro i progetti dell’élite, molto spesso senza conoscerli davvero. Cosa resta di questo isterico gridare al lupo! l lupo!? Che quando il lupo arriverà davvero non se ne accorgeranno. Il succo dei loro discorsi qual è poi? Tornare a come stavano le cose. Ma le cose, vogliamo dirlo chiaro e tondo, non possono tornare a come stavano. Chi pensa che si possa ritornare al capitalismo che fu, sia esso keynesiano o peggio al liberismo e al consumismo senza globalizzazione, si illude, e di grosso. Mentre certi mutamenti sono irreversibili si può e si deve conservare ciò che c’è di buono di quello che abbiamo alle spalle, non la parte cattiva (e ce n’era in abbondanza). Ciò vale anche per l’agricoltura europea.
Agricoltura nell’Unione europea. Ma di cosa stiamo parlando? Partiamo anzitutto dal fatto, ahinoi, che per l’agricoltura, in modo più forte che per altre settori economici, l’Unione europea ha poteri d’indirizzo e sostanziali che sono vincolanti per ogni singolo stato membro. Stiamo ai fondamentali: il settore agricolo della Ue da lavoro a 9milioni e mezzo di persone, quello addetto alla produzione di cibo 3milioni e settecentomila. Se si considera che gli occupati nell’Unione (dato 2022) si aggirano attorno ai 193 milioni abbiamo che chi lavora nei campi e nell’agroindustria rappresenta il 6,74% del totale. Per quanto concerne il PIL i due settori, pur così decisivi per la vita stessa, hanno fatto nel 2020 un modesto 1,3%. — QUI tutti i dati statistici.
Ma il dato più rilevante, a dimostrazione della crisi gravissima in cui si dimena l’agricoltura dell’Unione europea è che questa sopravvive alla globalizzazione e al dogma del libero mercato solo grazie ai forti sussidi — il 30% dell’intero budget comunitario è infatti destinato alla Politica Agricola Comune, per un totale che supera i 54 miliardi. [vedi tabella a lato e questa indagine del CGD].
Avremo presto modo, come Fronte del Dissenso, di spiegare cosa davvero siano e perché contestiamo, la Politica Agricola Comune (PAC 2023-2027), l’European Green Deal (QUI il lungo testo prodotto dalla Commissione europea nel 2019), che la successiva strategia del Farm to Fork — strategie giustificate in nome del rispetto dell’Agenda 2030 per lo Sviluppo Sostenibile (approvata dall’Assemblea Generale delle nazioni unite nel settembre 2015). Si tratta, nella prospettiva del passaggio al Cybercapitalismo, dell’attivazione di processi che cambieranno a fondo il sistema economico e sociale mondiale tra cui le due sfere interconnesse dell’agricoltura e dell’alimentazione (di cui l’Agricoltura 4.0 è un altro decisivo tassello). L’élite globalista dominante ha un piano e procede spedita per realizzarlo.
L’ambiente, stuprato dall’isteria produttivistica, va protetto, così come la salute pubblica. Inutile dire che il punto di partenza è proprio l’agricoltura. La situazione è drammatica, e non certo per l’uso di fonti fossili o per colpa dei piccoli produttori. E’ tutto il sistema che è marcio. Non si può accettare di proseguire col consumo del suolo (da alcune stime il 70% dei suoli in Europa è in condizioni pessime); non si può accettare l’uso micidiale di veleni e glifosato per accrescere la produttività a danno della terra e della salute pubblica; non si può più tollerare l’uso di OGM; non si può difendere l’attuale sistema degli allevamenti zootecnici intensivi con annesso e spropositato uso di esiziali prodotti farmaceutici. Si potrebbe continuare ma è evidente che questo sistema non è difendibile, che non è ammissibile attestarsi su una linea di mera difesa dell’esistente, che occorre quindi una profonda riconversione agro-ecologica di tutto il settore. Indicare quale debba essere questa riconversione è uno degli aspetti fondamentali, se non addirittura il primo, di un’alternativa complessiva all’attuale sistema che si basa sul profitto privato come scopo supremo dell’economia, quindi il saccheggio della natura, lo sfruttamento dell’essere umano, un consumismo patologico.
La cosa non meno importante è che non si può conservare la struttura oligarchica dell’agroindustria, sia per quanto concerne la produzione che la distribuzione — sono infatti i nuovi latifondisti ad accaparrarsi il grosso delle agevolazioni e dei finanziamenti della Unione europea: oltre l’80% dei fondi PAC vengono accaparrati dal 20% delle grandi aziende agricole. Di qui il vero obiettivo della strategia dell’eurocrazia: colpire i piccoli produttori, che senza i sussidi chiuderebbero bottega, per quindi consolidare il processo di concentrazione di produzione e distribuzione in poche mani. Non sono infatti i grandi proprietari che stanno protestando nelle strade europee ma proprio quelli più piccoli e medi i quali, se si va avanti in questo modo, saranno costretti presto a chiudere bottega ed a vendersi ai giganti, trasformandosi in loro dipendenti.
Una conferma della forza politica della grande industria agricola e del cibo viene confermata dal successo delle loro lobbi in sede europea. Grazie alla loro pressione anche quel poco di buono che c’è nel Green Deal è stato de facto cancellato. Così si spiega il voto contrario del Parlamento di Strasburgo sul Regolamento SUR per la riduzione dei pesticidi; la liberalizzazione dei nuovi OGM; l’indebolimento del Regolamento europeo sul ripristino degli ecosistemi (di cui la riduzione del 4% della aree a seminativo); il rinnovo deciso dalla Commissione dell’uso del glifosato per altri dieci anni.
Combattere la concentrazione oligopolistica (che appunto le normative dell’eurocrazia, la distribuzione dei sussidi e tutta la politica economica liberista favoriscono), dovrebbe essere, nella scala delle rivendicazioni degli agricoltori, il primo punto di attacco, subito dopo dovrebbe venire appunto la proposta di una profonda riconversione agro-ecologica. Quindi, posto che le agevolazioni e i sussidi ai piccoli ed ai medi produttori non vanno abolite, segnalare che essi dovrebbero essere vincolati alla produzione di cibo sano ed al rispetto dell’ambiente.
Veniamo infine alle proteste dei piccoli e medi agricoltori. Posto che le proteste degli agricoltori europei (oggi in Germania e Francia, prima in Olanda e altri paesi dell’Est) vanno sostenute, è evidente il loro limite. Viene contestato, spesso a mezza bocca, l’European Green Deal e la PAC, ma in verità si lotta anzitutto contro la cancellazione dei sussidi all’agricoltura, in primis quelli al gasolio agricolo, quindi alle agevolazioni sull’IVA per i fertilizzanti chimici e per i velenosi prodotti fitosanitari tra cui il glifosato. Si lotta insomma come disperati, per non tirare le cuoia, contro il muro dei governi asserviti all’eurocrazia e quasi tutte le complici e colluse (col potere) associazioni di categoria. Proteste, ripetiamo, legittime ma che così rischiano di finire in un vicolo cieco.
Ciò vale in modo particolare in Italia. Parliamo della protesta annunciata per il 22 gennaio da alcuni gruppi di agricoltori dei quali si è messo alla testa il famigerato avventuriero Danilo Calvani (CRA, Comitati Riuniti Agricoltori). Famigerato per il ruolo nefasto che ebbe nel Movimento 9 Dicembre che scosse l’Italia nel dicembre 2013. Quella che si svolgerà il 22 gennaio, contrariamente a quelle che si sono svolte in Olanda e più recentemente in Germania, ancor prima di nascere, è instradata su un binario morto, e ciò proprio a causa di chi dichiara di guidarla, Danilo Calvani appunto.
Il picaresco soggetto ha infatti impresso il suo inconfondibile timbro qualunquistico alla protesta, una brutta copia del Movimento dei Forconi siciliano e di quello del 9 dicembre. Nessun obbiettivo concreto da portare a casa, nessun accenno alle politiche agricole dell’Unione europea, nessun bersaglio preciso, nessuna vera piattaforma, nessuna proposta di politiche agricole alternative, neanche l’ombra di una modalità organizzativa funzionale. [vedi grafica a lato] Cosa resta? Una fanfaronata velleitaria senza né capo né coda, in stile do cojo cojo do chiappo chiappo.
Il futuro dell’agricoltura italiana e di chi la tiene in vita è troppo importante per lasciarli in mano a politicanti spacconi come Danilo Calvani
ottima riflessione. ampia convergenza,
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